Partecipare alla produzione del cibo, prepararlo, indagare sulle origini di quello acquistato, comprare quello che si produce il più vicino possibile, ma anche studiare le devastazioni provocate dai fabbricanti di alimenti e pensare il cibo come cultura, non sono azioni che si riferiscono soltanto al bisogno di favorire un’agricoltura diversa. Si riferiscono prima di tutto al modo in cui viviamo, al desiderio di riscoprire e trasformare il significato di comunità. Questa modesta inchiesta (19 articoli) di Territori Educativi prova a raccontare come dentro e intorno a molte scuole il cibo è parte di una convivialità comunitaria, tra orti scolastici, mense autogestite, laboratori di autoproduzione, percorsi di educazione alimentare, scuole aperte e cucine del mondo
“Non si può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si ha mangiato bene” (Virginia Woolf)
Più o meno centocinquant’anni fa, in tutto il mondo, il cibo ha smesso di essere parte della convivialità comunitaria: è accaduto quando si è cominciato a pensare che il corpo umano fosse solo un meccanismo che per funzionare ha bisogno di circa tremila calorie al giorno. Il cibo, ha spiegato Gustavo Esteva in un testo fondamentale – Torniamo alla tavola. Sovranità alimentare e cultura del cibo (Asterios) – è così diventato alimento. Per questo oggi dobbiamo occuparci di ciò che finisce sulla nostra tavola, dell’atto di mangiare ma anche dell’insieme delle attività che lo precedono e lo rendono possibile. Partecipare alla produzione del cibo, prepararlo, indagare sulle origini di quello acquistato, comprare quello che si produce il più vicino possibile, ma anche studiare e raccontare le devastazioni provocate dai fabbricanti di alimenti, non sono azioni che si riferiscono al bisogno di favorire un’agricoltura contadina, anche se lo include. Si riferiscono al modo in cui viviamo, al desiderio di riscoprire e trasformare il significato di comunità.
Ci sono tanti modi perché il cibo sia parte di una convivialità comunitaria. Questa modesta inchiesta prova a individuarne alcuni tra quelli che compaiono dentro e intorno alle scuole.
Non sono poche, ad esempio, le scuole che negli ultimi anni hanno scelto di accompagnare bambini e bambine a vivere l’esperienza dell’orto. In Siamo giù nell’orto raccontiamo quanto accade alla Camozzi di Bergamo, scuola aperta e partecipata impegnata anche nel gruppo di lavoro sulle food policies nato nella rete di quartiere. Sull’importanza di realizzare nel cortili scolastici un orto scrive Luciana Bertinato, insegnante, amica e collaboratrice di Mario Lodi (Ci vorrebbe un orto in ogni scuola). Dall’orto alla merenda con pane e olio il passo è più breve di quanto non si pensi: lo spiega Maria De Biase, oggi dirigente scolastica all’IC Torre Orsaia (Salerno), nell’articolo La scuola della terra in cui racconta come e perché insieme a docenti, genitori e ragazzi ha trasformato per diverso tempo, pur tra molte difficoltà, la scuola Teodoro Gaza di San Giovanni a Piro in uno strepitoso laboratorio di autoproduzione e di riciclo.
“Saperi e Sapori” è invece il frutto di un’idea dei genitori di Scuole Aperte Partecipate Brindisi rivolta a bambini, genitori e nonni del territorio: l’antica arte popolare di raccontare attraverso il cibo e di cucinare in compagnia di storie diventa un ciclo di appuntamenti per la trasmissione di saperi e per stare bene insieme. Ne parliamo in Abbiamo impastato le orecchiette insieme e soprattutto in La spianatoia di legno e i racconti di una nonna.
Sul cucinare insieme ai bambini interviene Federica Buglioni: in Bambini in cucina, a casa e a scuola spiega cosa funziona e cosa non funziona nell’educazione alimentare, a cui dedica da molti anni studi, straordinari laboratori per bambini e adulti (con l’associazione Bambini in cucina di Milano) e libri, come Uovo sapiens, in cui accompagna i più piccoli a osservare, sperimentare e conoscere il cibo da un punto di vista scientifico (ne scrive Luisa Ziliani, maestra esperta del metodo Montessori e bibliotecaria, in Uovo sapiens e Maria Montessori). Federica Buglioni è anche autrice dell’articolo Una proposta per non cucinare mai più: nove strepitosi consigli per liberarsi definitivamente dalle preoccupazioni che assillano i genitori che ogni giorno cucinano e combattono per la cosiddetta “sana alimentazione”.
Tutta la bellezza del cucinare insieme affiora quando si fa il pane, un rito che dovremmo riscoprire più spesso in tanti non solo per mantenere vivo un patrimonio straordinario di saperi che ha più o meno diecimila anni e che ha nutrito popoli diversi ovunque, alimentando anche arte e poesia. Dovremmo fare nostro quel rito, spiega Rosaria Gasparro (per molti anni maestra nel Salento, dove fa parte dell’Associazione Attacco Poetico) in Il gesto del pane, la sua lezione perché quando si prepara e si condivide (cum panis) il pane comincia a sentirsi profumo di comunità e perché il tempo dell’attesa, quello che serve al lievito, è tempo sottratto alla mercificazione della vita.
Intanto a Roma un gruppo di mamme provenienti da tanti paesi diversi, tra una festa e un’iniziativa didattica, si è messo insieme per assicurare menù con gustosi e piatti di tutto il mondo: di questa bellissima esperienza parla Fathia dell’Associazione genitori Di Donato nell’intervista La cucina del mondo. Restiamo in cucina ma ci spostiamo a Ferrara: l’articolo Questa è una mensa autogestita di Mauro Presini ci aiuta a scoprire una delle numerose, ma poco conosciute, storie di mense scolastiche autogestite con il supporto dei genitori. Di certo, ancora oggi vi sono regioni nelle quali i genitori non hanno mai sentito parlare del diritto a scegliere il cibo dei figli anche a scuola, come racconta a Sabina Calogero l’avvocato Giorgio Vecchione, che con lei e pochi altri ha condotto per anni e anni una battaglia estenuante su questi temi (Al genitore non far sapere…).
A proposito di scegliere il cibo: nelle periferia di Torino c’è un’esperienza unica in Italia, quella di Casa Acmos, messa su per consolidare i percorsi avviati in tante scuole superiori con cui favorire, soprattutto negli orari extrascolastici, attività di approfondimento sui temi dell’educazione alla cittadinanza. In questo periodo a Casa Acmos abitano quattordici giovani insieme a nove richiedenti asilo. Il consumo critico orienta la spesa quotidiana per il cibo: i prodotti che arrivano in casa provengono dall’invenduto della grande distribuzione, dal Gruppo di acquisto solidale e dalla spesa nei supermercati che più certificano l’origine dei prodotti, liberi da mafia e caporalato (Benvenuti a casa Acmos). Insomma, l’educazione alimentare non può prescindere dall’impatto dell’industria alimentare. Del resto, come spiega Silvia Ribeiro in Prendi uno e paghi tre, per ogni euro che spendiamo per il cibo industriale, altri due ne spende ogni Stato per tentare di porre rimedio con un sussidio invisibile ai catastrofici danni sociali e ambientali che provoca la catena alimentare dominata da una ventina di colossi transnazionali. Quei colossi aggrediscono ogni giorno in tanti modi diversi l’ormai nota sovranità alimentare che Via Campesina – il più grande movimento planetario di organizzazioni contadine – ha fatto conoscere in tutto il mondo: la buona notizia, come racconta un opuscolo illustrato di Via Campesina che alleghiamo a questa inchiesta, è che i contadini e le contadine sono già in grado di determinare e proteggere in ogni angolo del mondo il proprio sistema alimentare e agricolo (Noi alimentiamo il mondo).
Di educazione alimentare si occupano altri due interessanti percorsi qui descritti. Il primo è stato avviato da Scuole Aperte Partecipate Palermo con i ragazzi e le ragazze del liceo Regina Margherita e punta a creare uno spazio pubblico di ricerca e confronto aperto a tutta la città sui temi dell’alimentazione (Il nostro cibo). Il secondo lo raccontano Francesco Muraro, dirigente scolastico, e Giulia Del Vecchio, insegnante dell’IC Francesco Cappelli di Milano, che qui tanti chiamano “scuola aperta all’aperto”: da diversi mesi bambini e bambine di diciotto classi hanno cominciato, grazie ai migranti, a conoscere meglio il territorio, a cominciare dai piccoli ristoranti di cucina eritrea, i negozi di alimentari che appartengono a geografie diverse, i bar di quartiere e di mondo (La cucina eritrea di Porta Venezia).
Queste e altre esperienze dimostrano prima di tutto il forte legame tra conoscenza e cibo. “Si può dire che il sapere e il sapore, nel profondo, sono la stessa parola… – scrive Massimo Angelini, autore di Ecologia della parola per Pentàgora – Sapere qualcosa implica che va assaggiato… Si conosce con l’intelletto, ma si sa attraverso i sensi…” (Il sale). Ma ricordano anche che il sistema alimentare dominante, dove il cibo è prodotto non tanto per essere mangiato ma per essere venduto, non è l’unico sistema alimentare possibile. Per questo abbiamo bisogno prima di tutto di nuovi modi di vivere. Del resto è accaduto spesso: modi di vivere diversi cominciano a rivelarsi dall’atto di mangiare. Torna in mente un brano potente, e per tante ragioni attuale, tratto da un capolavoro di Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve:
«… Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. Mnié klocetsia iestj (“Vorrei mangiare”), dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. Spaziba (“Grazie”), dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. Pasausta (Prego), mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi… Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini… Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere…».
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