La guerra coglie sempre di sorpresa, perché è ciò “a cui non si vuol credere” (Sigmunt Freud). Ma, superato l’iniziale effetto di annichilimento, si fanno immediatamente chiari i legami con la società che la prepara, si vedono le ragioni contingenti che la fanno apparire ogni volta “necessaria”, ma anche i tratti che la contraddistinguono al di là di ogni tempo e luogo, e che hanno indotto a pensarla come parte immutabile della “natura umana”. In questo connubio paradossale di “permanenza” e di modificazioni storiche, la guerra assomiglia, non casualmente, al dominio maschile.
Ciò che rende la guerra anche solo pensabile è l’eclissarsi, nel giudizio e nella percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri, dell’individuo visto nella sua singolarità di corpo vivente e senziente. Uccidere in guerra grandi quantità di civili non ha più l’effetto sconcertante che ancora all’inizio del Novecento aveva per Freud (La delusione della guerra, 1915), nonostante che la potenza delle armi sia aumentata e così pure le crisi umanitarie e l’esodo dei profughi come inevitabili conseguenze.
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L’indifferenza ai massacri sembra essere andata paradossalmente di pari passo con la promiscuità di “etnie”, lingue e religioni, effetto della globalizzazione economica e dei mezzi di comunicazione, una realtà che oggi interessa l’intero pianeta. Non potendo più affidare la propria unità, identità e appartenenza al confronto col “diverso”, né misurare la propria superiorità su “nature inferiori”, le nazioni umane conoscono per la prima volta l’insicurezza e i pericoli di una progressiva indistinzione. Se c’è un “nemico”, non può che annidarsi nelle maglie del sistema dominante da cui esce imprevedibile e subdolo, come è stato in tempi recenti il Covid, la pandemia.
È per questo che il riarmo dell’Europa, salutato con grande enfasi di applausi e standing ovation anche dal nostro parlamento, ha dovuto far ricorso, per ottenere il necessario compattamento tra Stati e partiti in perenne conflitto e competizione, a un accorpamento fondato sulla logica più arcaica del patriarcato dell’“amico/nemico”, “civiltà/barbarie”? Come mai si è passati con tanta rapidità da “Più Europa” – che avrebbe significato riconoscere che anche la Russia è parte dell’Europa, come l’Ucraina -, alla “russofobia” della guerra fredda, che oggi rischia di incendiare un mondo già segnato da crisi di vario genere? Imperitura, al di là dei mutevoli contesti storici e politici, sembra essere ancora una volta quell’ideale di “virilità guerriera” sulla cui costruzione mancano ancora consapevolezze e conoscenze adeguate, nonostante un secolo e oltre di femminismo. Rassicurante, al di là dei massacri di civili e delle devastazioni, sembra essere il fatto che la guerra riporta un ordine sempre più minacciato: quello dei ruoli, considerati ancora “naturali” del maschi e della femmina, l’uomo in armi, le donne alla cura dei figli e della quotidianità minacciata.
Elena Beisso dice
Non si deve mai dare nulla per scontato. Tornano prepotenti i ruoli.
Luciana Ceccarelli dice
E così sono scomparse dai radar le donne afghane, nessuno ne parla più.
Gabri dice
La guerra : il solito gioco-sfida tra uomini per dimostrare al mondo chi è più virile, più forte, più coraggioso e potente. Il solito gioco-sfida tra ragazzini per dimostrare chi ce l’ha più lungo.