Alcuni anni fa Svetlana Aleksievič ha percorso per molti mesi l’intero territorio dell’Urss e in Afghanistan è andata alla ricerca di soldati, ufficiali, infermieri, madri, vedove, reduci di una guerra di menzogne. A loro ha chiesto cosa si prova in guerra, perché la si fa, perché si uccide, cosa spinge un uomo ad accettare tanto orrore. Se ti dicono che devi uccidere, tu uccidi: questa è la guerra. Lo straordinario libro in cui Aleksievič ha raccontato il punto di vista delle persone comuni, scrive Emilia De Rienzo, non solo cancella la possibilità che si possa ancora giustificare la guerra, ma dimostra anche che essere pacifisti non è un proclama, non è una dichiarazione soltanto, è prima di tutto “un modo diverso di stare al mondo, di guardare la realtà, è un ri-creare noi stessi partendo dalla nostra fragilità…”
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“La guerra… ha un significato riposto che mi tormenta sempre. Sono cresciuta in mezzo a racconti di guerra. La rivoluzione, la guerra civile, la seconda guerra mondiale… Ma nei libri che ne parlavano ho sempre sentito la mancanza di qualcosa di importante. Si trattava pur sempre della storia dello Stato o delle idee generali, ma non dell’anima dell’uomo. A interessarmi era ciò che le persone raccontavano della guerra a casa propria e non nelle riunioni ufficiali e nelle celebrazioni solenni… Voglio mettermi a cercare e a raccogliere non i racconti degli eroi ma quelli della gente comune”. In queste parole è racchiusa l’urgenza esistenziale che muove la giornalista e scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la Letteratura 2015, alla ricerca di “autentiche” testimonianze di guerra. Che cosa si prova in guerra, perché la si fa, perché si uccide, cosa spinge un uomo ad accettare tanto orrore. Cosa sentono e provano i ragazzi, gli uomini, le donne che ci sono dentro, che la vivono o l’hanno vissuta?

Quelle di Svetlana Aleksievič dovrebbero essere le domande di tutti noi, oggi più che mai che abbiamo la minaccia di un’altra guerra ai nostri confini.
Aleksievič vuol sapere di più, vuole entrare nel cuore dell’uomo che combatte o ha combattuto senza giudicarlo, senza condannarlo. Vuole far parlare gli uomini comuni, quelli che vanno al “macello” credendo di fare la cosa giusta.
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Svetlana Aleksievič percorre per quattro anni l’intero territorio dell’Urss, va in Afghanistan alla ricerca di soldati, ufficiali, infermiere, madri, vedove, reduci di una guerra di menzogne, che di fatto fu contro il popolo afghano e non per la sua emancipazione. Le testimonianze sono tutte in prima persona, delle vere e proprie confessioni, in cui i protagonisti non hanno un nome, sono figure che si mettono a nudo, uomini sconfitti dalla guerra, uomini segnati per sempre.
Eppure i soldati russi erano partiti entusiasti, credendo in quello che andavano a fare, pensando di diventare degli eroi, di servire la loro patria e migliorare l’Afghanistan. E se ti dicono che devi uccidere, tu uccidi. Questa è la guerra.
La guerra è ai loro occhi un’avventura straordinaria, un rito di passaggio per diventare un uomo. Ma la guerra ti cambia, quello che non credevi di diventare, lo diventi.
Alcuni stralci del libro:
“Adesso mi vede a casa mia, seduto in poltrona davanti al televisore. Potrei mai uccidere un uomo? Ma se non farei male neppure ad una mosca! I primi giorni, addirittura i primi mesi, quando le pallottole falciavano i rami dei gelsi, la sensazione era di irrealtà… In un combattimento, lo stato d’animo è tutto diverso… Corri e intanto cerchi il bersaglio… Davanti a te… lateralmente… Non ho tenuto il conto di tutti quelli che ho ammazzato… Ma correvo… Cercavo il bersaglio… Qui… Là… Un bersaglio mobile e vivo… E io stesso lo ero… Qui… Là… Un bersaglio mobile e vivo… No, dalla guerra non tornano degli eroi… Non da laggiù, non da quella guerra… (…) Non sottomettete l’uomo a prove inumane non le sopporterà”. (Un consigliere militare)
“Uno dei nostri medici è stato ad un certo punto destinato ad un’unità combattente. La prima volta che è tornato da un’incursione, piangeva”.
Mi hanno insegnato tutta la vita a curare. E oggi ho ucciso… Cosa mi avevano fatto perché li uccidessi?”. (Un’infermiera)
“Dovevo convincermi io stessa che mio figlio aveva potuto davvero ammazzare un uomo. Li ho interrogati a lungo e ho capito: sì, aveva potuto. La questione della morte, dell’uccidere un uomo non suscitava in loro particolari sentimenti, di quelli che si incontrano abitualmente in un uomo normale, che non ha mai visto il sangue. Parlavano dell’Afghanistan come di un lavoro in cui si doveva ammazzare. In seguito mi è capitato di incontrare dei ragazzi anche loro reduci dall’Afghanistan i quali erano andati in Armenia dopo il terremoto, con le squadre di soccorso. Volevo sapere se avevano avuto paura, che cosa provavano alla vista della morte, questa per me era ormai diventata una specie di idea fissa. No, non avevano paura di niente e anche il sentimento della pietà si era affievolito. Membra strappate… Corpi schiacciati… Crani, ossa… Intere scolaresche sepolte dai crolli… Bambini seduti ai loro banchi a un tratto finiti sotto terra. Ma quelli ricordavano e raccontavano altre cose… Di come avevano riportato alla luce delle cantine ben fornite, il cognac e il vino pregiato che avevano bevuto… Scherzavano: ci vorrebbe un altro buon scrollone, però in un paese caldo, dove cresce la vite… Le pare che siano sani di mente? Che siano psicologicamente normali?” Parti con la divisa e cominci a perdere te stesso. Il terrore modifica e uccide, comunque, ovunque”. (Una madre)
“Perché vuole costringermi a ricordare? Non sono neanche più riuscito a indossare i miei jeans e le mie camicie di prima della guerra, perché erano ormai gli abiti di un altro, di una persona ormai estranea, anche se mia madre mi assicurava che avevano conservato il mio odore”.
Quello che io constato è che c’è la tentazione di molti di eludere certi problemi, quelli che ci potrebbero rattristare, obbligare a pensare. Preferiamo l’evasione, l’intrattenimento, il divertimento. Preferiamo “non pensarci”. E certi libri, forse i più impegnativi come quello che ho citato, si tende a scartarli. Ed invece, sono proprio quelli che ci aiuterebbero a non viaggiare sempre in superficie, a riflettere, a uscire da una logica di schieramento per entrare dentro i problemi senza giudicare gli altri, ma vedendo cosa posso fare prima di tutto con me stesso, poi con gli altri.
Gli intervistati da Aleksievic sono i testimoni di un immaginario tribunale: con i loro racconti di una spaventosa verità, cancellano la possibilità che si possa ancora giustificare la guerra. Queste testimonianze dovrebbero essere un antidoto a qualsiasi futura tentazione di muovere la guerra. Svetlana Aleksievic, con molta umiltà e dedizione dà voce in questo libro a coloro che la storia esclude, coloro a cui gli stati tolgono la parola e che spesso dimenticano.
Ma questo libro ci fa comprendere che essere pacifisti è molto più impegnativo di quanto non crediamo. Non è un proclama, non è una dichiarazione soltanto, è un modo diverso di stare al mondo, di guardare la realtà, è un ri-creare noi stessi partendo dalla nostra fragilità. È riconoscere e valorizzare in noi e negli altri la fragilità. E agire ogni giorno per costruire una nuova umanità. È stare in mezzo a chi è in difficoltà. È non smettere mai di raccontare la loro sofferenza, ciò che un uomo è capace di fare a un altro uomo. Ma è anche ricordare che esistono persone che si impegnano ogni giorno perché là dove loro sono un altro mondo sia possibile.
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
(Giuseppe Ungaretti)
Kafka disse: “la guerra è la
sconfitta dell immaginazione”, la capacità di vedere un te stesso nella altro. Basta questo.