C’è un lessico che va smascherato per la sua pericolosità: l’atteggiamento e l’immaginario guerrafondaio prende forma, in un clima di isteria e di accentramento decisionale, che distoglie lo sguardo dalle connessioni, esalta i miliardari benefattori, punta tutto su strutture gerarchizzate e sul presunto deterrente penale. “Se questa epidemia ci deve insegnare qualcosa auguriamoci sappia guidarci a una più coerente presa di coscienza dei comportamenti necessari – scrive Claudio Tosi -, a una maggiore consapevolezza della reciprocità delle condizioni e della unicità dei destini”. Insomma, ci salviamo e creiamo un mondo nuovo se non alimentiamo richieste di essere gestiti dall’alto. “Ma corriamo un pericolo mortale!”. Certo, ma chi è un pericolo mortale, il virus o la sua diffusione? “Se è la seconda, che non ci serva l’esercito a farci attuare i comportamenti corretti”

In questi giorni, sballottati da uno sconvolgimento così intimo da trasformare tutti i nostri schemi quotidiani, non abbiamo reagito allo strutturarsi di un lessico che va invece smascherato nella sua pericolosità. Occupato a ristrutturare spazi e modalità di connessione con il mondo e mettere privato e pubblico sullo stesso tavolino abbiamo sentito solo come sottofondo un montare roboante di aggressività umanocentrica.
Ora però ferisce l’atteggiamento guerrafondaio adottato da interi stati e l’invocare la concentrazione delle decisioni che viviamo in Italia, dove di guerra non si parla, ma di drastica limitazione delle libertà assolutamente si.
Chiariamo: personalmente sono d’accordo e seguo scrupolosamente le direttive che ci siamo dati in termini di isolamento, di precauzioni, di distanze, di cura delle relazioni distali con chi è solo o fragile. Lo faccio “per gli altri e per me”, con una bella formula usata da Ambrosini per il volontariato, rendendomi conto che posso essere un inconsapevole vettore di contagio in mezzo a potenziali contagiati inconsapevoli. E che lo sforzo è rallentare la diffusione del contagio quel tanto che permetta al sistema sanitario di non dover fare “la scelta di Sophie” e poter curare tutti.
C’è un problema, un’emergenza, un allarme certo, ma non siamo in guerra, perché non c’è un nemico che ci “attacca”, ma un virus potenzialmente micidiale che sta andando in giro inconsapevole degli effetti che provoca; un po’ come noi quando costruiamo negli alvei dei fiumi o deforestiamo per profitto… Allora perché usiamo queste immagini? E che conseguenze hanno?
Fondamentalmente questo linguaggio sposta l’attenzione dalle relazioni alle cose. Distoglie lo sguardo dalle connessioni, dai “tra”, dai “verso” e punta l’indice sulle cose, il Virus, il CoronaVirus. Noi non c’entriamo, il nemico è lui (hanno un genere i virus?) e va braccato, isolato, battuto. Perché “andrà tutto bene” e potremo riprendere la vita di un tempo.
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Ma non avevamo all’inizio ipotizzato che proprio il separare i destini umani da quelli del più vasto sistema naturale potesse essere causa profonda di questa situazione? E non ci siamo emozionati alla pacata poesia di Mariangela Gualtieri, quando ci richiama al rientro dell’uomo nell’alveo della natura, al rispetto di quella “legge che tiene ben guidato l’universo intero” e arriva addirittura a supporre che il virus sia una nostra strategia per costringerci a rallentare?
Questa apertura a una consapevolezza più ampia è durata un attimo, poi, incuranti del cercare un pensiero nuovo per un momento inedito (come ci invita a fare Lorenzo Romito), abbiamo nuovamente inforcato gli occhiali di sempre e iniziato a “combattere”. E qui entra in gioco l’altra eccezionalità del momento, che a ben guardare sembra necessaria solo in un clima di isteria: l’accentramento decisionale, i duri che entrano in gioco perché il gioco si è fatto duro, l’ingresso vietato e i nuovi addetti ai lavori.
Abbiamo il paese con una delle culture più diffuse di partecipazione civica e di volontariato, sia laico che religioso. Abbiamo una delle reti di solidarietà più capillari che esista e anche un paese con una distribuzione territoriale di paesi e contrade felicemente parcellizzata e diffusa. Perché escludere la gran parte di queste forze dall’intervento di sostegno alle fasce deboli? Perché la concentrazione su strutture gerarchizzate e la scelta di catene di comando unificate? Perché la scelta di puntare sul deterrente penale e sul controllo di polizia?
E l’altro fronte dell’accentramento, se possibile quello più odioso, è la concentrazione dei benefattori. I Berlusconi e Briatore che fanno il “bel gesto”, le Fondazioni che accumulano donazioni e le veicolano onestamente, certo, ma dove pensano meglio, senza uno straccio di pianificazione pubblica, con un occhio ai propri territori, accaparrando solidarietà e negando pluralità e protagonismo. È miope e aberrante: scaviamo giornalmente da soli e volontariamente un solco che distorcerà permanentemente l’orografia della partecipazione. Io mi batto per una patrimoniale con aliquote progressive che impegni in misura maggiore i più facoltosi, che costituisce una misura solidale e sancisce la scelta della comunità. La donazione abdica al privilegio e ci aggiunge il prezzo della riconoscenza.
Se questa epidemia ci deve insegnare qualcosa auguriamoci sappia guidarci a una più coerente e consapevole presa di coscienza dei comportamenti necessari, a una maggiore consapevolezza della reciprocità delle condizioni e della unicità dei destini. Non a una acquiescenza verso le limitazioni, una dipendenza dagli obblighi, una drammatica richiesta di essere gestiti dall’alto.
“Ma corriamo un pericolo mortale!”. Certo, ma di nuovo, a ben guardare, chi è un pericolo mortale? Il virus o la sua diffusione pandemica? E allora, se è la seconda, come ci ripetono continuamente i media, che non ci serva l’esercito a farci attuare i comportamenti corretti. Non sia più forte il deterrente di una multa rispetto a quello della malattia. Non sia necessario istituire il coprifuoco per resistere a dare un party. Sia inutile la chiusura dei parchi per non vederci andare tutti insieme alla fontanella.
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