Una profonda quanto leggera incursione critica sul lavoro, una voce fuori dal coro: “Maledetta la Repubblica fondata sul lavoro”, di Alessandro Pertosa e Lucilio Santoni, è un libro coraggioso, edito da Gwynplaine. Di seguito, la prefazione.
di Marco Calabria e Gianluca Carmosino
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A mo’ di premessa*
“Considerate la domanda più comune che ci viene rivolta quando siamo abbastanza cresciuti per capirla: ‘Cosa vuoi fare da grande?’. Il presupposto è che il bambino o l’adolescente al quale viene rivolta non è niente in quel momento. Sarà qualcuno quando potrà trascorrere una decina d’ore seduto a un computer per macinare numeri in un ufficio sotto una luce artificiale”.
Michael Zezima, Cosa vuoi fare da grande?
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Alla scuola media De Carolis, nel quartiere Tamburi di Taranto, giocare all’aria aperta è vietato. La stretta striscia di pineta, un regalo dell’Ilva, non riesce a trattenere le 700 tonnellate di polveri che ogni anno uccidono lentamente chi le respira. Frequentano la scuola del quartiere più velenoso d’Europa più di cinquecento bambini, sette su dieci sono figli di persone che lavorano in fabbrica. A Natale nel presepe hanno messo anche le ciminiere: aspettano un miracolo che inventi un futuro per l’acciaio, un miracolo che non è arrivato e non arriverà. La dirigente scolastica è preoccupata: c’è una pericolosa limitazione nel loro orizzonte di senso, non riescono a guardare oltre.
Nei primi giorni di febbraio, il governo di Pechino ha annunciato una legge che prevede sanzioni penali per gli imprenditori che non riusciranno a imporre ai lavoratori l’utilizzo delle ferie previste. China Radio International, emittente di Stato, segnala che per “eccesso di zelo” nei confronti del lavoro, nel paese che fu del Grande Timoniere, muoiono ogni giorno 1.600 persone. È ipotizzabile ritenere che siano molte di più. Si chiama “guolaosi” e significa, più o meno, morte per straordinari. Si scrive con gli stessi caratteri usati nella parola giapponese “karoshi”, utilizzata dal 1987 per riconoscere e studiare una specifica, ma non esclusiva, tipologia di morte di (e sul) lavoro.
Morire di lavoro. Lavorare fino a morirne. Non si tratta di eccessi. Quelle descritte sono situazioni estreme solo in apparenza. Mostrano invece il tratto essenziale, ma “misteriosamente” poco visibile, di un sistema dinamico. È un sistema che esiste, si ri-produce e si ri-configura, in forme tanto sofisticate quanto inesorabili, solo se riesce a compiere il movimento costante che apre ogni giorno nuove possibilità di crescita e impone ritmi più intensi di accumulazione dei profitti. Se questo non accade, il sistema va in crisi. La cosa curiosa è che i cicli di riproduzione del capitale sono più rapidi di quelli con cui la natura si ri-genera. Il capitale tende a crescere in maniera infinita in un pianeta che è invece finito, così facendo sopprime le basi della sua stessa ri-produzione e incrementa quella che questo libro* chiama a ragione entropia distruttiva. In altri termini, procediamo a vele spiegate verso la fine del mondo.
“Nessuno ha il coraggio di dire che, di per sé, il lavoro è una pratica odiosa e annichilente, altro che un diritto da difendere”. Alessandro Pertosa esprime un’idea semplice, diretta, argomentata: “Si ha diritto a qualcosa di vitale, di positivo, di buono (…); si ha dunque diritto al non lavoro perché il lavoro di per sé è contrario all’essenza dell’uomo, a quell’essenza che è tesa al gioco e all’ozio contemplativo. L’uomo non è nato per lavorare ma per contemplare la natura, la vita, la bellezza circostante”. Un’affermazione perentoria, esagerata? Peggio, una considerazione “ideologica”, apocalittica e molto irresponsabile. Almeno a stare al senso comune e alla narrazione tossica con la quale i media raccontano la “disoccupazione giovanile”, vale a dire la devastante sventura che, privandoli del futuro, investe e disorienta i nostri poveri ragazzi.
Poveri e innocenti. Che colpa hanno i giovani se la corruzione dei costumi e l’egoismo dei sindacati hanno voluto sfidare gli dei e le regole del mercato? Il risultato è il teatro tragico greco: i figli pagano le colpe dei padri. C’è però una letale minaccia per tutti, la necessità di rimuovere in fretta gli ostacoli senza far distinzioni tra chi merita di essere punito e chi no. La libertà del denaro, si sa, può esigere decisioni sofferte e comportare salutari ma inevitabili sacrifici: uno dei quali è proprio l’angoscia universale che attanaglia chi ha perso o teme di perdere il lavoro. Il panico si estende prima a macchia di leopardo, poi a macchia d’olio e infine dilaga. Diventa perfino ridicolo star lì a sottilizzare su quale lavoro si sia perduto. Sapere a quali condizioni, con quali diritti e con quali speranze di poter migliorare la qualità della vita, quel lavoro venisse svolto è una cavillosa curiosità d’altri tempi. L’emergenza avanza. Bisogna far presto. Non c’è tempo. Non c’è più tempo. La forma del dominio dei giorni nostri, che per assuefazione ci ostiniamo a chiamare capitalista, è una SpaceShip supersonica sfuggita al controllo di chiunque. Nella sala comandi non ci sono i magnati della finanza né i loro ossequiosi governanti. Non ci sono nemmeno i capitalisti, non c’è nessuno.
Si tratta di un sistema di relazioni sociali dove dominano le cose. Un sistema competitivo e insaziabile che deve sottomettere la vita al denaro in modo permanente. Per competere bisogna spremere i limoni, ha detto una volta con ineguagliata chiarezza un alto dirigente della General Electric. E i limoni vanno spremuti con qualsiasi mezzo, in ogni modo possibile e a ritmi sempre più incalzanti. Non a caso nel significativo claim della GE Company, imagination at work, l’immaginazione non è al potere né al comando, è al lavoro. D’altra parte, Lucilio Santoni lo ricorda con serena lucidità aprendo questo libro, a proposito di Arbeit match frei, l’affermazione che accoglieva chiunque varcasse i cancelli di Auschwitz, Primo Levi annota:
“L’ideologia ufficiale nazista credeva veramente che il lavoro fosse liberatorio (…) l’unica via per cui il cittadino che non è guerriero può contribuire alla forza del paese. (…) Se il fascismo avesse prevalso, l’Europa intera si sarebbe trasformata in un complesso sistema di campi di lavoro forzato e di sterminio, e quelle parole, cinicamente edificanti, si sarebbero lette sulla porta di ingresso di tutte le officine e di tutti i cantieri”.
Nella medesima apertura, Santoni offre un rilevante chiarimento storico che con piacere vediamo render giustizia a un interrogativo che abbiamo già sentito esprimere, in occasioni rare e quasi sempre sottovoce. Nel corso di una tavola rotonda promossa anni addiètro dal settimanale Carta, Riccardo Troisi, oggi nella redazione di Comune-info, lo pose inutilmente e in modo un po’ sfrontato a una gentile e competente dirigente nazionale della Fiom: “Ma tu mi sai dire almeno perché la Costituzione italiana parla di una Repubblica fondata sul lavoro e non sulle persone che lavorano?”. Grazie a questo libro, che la cita perfino nel titolo, si ricorda in modo quanto mai opportuno la risposta. Quello che per decenni è stato osannato da una retorica, universale quanto persuasiva, non fu altro che l’esito modesto (e discusso) di una contrattazione tra l’ambizione “sovietica” a una “Repubblica dei lavoratori” di Palmiro Togliatti e la reazione moderata e interclassista di La Pira, Moro, Fanfani e degli altri democristiani. La memoria, talvolta, serve a rendere meno storico il compromesso.
Per la ricca, profonda e leggera scorribanda critica sul lavoro contenuta in questo libro, gli autori hanno scelto la forma del dialogo. Una scelta tutta politica che non stupisce, laddove l’orizzontalità e spesso la circolarità di una conversazione dialogante non può che surclassare le capacità espressive gerarchiche e quasi sempre autoritarie di un monologo. In un tempo di estreme e immotivate accelerazioni, l’intento esplicito di “fermare la parola e rallentare l’informazione” consente l’agile dipanarsi del filo delle osservazioni e delle riflessioni proposte da due autori inquieti. Due scrittori critici che fanno dell’an-accademia colta un passepartout capace di inventare percorsi piacevoli, avventurosi e spirituali. È dunque soprattutto il ritmo della conversazione che consente la libertà dell’attesa della fine del paragrafo per chiudere un pensiero, della fine del capitolo per individuare “una traccia nel mondo” non contemplata e l’attesa della fine del libro per aggiungere un tassello alla conoscenza che apre nuove strade da percorrere. La poetica d’intenzione che improvvisa viene manifestata da Santoni nelle ultime pagine, sembra chiarire tuttavia che ci troviamo di fronte più a un canto a due voci che non a un confronto serrato: “Vorrei che il lettore si struggesse in un sentire poetico lontano dalla quotidianità ipocrita e dalla contabilità degradante. Vorrei che, avendo i piedi ben piantati nella terra, assaggiasse l’infinito e si muovesse per sempre tra i sogni”. Tra i sogni sì, ma con una netta direzione di marcia. L’affermazione di una bussola anarchica e cristiana nella navigazione, ribadita in modo puntuale e declinata nei diversi contesti, non fa che confermare una rotta ben visibile e orientata. Un cammino segnato ma curioso, avviato nell’intelligenza della ricerca e nel sano prevalere delle domande giuste sulle risposte improbabili: non cercate in un libro intelligente la soluzione per vivere felici senza vendere il proprio lavoro.
Nessuna soluzione, dunque. Nessun appello pressante alla buona condotta e nessuna certezza di poter fermare in tempo l’astronave del capitalismo sfuggita a ogni controllo. La speranza c’è. La speranza di poter ricostruire anche quel mondo che sta andando in pezzi, il mondo de los de arriba, di quelli che “stanno in alto”, come dicono certi indigeni tra le montagne del sud-est messicano. Anche perché “la ricostruzione della società ha inizio quando i cittadini cominciano a dubitare”, suggerisce Ivan Illich. L’orizzonte asfittico che ci viene proposto, vivere per lavorare e consumare, non è il solo possibile. “Ovunque si posi l’ombra della crescita economica, noi diventiamo inutili se non abbiamo un impiego o non siamo impegnati a consumare”, aggiunge Illich nel prezioso “Disoccupazione creativa”. Ci sono mondi molto diversi, reali, che sfuggono al destino che umilia la dignità umana e che ogni notte carica la sveglia per farci alzare dal letto e “ricominciare a vivere di corsa, in preda all’ansia da prestazione”. È un destino che usa carte truccate, che bara, quello ci vuole soltanto oppressi “dai doveri nei confronti della famiglia, della società, dei mercati”. Quella sveglia, puntata alle sei del mattino come un fucile dei Marò, pretende d’imporci di accettare l’inaccettabile, una condizione di schiavitù. Possiamo invece cominciare, ancora con Illich, a metterne in dubbio le ragioni. Possiamo smettere di credere che per chi si piega docile all’imposizione di un tempo di vita scandito dall’orologio, cioè dal dominio delle cose sulle persone, “il mattino abbia l’oro in bocca”. Possiamo smettere di creare ogni giorno il capitalismo perché il capitalismo non è un movimento eterno e non è invincibile. Dipende da noi, così come non c’è dominio senza dei vinti disposti a farsi dominare. È quello il nostro punto di forza, la possibilità di ribellione, la speranza di cambiare il mondo o di accorgerci che, lontani e dentro di noi, altri, nuovi mondi sono germogliati.
Quando facciamo Comune-info, una minuscola avventura che tre anni fa ha intrapreso un viaggio entusiasmante quanto impegnativo nella galassia del web, chiamiamo quella possibilità il Ribellarsi facendo. Nel 2014 ne abbiamo fatto una campagna. Ci hanno scritto in molti e molto diversi tra loro. Tutte persone, però, che provano a costruire relazioni sociali differenti da quelle che impone una società che viene tenuta in ostaggio dalla paura e dall’astrazione, che confonde il benessere con la ricchezza, che teme l’ozio e la conoscenza, che offende la dignità e affoga in quel dominio dell’oikonomia (leggi Il luogo del dominio) che tratteggia Alessandro Pertosa. Si tratta, per dirla con Chris Carlsson, uno dei promotori della Critical Mass a San Francisco, di esperienze di “anti-economia” che esprimono nuove tipologie comunitarie e vengono promosse da gruppi di persone “inventive e liberamente associate, che non si aspettano un cambiamento istituzionale dall’alto, ma si impegnano a costruire il nuovo mondo nel guscio del vecchio”. Quelle persone ci dicono di non essere disposte ad aspettare alcun “momento buono”, quando cioè si possa supporre d’aver accumulato sufficiente forza (elettorale, mediatica, militare) per misurarsi con il capitalismo sul suo terreno. Nessuno di quei ribelli chiede allo Stato di fare quel che non potrebbe fare: aprire le istituzioni alla fantasia e al potere creativo di chi gli resiste. La tradizione “rivoluzionaria” ci dice che il solo modo di rompere il sistema capitalista è quello di prendere il potere, di rovesciarlo (o abbatterlo) in un sol colpo, tutto insieme. Peccato che non abbia mai funzionato. La sola idea di rivoluzione che raccontano le storie di Comune-info è invece quella di un mondo che cambia in senso anticapitalista ma in profondità, quella di molti e diversi mondi che vivono ogni giorno mille contraddizioni e hanno mille e un sogno da realizzare adesso e qui. Non sappiamo con precisione come fare, impareremo ribellandoci e facendo quel che ci piace o riteniamo utile.
Sì, certo. È molto interessante, libertario e magari anche un po’ pittoresco, ma come la mettiamo con la concreta esigenza di dover pagare un affitto o di comprare del cibo e dei vestiti? Non c’è verso, dobbiamo tornare a parlare di reddito, e quindi di lavoro. Proviamo a farlo, allora, con un piccolo escamotage. Che, al solito, non pretende di fornire risposte adeguate ma di provare a porre un problema ostico in un modo differente. E se avesse avuto ragione Marx? Caspita, che trovata! Nuova, eh? Ok, nuova di certo non è, ma non si sa mai, proviamo a procedere ugualmente: dopo la pubblicazione del primo libro del Capitale, Marx scrive al compare di sempre, Friedrich Engels, e comincia così: la cosa migliore del mio libro è il duplice carattere del lavoro. Beh, ci crediate o no, tutto il marxismo del Novecento deve aver pensato che scherzasse e lo ha completamente ignorato. Non è questa la sede per tentare un approccio consono al tema, naturalmente. Lo tratta in modo illuminante, in Crack Capitalism (DeriveApprodi), John Holloway, che dobbiamo ringraziare per molte cose, tra le quali questo e altri straordinari tentativi di aprire i concetti (da quello di “potere” in poi). Qui possiamo limitarci a segnalare alcune delle domande che ci pare pongano i suoi testi con particolare riferimento all’argomentazione espressa in questo libro:
– Perché tutte le rivoluzioni vittoriose ispirate in qualche modo al marxismo non hanno mai fatto nulla per trasformare il lavoro?
– Perché la lotta è sempre quella del lavoro contro il capitale, facendone una categoria unitaria e trans-storica, malgrado Marx abbia posto all’attenzione subito, e nel suo libro più importante, la differenza tra il lavoro astratto, quello che crea valore di scambio, e quello utile o concreto, quello che crea valore d’uso?
– E se una delle chiavi di lettura che oggi ci potrebbe aiutare a sciogliere qualche nodo rilevante fosse collocata proprio lì?
– Se il problema fosse nell’astrazione del lavoro – cioè della nostra capacità creativa, quella che Holloway chiama il “fare”, negata dal “lavoro” salariato – e solo poi, di conseguenza, arrivasse al capitale?
È il lavoro astratto che crea il capitale, e quindi la rapina delle risorse, le disuguaglianze, l’infelicità, l’auto-distruzione, etc., non il contrario. Quello tra capitale e lavoro astratto (o salariato) sarebbe quindi un conflitto di secondo livello. Eppure, per oltre un secolo, la stessa idea di economia marxista ha chiuso la categoria di lavoro che Marx aveva saputo aprire. Lo scopo della rivoluzione, è stato detto, è sempre di liberare il lavoro dal capitale non dalla sua stessa astrazione.
Alla luce di quanto detto, la tesi prevalente nel marxismo del secolo scorso è stata, in grandi e semplificate linee, la seguente: la lotta del lavoro astratto contro il capitale – quella del movimento operaio, per intenderci – è una lotta per strappare migliori condizioni, salari più alti, la piena occupazione. Dà invece per indiscutibile la subordinazione del fare nel lavoro astratto, il controllo di altri sulla nostra attività, la dominazione del capitale. È insomma una lotta sindacale. Per mettere realmente in discussione la proprietà dei mezzi di produzione ci vuole allora una lotta a un diverso livello, quello politico, da affidare al partito. È la teoria leninista della rivoluzione, enunciata nel Che fare? ma che nella sostanza è stata ripresa da tutti e ovunque. Perfino Rosa Luxemburg lascia inalterata la separazione tra lotta economica e lotta politica. Quella separazione, spiega invece Holloway, è la base su cui fonda il lavoro astratto. È ovvio che così si perda per strada il carattere duplice del lavoro, lo si consideri irrilevante o, nel migliore dei casi, lo si posponga a un futuro sostanzialmente utopico. Holloway ne conclude in modo rigoroso quanto spietato che “il lavoro astratto ha sequestrato il movimento contro il capitalismo per centocinquanta anni”. Poi, valutando a pieno la portata dirompente della sua affermazione, aggiunge che le lotte del secolo e mezzo trascorso non sono state inutili e meritano tutto il rispetto possibile perché hanno tenuto viva la capacità di ribellarsi e il sogno di un mondo migliore. Oggi però il movimento operaio è in crisi, precisa lo studioso irlandese migrato in Messico, ma per fortuna quella è anche la crisi del lavoro astratto, esprime la sua maggior difficoltà a contenere il fare creativo. Non possiamo non concludere – si fa per dire, è ovvio – questa densa e sommaria elencazione di domande con il quesito più importante: l’astrazione del fare nel lavoro è un processo concluso, oppure è ancora un antagonismo vivo che attraversa ogni aspetto della nostra esistenza? La porta della speranza, neanche a dirlo, è ancora una volta spalancata.
Sembra di intuirlo anche nello sguardo attento di Lucilio Santoni, che forse non a caso rimanda a una possibile “lunga trattazione” successiva il tema del lavoro astratto. Per la rilevanza e l’entusiasmo che ha suscitato in alcuni di noi la discussione mondiale sull’attualità della rivoluzione nella lettura fatta da John Holloway con Cambiare il mondo senza prendere il potere, una discussione che attraversa naturalmente anche Crack Capitalism. Il fare contro il lavoro, ci sarebbe parso oltremodo insensato non testimoniarne una risonanza in un contesto tematico per molti versi affine. L’eco anti-identitaria e anti-statale della teoria di Holloway penetra, scardina e travalica agevolmente gli argini concettuali del lavoro salariato – un mito fondativo della società italiana, come rileva un inciso puntuale di Pertosa – mostrando come il lavoro astratto, venduto in cambio di salario, possa contenere al suo interno la sua stessa negazione. Il lavoro va per tanto limitato nel tempo senza esitazioni, come segnala Alessandro Pertosa nel mirabile elogio dell’otium che trovate in diverse delle pagine che seguono, ma nel lavoro vive anche un lavoro utile, cioè un fare da liberare dall’astrazione che prova a contenerlo. Stiamo parlando della vita quotidiana di milioni e milioni di persone comuni, afflitte dalla stessa maledetta astrazione che segna l’origine, occultata a destra e a sinistra, di quell’inferno seriale che comincia puntando la sveglia alle sei del mattino di ogni lunedì di tempesta.
* L’articolo è la prefazione di Maledetta la Repubblica fondata sul lavoro (di Alessandro Pertosa e Lucilio Santoni), edito da Gwynplaine. Il libro raccoglie anche l’introduzione di Marco Craviolatti. Dopo l’appuntamento al Salone del libro di Torino, il libro sarà presentato venerdì 22 maggio, alle ore 21, presso il Museo del Mare di San Benedetto del Tronto.
Scrivono gli autori del libro a pagina 4: “Nel dare questo libro alle stampe, ci piace indicare affettuosamente la consonanza di intenti con gli amici dell’avventura di Comune: www.comune-info.net“
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