Come reagisce alla pandemia una rete di cooperative con 20 mila soci – 1300 dei quali sono lavoratori che guadagnano uno stesso salario – che riesce a mantenere (quasi sempre) la distanza fisica ma non ha alcuna intenzione di separarsi? Nella Centrale di Cooperative di Servizi Sociali dello Stato di Lara, nel sud del Venezuela, nota da molti anni in tutto il mondo come Cecosesola, quando ci si riunisce non ci sono strutture dirigenti né persone che comandano, decide tutto l’assemblea settimanale. Cecosesola gestisce una rete contadina di quasi 300 produttori e tre grandi mercati a Barquisimeto, dove si rifornisce, con prezzi del 30% inferiori a quelli di altri mercati, il 40 per cento di una popolazione cittadina di 1,2 milioni di abitanti. La rete sanitaria di altre cooperative, poi, assiste ben 220 mila persone. “In situazioni difficili, noi ci reinventiamo”, dice uno dei fondatori. A Cecosesola si preparano da tempo a situazioni di emergenza attraverso il dialogo e la cura reciproca. Sanno come comportarsi con il potere: violano la quarantena, senza chiedere il permesso, quando è indispensabile farlo, perché “quando una legge o un decreto non corrisponde alle nostre esigenze, disobbediamo, ma senza entrare in conflitto”. Alla fine la governatrice dello Stato si è complimentata con loro. Una situazione molto diversa è quella di alcune esperienze storiche di autonomia delle favelas brasiliane, dove centinaia di abitanti portano denaro ogni mese in una banca popolare e possono chiedere prestiti evitando il mercato finanziario tradizionale. Lì la pandemia colpisce durissimo, con la mancanza di acqua, di denaro, spesso di internet. Creare organizzazione in una favela è quasi impossibile, si è stretti tra le tremende carenze e la presenza di polizia militare, milizie paramilitari, narcotrafficanti e chiese pentecostali. Eppure “abbiamo cominciato con quattro comunicatori, e oggi abbiamo dieci collettivi che costituiscono il Fronte di Mobilitazione”. La settimana puntata (qui le precedenti: I–II–III –IV –V e VI) del grande reportage “a distanza” di Raúl Zibechi nell’América Latina che resiste

“Siamo organizzati più e meglio di prima”, afferma Teresa Correa, valutando l’esperienza della rete Cecosesola durante questi mesi di pandemia e di quarantena. “Il nostro obiettivo fondamentale è il processo educativo”, aggiunge Lizeth, “per trasformarci attraverso la riflessione collettiva”. Cecosesola (Centrale di Cooperative di Servizi Sociali dello Stato di Lara), con sede a Barquisimeto, nel sud del Venezuela, è una rete che raggruppa 50 cooperative urbane e rurali, una cooperativa di servizi funebri e un centro sanitario. Lavorano nel settore agricolo, in quello della piccola produzione artigianale e in quello del risparmio e del credito. Hanno 17 punti di vendita, fra cui tre grandi mercati con 300 casse e una rete contadina di cui fanno parte 280 piccoli produttori.
Hanno più di 20.000 soci, di cui 1.300 soci lavoratori, che ricevono lo stesso compenso e si organizzano attraverso circa 300 riunioni all’anno, senza dirigenti né struttura direttiva. La rete di produzione e distribuzione di alimenti e articoli per la pulizia della casa movimenta più di 10.000 tonnellate al mese, con prezzi del 30% inferiori a quelli che si trovano sul mercato. Ai loro punti di vendita si rifornisce il 40% della popolazione di una città di 1,2 milioni di abitanti.[1]
“In situazioni difficili, noi ci reinventiamo”, dice Gustavo Salas, uno dei fondatori del movimento, “perché in piena pandemia è più difficile riunirsi”. Fa notare che hanno violato la quarantena in diverse occasioni, “ma il governo ci ha rispettato perché abbiamo fatto ciò che andava fatto”.
Jorge Rath afferma che si stanno preparando da tempo a situazioni come questa, con il dialogo e adesso attraverso la cura reciproca. “Ci prendiamo cura soprattutto dell’ambito comunitario, il che significa non separarci anche se bisogna mantenere la distanza fisica”. Secondo i membri di Cecosesola, comunità e separazione sono realtà opposte, tanto quanto lo sono dirigenti e subalterni. “A noi operatori sanitari si sta presentando un’opportunità di cambiamento, rispetto alla gerarchia e alle modalità convenzionali, perché in questo momento ci vogliono soluzioni creative”, osserva il dr. Carlos Jiménez, che fa parte del Centro Integrale Cooperativo Sanitario. La rete sanitaria popolare assiste ogni anno più di 220mila persone. Hanno cinque ambulatori, quattro laboratori e un centro cooperativo che combina la medicina convenzionale e quella tradizionale.
Anche il Centro Sanitario, un edificio di tre piani progettato dalle cooperative che ne hanno discusso con gli architetti, non ha manager né dirigenti: la gestione dipende dall’assemblea settimanale a cui partecipano tutti i lavoratori, dalle infermiere e le cuoche ai medici e alle persone che si occupano della pulizia.“Una cosa che abbiamo imparato è come comportarci con il potere”, riflette Gustavo. “Quando una legge o un decreto non corrisponde alle nostre esigenze, disobbediamo, ma senza entrare in conflitto. Trasgrediamo le leggi, come adesso che continuiamo a riunirci anche se non si può e cerchiamo il modo di andare avanti per restare uniti. Non chiediamo il permesso”.

Sono riusciti a far valere i loro criteri che infrangono il coprifuoco, “perché un mercato che serve 7.000 persone al giorno non può adattarsi a orari ristretti”, spiega Gustavo. “Dopo diverse settimane, la governatrice si è congratulata con noi e ci ha dato dei lasciapassare di 24 ore, perché bisogna cominciare a ricevere la gente alle 4 del mattino”.
In questo modo, la rete ottiene il rispetto della comunità e del governo. “E trasformiamo il sistema, perché non agiamo secondo la sua logica”, aggiunge Gustavo, mettendo la ciliegina sulla torta.
Teresa spiega alcuni dei notevoli cambiamenti che stanno verificandosi durante la pandemia: “Non c’è carburante. Questo ci ha portati a riorganizzare tutto. I medici andavano al lavoro con la loro macchina, mentre adesso dipendono dai camion che fanno un determinato percorso per raccogliere tutti i lavoratori. E qui sta il bello. Il cardiologo deve salire sul camion con tutti gli altri compagni, in una forma di integrazione collettiva che prima non c’era”.
Medici sul camion insieme alle commesse o alle addette alle pulizie, una dinamica che fa pensare a una rivoluzione culturale, senza la quale non si producono cambiamenti profondi e duraturi. Per questo i membri di Cecosesola riescono a reggere. “Le risposte alla situazione attuale rafforzano qualcosa del ‘noi’, cioè la coesione, che nasce nel dialogo permanente che ci trasforma in un cervello collettivo”, aggiunge Jorge.
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In questa situazione così difficile, mi sembra necessario concentrare l’attenzione sulle luci che brillano nei settori popolari. So bene che il sistema si sta rafforzando, che nubi oscure ci minacciano (dalla crescita della disuguaglianza e del potere dell’1%, alla repressione e al controllo digitale), ma non ci guadagniamo nulla se pensiamo soltanto a quello che ci opprime. Il mio punto di partenza è lo Ya Basta![2] collettivo e comunitario, come ci insegnano i popoli originari del Chiapas.
Le favelas di Rio de Janeiro portano su di sé il marchio della violenza e del narcotraffico, perché questo è il modo che i potenti (dai mezzi di comunicazione al mondo accademico) hanno trovato per mascherare la povertà generata da questo sistema. Ma proprio lì stanno crescendo la resistenza e l’organizzazione, superando enormi difficoltà.
Inessa è una militante del Movimento delle Comunità Popolari, attivo da 50 anni e presente in dieci Stati del Brasile. Vive nella comunità Chico Mendes, nel morro[3] di Chapadao, nella zona nord di Rio de Janeiro.[4] “Siamo qui dal 1994. Abbiamo cominciato con l’attività sportiva comunitaria e ci siamo ingranditi con un asilo per i bambini e le bambine della comunità. Con la pandemia l’abbiamo chiuso a partire dal 21 marzo”.
Lavorano anche con gli adulti, gestendo il lavoro e i ricavi in modo autonomo, con un negozio e un magazzino di materiali per l’edilizia, che gestiscono collettivamente. Riciclano l’olio esausto da cui ricavano prodotti per la pulizia, e hanno un gruppo di acquisti collettivi a cui partecipano quasi venti famiglie. Forse il settore più rilevante è il Gruppo di Investimento Comunitario (GIC), una banca popolare dove centinaia di abitanti portano denaro tutti i mesi e possono chiedere prestiti senza rivolgersi alle banche o al mercato finanziario. Con gli interessi aiutano le famiglie che ne hanno bisogno, danno un contributo a servizi sociali come la sanità, e una parte va al Movimento.
Durante la chiusura provocata dalla pandemia, venditori e collaboratrici domestiche della comunità sono rimasti senza entrate, oltre a dieci persone che lavoravano nell’asilo del movimento e nel trasporto dei bambini. Sulla base di una rete preesistente di amici e insegnanti “che appoggiano questo progetto e rispettano la nostra autonomia”, hanno fatto delle collette per comprare generi alimentari per la comunità e per sostenere il personale dell’asilo. Cinquanta persone ricevono pacchi di viveri grazie al lavoro di tredici militanti.
Gizele è comunicatrice comunitaria e fa parte del Fronte di Mobilitazione della Marè,[5] creato appena sei settimane fa da un gruppo di comunicatori che operavano nella favela da 15 o 20 anni.[6] “Il Fronte è nato quando l’isolamento sociale è diventato obbligatorio in tutta la città, ed eravamo preoccupati del rapporto che i governi instauravano con la favela. Abbiamo pensato a un piano di comunicazione per poter lavorare in base ai bisogni e nel linguaggio della favela”.
La Marè è un complesso di sedici favelas con 140mila abitanti, situato a ridosso della baia di Guanabara e molto vicino all’aeroporto internazionale. Ha i peggiori tassi di letalità per coronavirus, Mentre in quartieri della borghesia come Leblon il tasso di letalità è appena del 2,4% dei contagiati, a La Marè sale fino al 30,8&, secondo i dati forniti dal quotidiano O Globo.
Hanno noleggiato una macchina con altoparlante per spiegare le misure elementari come lavarsi le mani, non creare assembramenti e pulire la casa (anche se quasi non c’è acqua), e per indicare gli ospedali più vicini. “Prepariamo 30 cartelloni alla settimana e li appendiamo nelle comunità, mettendo l’accento sulla solidarietà, perché l’approvvigionamento idrico è precario e dobbiamo condividere l’acqua sulla base dell’aiuto reciproco, dato che dal governo non arriva niente”, dice Gizele. Hanno anche realizzato 5.000 manifesti, tutti a mano, che hanno collocato nei negozi, nelle chiese e nelle sedi delle associazioni di vicinato con raccomandazioni sull’igiene. “Abbiamo cominciato con quattro comunicatori, e oggi abbiamo dieci collettivi che costituiscono il Fronte di Mobilitazione, e 50 abitanti che collaborano. La gente si sta aggregando alla mobilitazione e alla ricerca di alimenti e di prodotti per la pulizia. È una vera sfida: dobbiamo affrontare una realtà nuova, la mancanza di acqua, di denaro, lo scarso funzionamento di internet”.
Creare organizzazione in una favela è quasi impossibile, perché gli attivisti sono stretti tra le tremende carenze e la presenza di polizia militare, milizie paramilitari, narcotrafficanti e chiese pentecostali, che fanno desistere la persona più agguerrita.

“Questa settimana ho cominciato a pensare che se la gente sta lottando con la pandemia all’interno della favela, con sostegno reciproco e solidarietà, dopo la pandemia possiamo fare la rivoluzione”, dice entusiasticamente Gizele, che non aveva mai trovato tanto ardore e tanta organizzazione tra i suoi vicini. “Operazioni di polizia, militarizzazione, carri armati, fame, mancanza di acqua, e adesso lo stiamo vivendo tutti insieme e ci organizziamo, perché nessuno conosce meglio di noi le nostre necessità”.
Timo è nato in Germania, si è laureato in geografia e da dieci anni vive a La Marè, nel morro di Timbau. Con un piccolo gruppo di amici gestisce un locale dove si produce birra artigianale e si offrono proiezioni di film per bambini. Questo spazio si chiama Roça, il nome di una pratica contadina che consiste nel ripulire dalle sterpaglie un terreno per coltivarlo. “Il lavoro precedente è quello che ora permette di reagire alla situazione. Qui a Timbau c’è una vecchia fabbrica di cemento trasformata in abitazioni e qui lavoriamo con i bambini, portando avanti una campagna di mobilitazione per individuare le famiglie con maggiori bisogni”.
Hanno registrato 4.000 famiglie che necessitano di aiuti alimentari, solo in questa favela. Hanno raccolto donazioni per duemila pacchi di viveri, che sono stati preparati e consegnati da un gruppo costituito soprattutto da donne. “I piccoli gruppi che già erano operativi sono ciò che permette di ottenere aiuti e di contattare le persone che ne hanno bisogno in base a un censimento di solidarietà degli abitanti della favela. Qui il lavoro non può essere individuale, le risposte che diamo devono essere collettive”.
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Ci sarebbero molte più informazioni da condividere. Ad esempio, la tenace resistenza delle comunità del nord del Cauca nel “Processo di Liberazione della Madre Terra”. Le comunità della zona e la Guardia Indigena hanno sequestrato tre fucili e hanno arrestato 31 tra soldati e poliziotti, accusati di “aver agito contro la liberazione della Madre Terra” con l’attacco alla tenuta denominata “la emperatriz”, recuperata dal popolo nasa. L’assemblea delle comunità ha deciso di consegnarli ad una commissione formata dall’Istituto del Difensore Civico e dal Consiglio Regionale Indigeno del Cauca (CRIC). Lo Stato si è impegnato a non compiere ulteriori atti di repressione e a creare una commissione per la soluzione dei conflitti fra le comunità e le forze armate.
Fonte:
“Desobedecer en tiempos de
cuarentena”
Traduzione a cura di Camminardomandando
[1] Per maggiori, informazioni su Cecosesola si veda “Venezuela: CECOSESOLA. Il mondo nuovo dal punto di vista comunitario”, in Zibechi R., Alba di mondi altri. I movimenti dal basso in America Latina, Mutus Liber, Riola (BO) 2015, pp. 141-162. In spagnolo si veda “Cecosesola: Construyendo aquí y ahora el mundo que queremos”, in Observatorio de Ecología Política de Venezuela, 10/12/2018.
[2] Ndt – “Ora basta!”: lo slogan dell’insurrezione zapatista nel Chiapas.
[3] Ndt – Il morro è un complesso di favelas sui fianchi di una collina.
[4] Sul Movimento delle Comunità Popolari si veda il mio articolo “Poder popular nas favelas cariocas”, in OUTRASPALAVRAS, 20/01/2016.
[5] Ndt – La Marè è uno dei più grandi complessi di favelas di Rio de Janeiro.
[6] Sul Fronte di Mobilitazione della Marè si veda: “Frente de Mobilização da Marée. #CoronaNasFavelas”. [In italiano si veda: “Discriminazione e innovazione sociale nelle favelas”, in Babel, n. 81, luglio 2019, p. 23].
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