La protezione dal virus che ha seminato il terrore e sembra poter favorire una spaventosa impennata del livello di controllo sociale in tutto il pianeta, diventa vera resistenza in alcune zone popolari dell’America Latina. Dai territori indigeni della Colombia, assediati da esercito e paramilitari, all’Amazzonia peruviana; dal Cile della grande rivolta dell’autunno scorso ai barrios delle villas argentine, dove lo Stato non esiste. Quella che si leva è un’impetuosa risposta collettiva di mutuo aiuto da povero a povero. Non si tratta solo di mense popolari o grandi lotte per l’accesso all’acqua, ma del rafforzamento delle relazioni affettive e del legame comunitario, della condivisione tra diversi e della capacità di aiutarsi senza umiliare né calpestare la dignità delle persone. È la speranza più luminosa che genera la vita che si difende, con le poche, semplici quanto essenziali cose che si vivono ogni giorno. La seconda parte (la prima è qui) di uno straordinario racconto, che Raúl Zibechi sta realizzando da Montevideo scegliendo di parlare, seppur a distanza, con ogni protagonista del suo viaggio, cioè senza avvalersi della relazione fulminea ma fredda e impersonale della rete Internet. Quello che serve per capire la profondità dei processi in movimento
“Siamo nella resistenza”, sancisce il Consejo Regional Indígena del Cauca (CRIC), in Colombia. L’organizzazione, che raggruppa 10 popoli indigeni, 127 autorità tradizionali e la Guardia Indígena che protegge le riserve (territori indigeni riconosciuti), denuncia: le forze armate hanno intensificato la guerra contro i dissidenti della ex guerriglia, è una strategia per “violare i nostri spazi al fine di contagiare la popolazione“.
La Guardia Indigena (che non utilizza armi da fuoco, ndt) effettua il controllo territoriale. Chiude il passaggio alle persone e ai veicoli non autorizzati dai cabildos (autorità territoriali indigene), però l’esercito si espande per “generare il caos con la recrudescenza della guerra”, un modo per indebolire il movimento, infiltrare il virus nella comunità e rendere più deboli le autodifese indigene.
Il CRIC ha chiamato i popoli a cominciare una “minga verso l’interno“, capovolgendo il senso delle abituali mingas, mobilitazioni fatte sempre per rendere visibile una determinata situazione, per far “camminare la parola”, come indica la tradizione del movimento. Una minga verso l’interno colloca invece in primo piano la medicina tradizionale e l’armonizzazione delle persone con il territorio.
Il giornalista addetto alla comunicazione del popolo misak, Didier Chirimuscay, che risiede a Silvia, nella riserva di Guambia, a 60 km da Popayán, spiega al telefono come stanno vivendo la minga verso l’interno: “Le radio comunitarie indigene sono tornate a essere strategiche, rivestono un ruolo chiave in questo processo, perché seguono le istruzioni delle autorità territoriali”.
“Noi misak di Silvia siamo figli delle due lagune, la Piendamó, che è maschio, e la Ñimbe, che è femmina. Insieme ai páramos ci siamo ritrovati per rivitalizzare gli incensi, raccogliere le erbe cerimoniali e accendere i fuochi nelle comunità“. La ritualità misak permette di affrontare la pandemia combinando le cure con le piante medicinali e armonizzando le persone con la terra e il territorio.
Didier racconta che la notte molti giovani vanno nei luoghi sacri. Si accompagnano a medici tradizionali e conversano intorno ai fuochi. “Abbiamo fatto una visita di ringraziamento alla laguna femmina per fermare le disarmonie, sulla base della nostra cosmovisione”, conlude.
Le notizie più commoventi sono quelle che mostrano la solidarietà tra i popoli, da povero a povero. Leonardo Tello dirige la Radio Ucamara, a Nauta, nell’Amazzonia peruviana, là dove i fiumi Marañón e Ucayali si uniscono per formare il Rio delle Amazzoni. Le comunità kukama, che parlano la lingua tupí-guaraní e sono state dichiarate a rischio di estinzione dall’Unesco, hanno fatto arrivare a Nauta, la capitale della provincia Loreto, 160 caschi di banane, 150 chili di pesce e molta frutta e verdura prodotta nei loro campi.
“Sono comunità considerate in stato di estrema povertà dallo stesso stato peruviano”, assicura Tello. E si domanda se i centri commerciali della città, le grandi imprese della regione, i municipi e i governi “apriranno le loro arche” come hanno fatto i più poveri praticando una generosa solidarietà.
In Cile la rivolta cominciata nell’ottobre scorso è ben lontana dalla sua conclusione. Né lo stato di emergenza, né la militarizzazione di massa, né il timore del virus hanno spinto la popolazione ad ammainare le bandiere della libertà e della dignità.
Radio Villa Olímpica ci mostra come l’esplosione di ottobre continua per altri canali. Non si manifesta più con le mobilitazioni di massa ma con il rafforzamento di un’ampia rete di distribuzione degli alimenti al di fuori del mercato. Il nome completo è “Red de Abastecimiento Cooperativo y Comunitario La Kanasta”. Si definiscono “organizzazioni autonome, assembleari e comunitarie che si propongono di gestire in comune l’approvvigionamento di base delle famiglie”.
Dicono che vanno molto al di là della sussistenza, combinando il mutuo sostegno con la resistenza popolare. Da quattro anni, poi, in Cile c’è anche la “Red de Abastecimiento Feminista La Uslera”, che – se ho compreso bene la spiegazione che mi hanno mandato per whatsapp – è il nome del classico mattarello con il quale le donne si difendono dai violenti.
Entrambe le reti sono “organizzazioni-madre, semenzai che sono serviti come ispirazione per altre iniziative. In generale, si tratta di reti nate prima della rivolta dell’ottobre 2019, che però si sono moltiplicate nel fuoco del conflitto autunnale. La Kanasta è composta da dieci organizzazioni territoriali, sociali e cooperative di lavoro. Fanno un acquisto mensile, che poi frazionano e “imbustano” per le famiglie che ne hanno fatto richiesta.
Tutto funziona in base al lavoro solidale, la fiducia e la cooperazione indirizzano le questioni finanziarie, il magazzino dei prodotti e la distribuzione. La rete femminista La Uslera si propone di “politicizzare la dimensione domestica, l’economia degli spiccioli e di fare magie con quello che abbiamo“, come spiega Jessica nel programma di Radio Villa Olimpica. Loro combinano l’accesso al cibo “attraverso circuiti che permettano anche di generare reti affettive”, la via per potenziare e sostenere il movimento sociale.
Nel sud, la Coordinadora de Tomas y Campamentos di Temuco (la città più importante della Patagonia cilena, ndt) indica la resistenza di circa duemila famiglie che, stanche di aspettare risposte alla loro richiesta di abitazioni, hanno occupato dei terreni alla periferia della città. Si tratta di 49 occupazioni trasformate in accampamenti, dove già si stanno costruendo case. Trentadue di quelle occupazioni fanno parte della Coordinadora che adesso lotta per l’acqua, la principale delle preoccupazioni con la pandemia.
Malva Antúnez è una delle coordinatrici dell’accampamento. Dall’altra parte del telefono, la sua voce suona serena ed energica: “Due mesi fa abbiamo deciso le occupazioni perché non c’era dialogo con le autorità. Con la quarantena, poi, abbiamo cominciato a dare priorità all’accesso all’acqua. Risposte ufficiali zero. Grazie alla solidarietà, siamo però riusciti a installare taniche da 500 litri”.
A Temuco, i principali problemi per gli accampati sono il freddo, la fame e la mancanza d’acqua. Se l’accampamento è una tradizione tra i poveri del Cile, le mense comuni sono parte dell’identità popolare, quando lo Stato non dà niente, salvo la repressione. “Ci sono molti fratelli mapuche nell’accampamento e l’organizzazione è molto solida, per questo non sono riusciti a sgomberarci. I politici hanno sottovalutato la nostra forza organizzativa, pensavano fossimo ignoranti, ma qui la gente ha conoscenze e sa anche che ha un potere”, spiega Malva.
Negli accampamenti, convivono haitiani, peruviani, cileni, colombiani e mapuche, abbondano gli artigiani e gli artisti, i professionisti e i microimprenditori. La povertà in Cile, come in tutta l’America Latina, ha molte facce diverse, cosa che spiega in parte la sua potenza e il rifiuto di quello che Malva definisce “gli aiuti palliativi che servono solo a logorarci”.
Infine, la Villa 21 di Buenos Aires, nel quartiere Barracas, il padre Carlos Oliveira dell’ Hogar de Cristo analizza le relazioni con lo Stato. Le parrocchie lavorano insieme ai movimenti territoriali: Barrios de Pie, Darío Santillán, La Dignidad, CTEP (Confederación de Trabajadores de la Economía Popular) e il Movimiento Evita, tra gli altri.
“Il governo non capisce la situazione dei quartieri popolari“. Non si lamenta e non si rende molesto, si limita constatare una realtà. I cosiddetti “preti delle villas” (una sorta di favelas in Argentina, ndt) mettono insieme le pratiche di documentazione per i quartieri popolari, perché le autorità “hanno progetti per la popolazione in generale, non per i poveri”. L’appello “Restate a casa” non funziona in questi quartieri, dove si ammucchiano anche dieci persone in abitazioni precarie.
Per questo ha avuto successo lo slogan “Resta nel quartiere”, che risponde alla logica comunitaria dei poveri, quelli che non hanno riscaldamenti né aria condizionata, non hanno Internet e nemmeno un computer a persona. Per questo loro si rivolgono ai preti delle villas e ai movimenti.
“Quelli del governo non comprendono i quartieri, ma sanno che noi invece ne siamo capaci. Per questo ci ascoltano e riusciamo a trovare risorse”. Per quel che riguarda la polizia, padre Carlos riconosce che le relazioni sono ambivalenti: in alcuni quartieri è brutale, ma in altri accetta quel che dicono le organizzazioni popolari, anche perché loro non sanno nemmeno indicare su una mappa dove si trova il quartiere.
Molto al di là dei governi e dell’egoismo delle classi medie e alte, i settori popolari approfondiscono la loro organizzazione, rafforzano i legami perché intuiscono, e sanno per esperienza di vita, che solo il povero può aiutare il povero, senza umiliarlo, e senza mettere in discussione la sua dignità.
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Caterina dice
Grazie per questo contributo pieno di speranza
Pina dice
Davvero grazie per queste informazioni altrimenti impossibili da trovare. Un esempio di vita da chi è più in difficoltà ma non si arrende e lotta INSIEME.
antonella dice
grazie davvero di cuore! non ho mai avuto dubbi sulle capacità che hanno i poveri del “terzo mondo”!e sopratutto gli indigeni di praticare al solidarietà comunitaria. dobbiamo tornare ad essere poveri e solidali invece di fare la guerra fra poveri come succede ora con questo clima politico avvelenato da odio e cattiveria?a questo serve il Virus??vergogna all’occidente ricco ed egoista!
Salvatore dice
Grazie mille per condividerci questo sapere. Solo una cosa: rimango sempre un po’ disorientato dai titoli che mettete, non so se capita solo a me. Comunque grazie infinite.