Sono molto poveri ma non accettano donazioni dall’impresa mineraria che vuole dividerli e offre in dono medicine che “non serviranno, se contaminerà il territorio e le acque”, e abiti che “saranno inutili, se distruggerà i nostri boschi”. I comuneros di Huancabamba e Ayabaca, a nord del Perù, resistono strenuamente al progetto Rio Blanco, che porta la firma di Junefield Ecuador e della cinese Hunan Gold, e ha deciso di estrarre oro e argento dal loro territorio a qualsiasi costo. Resistenze all’estrattivismo minerario molto simili alzano barricate nel vicino Ecuador, mentre dalla capitale peruviana migliaia di persone, migrate in passato a Lima, si mettono in cammino a piedi per tornare nei villaggi della Cordigliera. È un vero contro-esodo, una fuga silenziosa da quella che veniva definita la “metropoli delle meraviglie” e che invece s’è rivelata arida come la costa del Pacifico che la lambisce, segnata com’è dall’individualismo e dalla solitudine di ogni megalopoli. L’esodo della fame, come viene chiamato, torna invece al mutuo aiuto della tradizione comunitaria andina. C’è, infine, l’occupazione di mille famiglie povere, la più grande degli ultimi cinquant’anni: disoccupati, facchini, pescatori, colf, ma c’è perfino qualche poliziotto, della periferia ovest di Montevideo. Sono esasperati dall’impossibilità di vivere anche in 7 in un monolocale e sfidano le autorità e la pandemia manifestando sotto il palazzo del governo. La quarta puntata (qui le altre I–II e III) del racconto della resistenza latinoamericana al virus e agli interessi predatori di sempre. Una resistenza molto plurale che soffre, stringe i denti ma canta tutta insieme con le bandiere della dignità e dell’autonomia alla ricerca di un nuovo inizio
“Non vogliamo le tue donazioni. Non vogliamo i tuoi alimenti che servono a mascherare le intenzioni di esplorazione”, dice il comunicato dei comuneros e delle autorità delle ronde contadine delle province di Huancabamba e Ayabaca, nella regione Piura, nel nord del Perú. In questo modo, il 21 di aprile le comunità danneggiate dall’impresa mineraria Río Blanco Cooper S.A. hanno respinto la sua manovra. Da anni l’impresa pretende di entrare in quella zona e ora approfitta dello stato di necessità per cercare di dividere la popolazione.
Il comunicato sottolinea che l’impresa “maschera le sue vere intenzioni attraverso le donazioni”, perché “da quando è arrivata nella nostra provincia ha portato solo morte e adesso sta portando atti di persecuzione e ha intrapreso processi contro i nostri dirigenti”. Le medicine che offre in dono “non serviranno se contaminerà il territorio e le nostre acque”, gli abiti che vuol donare “non serviranno se distruggerà i nostri boschi brumosi”.
I comuneros attribuiscono la responsabilità alla Rio Blanco “per le azioni che ogni base o centrale delle ronde intraprenderà contro i rappresentanti dell’impresa nella zona. Devono restarsene a casa loro e non venire a dividere la nostra popolazione”.
Raphael Hoetmer, che ha accompagnato le resistenze e le marce dei comuneros di Ayabaca, commenta per telefono l’importanza del paramo e dei boschi ricchi di bruma per il rifornimento di acqua di Piura e Cajamarca. “È una zona di forte organizzazione contadina, con ronde autonome e autogestione della vita. Rifiutano l’attività mineraria perché, pur sapendo di essere poveri, vogliono conservare un modo di vivere che offre loro benessere e libertà, con l’attività mineraria peggiorerebbe“.
Un altro esempio di dignità lo offrono le comunità di Morona Santiago (in Ecuador), che sono state denunciate dalla società mineraria Explorcobres per aver attaccato, il 28 di marzo, l’accampamento La Esperanza. Sempre secondo l’impresa, i comuneros (che vengono definiti “delinquenti”) hanno occupato l’accampamento, e “incendiato varie installazioni, attrezzature e un veicolo”.
Ancora in Ecuador, la comunità di San Pedro Yumate, che resiste alla Río Blanco en el macizo de Cajas, a un’ora da Cuenca, lunedì ha installato la terza barricata, di fronte alla strada Cuenca-Molleturo-Naranjal, in una minga (tipica forma indigena di lavoro collettivo, ndt) fatta per impedire il passaggio ad automezzi e persone non autorizzate dall’assemblea comunitaria, come ci scrive Paul dal suo temporaneo confinamento fra gli Shuar, in Amazzonia.
Mentre le imprese minerarie distruggono vite, contaminano acque e montagne mettendo a rischio l’esistenza delle comunità, i campesinos e gli indigeni non hanno aggredito alcuna persona, solo le installazioni delle imprese multinazionali.
Restiamo nella regione andina. Il compagno e antropologo Rodrigo Montoya ci invia un testo meraviglioso intitolato “Lima finisce qui”. Racconta che migliaia di abitanti di Lima, che anni addietro erano emigrati nella capitale da diverse province andine, hanno iniziato una marcia di ritorno ai loro villaggi. “Non erano manifestanti in cammino verso una piazza pubblica per protestare”. Avevano il comune desiderio di andarsene dalla megacittà.
“La maggioranza dei marciatori era giovane e aveva un viso andino”, scrive Rodrigo, che con i suoi quasi 70 anni è stato alunno della escuelita zapatista. Lo ricordo perché è un compagno che ha fatto del suo impegno una forma di vita. Sebbene Rodrigo non sa dire se quelle persone desiderino andarsene dalla capitale per sempre, constata che si tratta di un fatto “forse, troppo importante”.
Se ne vanno da Lima perché non hanno lavoro, soffrono la fame, e perché l’individualismo della grande città affligge i loro cuori. “Ai viaggiatori di ritorno restano la reciprocità dell’ ayni – un giorno di lavoro per un giorno di lavoro (lo scambio di mutuo-aiuto fra comunità), un carico di legna per un carico di legna-, e la minga – un giorno di lavoro per un pranzo, con musica, bevute e balli – fra familiari di uno stesso ayllu o di una comunità, come ultima risorsa nelle Terre Alte, quelle della Cordigliera, lì dove coloro che tornano senza virus sperano di arrivare e essere ben ricevuti”.
Forse siamo di fronte all’inizio di una inversione del ciclo, l’emigrazione dalla città al campo, la stessa che ci propongono in questi giorni i ribelli del Rojava, “tornare alla terra” per “ripopolare i villaggi rurali”, come recita il comunicato del Comitato di Solidarietà col Kurdistan di Città del Messico. Sento che ciò che stanno facendo diversi andini, è tutto un programma per affrontare il collasso del sistema.
Dalla regione andina andiamo fino a Montevideo (Uruguay). Qui è accaduto quello che un gerarca del governo municipale ha definito come “l’occupazione urbana più grande degli ultimi cinquant’anni”. Si tratta di un migliaio di famiglie che occupano un terreno enorme di un’impresa di servizi portuali, abbandonato da circa 50 anni, i cui proprietari hanno un grosso debito con lo Stato.
L’occupazione è iniziata a gennaio con appena 28 famiglie, a Santa Catalina, la periferia povera occidentale di Montevideo. La necessità ha provocato l’esplosione della protesta delle famiglie che hanno deciso di correre il rischio di occupare un terreno privato, per superare il sovraffollamento in cui vivono. Giovedì 16 di aprile il ministero degli interni ha dispiegato una forte operazione con decine di poliziotti, elicotteri e droni, imprigionando 5 abitanti. Due di loro sono stati condannati alla detenzione domiciliare.
Lunedì 20, sfidando l’ordine di restare a casa, fra i 50 e i 100 occupanti hanno manifestato di fronte al palazzo del governo. Hanno resistito al tentativo di sgombero, hanno preso l’iniziativa e hanno sfidato la quarantena. Si tratta di lavoratori impoveriti, disoccupati, collaboratrici domestiche, facchini, pescatori e perfino di alcuni poliziotti, che non possono pagare neppure un modesto affitto in una zona che fu un centro importante del movimento operaio.
L’avvocato Pablo Ghirardo, che rappresenta i sindacati e che ha lavorato per vari mesi con gli occupanti del quartiere, che hanno battezzato “Nuovo Inizio”, assicura che lo hanno fatto “per il sovraffollamento, vivono anche in sette persone in un mono-locale dove piove, oltre che per la forte speculazione immobiliare che rende impagabii gli affitti”. Nella manifestazione portavano cartelli sui quali si leggeva: “La terra a chi la abita” e “Non condannateci per essere poveri”.
Nel quartiere funziona un punto di ristoro per fare spuntini, grazie alle donazioni di vari sindacati e di abitanti solidali del quartiere. Hanno tracciato le strade future e lasciato luoghi liberi per spazi collettivi e il salone comunale. Sono così bene organizzati che la polizia non è riuscita a sloggiarli. Il palo che un giorno di gennaio un’abitante ha messo per marcare il suo spazio in un terreno abbandonato, si è moltiplicato fino a trasformarsi in un quartiere.
Jorge Zabalza qualifica la grande occupazione come “un’esplosione sociale simile a quella con cui hanno iniziato gli studenti che hanno saltato i tornelli nel metro di Santiago del Cile”. Centinaia di migliaia di persone sono state cacciate dal modello estrattivista ai margini della città. Per Zabalza, “l’iniziativa individuale, che è divenuta una valanga collettiva, consente di presagire l’esistenza di un immaginario che anticipa future ribellioni popolari”.
Claudia Michelesi dice
Bellissimo e appassionante. Mi da speranza.
Grazie
Enza TALCIANI dice
Solidarizzo con quelle splendide popolazioni. Coraggio, possiamo continuare a<far conoscere la vostra storia ed il vostro coraggio!!