In questi ultimi giorni, è appena cominciato l’inverno, il coronavirus ha ripreso a colpire più pesantemente l’Argentina. Il numero dei contagi e dei morti continua a crescere, oltre 60 mila i primi e più di 1300 i secondi. Il governo ha scelto di tornare alla fase 1 delle restrizioni, cominciate in quel lontano 20 marzo, oltre tre mesi fa, un lockdown più lungo che a Wuhan. La crisi sanitaria ed economica non poteva non mettere in ginocchio il paese. Le conseguenze più dure le pagano, come sempre, i poveri, soprattutto quelli che nelle villas miserias non hanno accesso all’acqua e non possono avere nemmeno ambulanze che li vadano a prendere a casa per “motivi di sicurezza”. Eppure, la straordinaria solidarietà tra los de abajo che la pandemia ha portato alla luce e che Raul Zibechi ha descritto in questo suo lunghissimo racconto latinoamericano (questa è la penultima puntata, trovate qui le altre I–II–III –IV –V–VI–VII e VIII) anche nelle periferie urbane dell’Argentina inventa il suo miracolo della vita. Lo testimonia la storia della escuelita dell’Universidad Trashumante della periferia di Córdoba. Un vicenda colma di autonomia e dignità, nata da un collettivo di educatori popolari che hanno abbandonato le aule per stare con i riciclatori di rifiuti e i braccianti. Per fare in modo, soprattutto, che quelli che stanno più in basso di tutti abbiano la possibilità di dirigere le proprie organizzazioni, senza “capi” provenienti dalle classi medie illuminate. Così come lo mostra la seconda storia, che racconta padre Charly: la famigerata Villa 21, nota nel mondo come la più grande e tremenda della capitale, viene descritta da uno di questi straordinari preti che vanno nelle villas per “imparare” come “il miglior quartiere della città” per quel che riguarda la soliarietà e l’organizzazione. Durante la pandemia, spiega, abbiamo constatato quanto poco sappiano i governi, anche quelli progressisti, di ciò che avviene nelle villas. Il Covid 19 fa emergere tutto quello che c’era: la precarietà del lavoro, la mancanza di acqua, l’impossibilità di risparmiare qualcosa…ma anche la tubercolosi, la dengue, l’HIV, i senza fissa dimora e i carcerati. Solo adesso si vede tutto insieme

“Quello che abbiamo imparato nel corso degli anni frequentando la escuelita di educazione popolare transumante ci ha nutrito per affrontare questa situazione”, dice Mari, un’abitante del barrio[1] 12 Luglio alla periferia di Córdoba. Si tratta di un barrio occupato in cui vivono 300 famiglie, che hanno aperto strade e hanno portato la luce e l’acqua secondo l’usanza del lavoro collettivo. Si gestiscono in assemblea e stanno creando cucine comunitarie e orti familiari con il supporto delle abitanti più impegnate.
La Transumante, il cui nome ufficiale è Università Transumante, è nata negli anni 1990 “in un contesto in cui la gente aveva perso la fiducia nei governi e nella politica”, spiega Mariana. “Abbiamo cominciato a muoverci con il Quirquincho (l’autobus con cui hanno fatto lunghi giri) in cerca di questo paese “altro”, per incontrarci con la profonda realtà di quelli che stanno in basso, per imparare altri modi di fare politica”.
Per anni la Trashumante è andata nei piccoli villaggi che a fatica figurano sulle mappe e che sono invisibili alla politica mediatica. “La chiamiamo pedagogia intimista, e consiste nell’ascoltare i gruppi locali. Abbiamo trovato molto fatalismo e molta immobilità, e così ci siamo resi conto della persistenza del virus della dittatura militare attraverso la paura”.
Piter sostiene che “la prima transumanza è consistita nell’uscire da un progetto di ampliamento all’interno dell’Università di San Luis e migrare dall’istituzionale alle intemperie dello spazio aperto, perché nelle istituzioni tutto era marcio, e il pensiero critico era molto conformista”.
Aggiunge poi alcune parole a proposito del concetto di pedagogia intimista: “Non siamo andati a cercare una nuova teoria politica razionale che spiegasse quello che stava succedendo, ma a scoprire il modo in cui la gente viveva la situazione e come stava reagendo”.
Mariana spiega che per anni si erano dedicati a “scavare e immergersi nel mondo che sta in basso”, ma nel 2008 c’era stata una svolta: avevano cominciato ad operare all’interno di organizzazioni costituite da persone della classe media, in genere universitari che riponevano le proprie speranze in quelle istituzioni che la Transumante rifiutava. “A quel punto abbiamo deciso di lavorare nei territori dei settori popolari, perché loro stessi dirigessero le proprie organizzazioni”.
Hanno creato un nuovo progetto: la Scuola di Formazione di Educatori dei Territori Popolari o, semplicemente, la escuelita. Le motivazioni le mette in luce Piter: “La classe media si stava impadronendo della pedagogia delle e degli oppressi, e la creazione dell’escuelita significava abbandonare il ruolo dell’insegnare alla gente e cominciare a dialogare con le compagne e i compagni dei barrios sulle forme di organizzazione e di educazione”. La rete ha tre principi: autonomia, autogestione e orizzontalità, che, dice Mariana, “sono pieni di contraddizioni”.
Diverse donne che abitano nel barrio 12 Luglio partecipano all’attività dell’escuelita, come Ana, che si dedica al settore della salute e dell’auto-cura. “Lavoriamo con erbe medicinali e ci relazioniamo con il dispensario”, dice una voce disturbata dalla pessima connessione a internet.
Gabi opera nel settore dell’educazione. “Tre volte alla settimana lavoriamo con bambini e bambine per aiutarli a fare i compiti, e diamo una mano a reperire sementi per gli orti”. Coltivano alimenti come le zucche per le cucine comunitarie e piante medicinali per curare le malattie croniche che si moltiplicano in situazioni di povertà.
Ho conosciuto Mari parecchi anni or sono, alla escuelita. “Per le cucine comunitarie utilizziamo quello che ciascuno degli abitanti della zona ha in casa. Uno porta una carota, un’altra un pacchetto di pasta e un’altra una o due cipolle. Riceviamo alcune donazioni dalla chiesa e da professionisti amici della Transumante. Diciamo alla gente che aprano più cucine, se possibile una per ogni isolato, perché dallo Stato non arriva nulla”.
L’Incontro di Organizzazioni, una formazione ispirata al movimento dei piqueteros (disoccupati) durante la sollevazione del dicembre 2001, fornisce generi alimentari derivanti dalle loro mobilitazioni per fare pressione sullo Stato. “Non accettiamo donazioni da parte di chi ci pone delle condizioni, come alcune chiese che ci offrono cibo ma vogliono che si mettano in vista le insegne della loro chiesa”.
Nella zona La Soñada, nel barrio Autódromo, Yaqui (che a sua volta si è formato all’escuelita) dice che in questi giorni l’obiettivo principale dell’organizzazione del barrio è quello di stare con i bambini e le bambine. Inoltre hanno creato una cucina comunitaria per dar da mangiare ad anziani e donne incinte. Alla escuelita avevano affrontato l’argomento della centralità dell’auto-cura.
“La pandemia ci ha mostrato quello che siamo capaci di fare; tutto ciò che abbiamo imparato in anni di formazione lo stiamo mettendo in pratica e ci ha reso molto forti”, osserva Mari. Yaqui aggiunge che nei barrios ci sono più organizzazioni e più capacità di fare di quante non ce ne fossero prima della quarantena: “Compaiono mani solidali di persone che non conosciamo, c’è un certo sentore di solidarietà”.

È impossibile non parlare della violenza di genere. “Nel barrio ci sono stati incendi e donne malmenate, ma tutto il barrio si è unito per dare una mano a quelle famiglie”, conclude Ana. Non aspettano niente dallo Stato, né cibo né giustizia. “Si nota il bisogno che la gente ha di stare unita”.
In sintesi, questa è la storia carica di dignità di un collettivo di educatori popolari che hanno abbandonato le aule per stare con riciclatori di rifiuti e braccianti, per fare in modo che quelli che stanno più in basso di tutti abbiano la possibilità di dirigere le proprie organizzazioni, senza “capi” provenienti dalle classi medie illuminate.
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“Una bambina o un bambino possono trascorrere tutta la vita, fino alla vecchiaia, in spazi auto-gestiti dalle e dagli abitanti del barrio, che sono quelli che portano avanti questi compiti”, dice in poche parole padre Carlos Olivero, della Villa21-24 del barrio Barracas, nella città di Buenos Aires.
Nella più grande villa miseria[2] della città, padre Charly, come lo chiamano i residenti, dal 2002 vive e lavora nella parrocchia di Caacupé. La chiesa è stata costruita dalla gente attraverso il lavoro collettivo: mentre gli uomini impastavano la malta e posavano i mattoni, le donne preparavano il pasto e sostenevano il lavoro comunitario. A dare il nome alla chiesa sono stati gli immigrati paraguayani, che hanno voluto ricordare il santuario più emblematico del loro paese.[3]
Nella villa opera una straordinaria rete di hogares[4], racconta Charly: case per anziani, asili per l’infanzia, case per persone trans, per persone che soffrono di malattie come l’HIV o la tubercolosi, per consumatori di droghe e per seguire persone che escono dal carcere.
Hanno anche una scuola professionale, frequentata da un migliaio di giovani ogni quadrimestre, una scuola primaria e una scuola secondaria. Quando si tratta di elencare le attività che si svolgono nella villa, è impossibile non perdersi. Charly enumera spazi e compiti. “L’Hogar di Cristo si concentra sulla cura dei più vulnerabili, persone senza fissa dimora, consumatori di droghe, ex carcerati. Abbiamo una fattoria per donne con i loro bambini e cooperative per il reinserimento degli ex drogati”.
Fanno visita a più di 300 persone sottoposte al sistema penitenziario, ma con una caratteristica che differenza il loro progetto: “Quelli che vanno a visitare i carcerati sono compagni che a loro volta erano stati privati della libertà, per cui sanno di che cosa si tratta. Li affiancano in modo che possano essere sicuri che quando saranno rimessi in libertà avranno qualcuno a sostenerli”.
Cerchiamo di tirare le somme: i ricognitori sono circa 2500, per l’Hogar di Cristo passa un migliaio di persone, gestiscono 9 mense dove danno da mangiare a una media di 200 persone al giorno. “Impossibile quantificare”, conclude Charly con un sorriso, di fronte alla mia insistenza.
“L’importante è che tutti gli spazi sono gestiti dalle abitanti e dagli abitanti. Per questo ti dico che una bambina o un bambino può passare tutta la sua vita in spazi auto-gestiti, da prima della nascita fino alla vecchiaia. L’idea è che ci siano proposte valide per ogni gruppo del barrio, ma è il barrio che si prende cura di loro
Padre Charly afferma che stanno costruendo qualcosa di “diverso dal sistema”. Appartiene al movimento dei “preti delle villas”, che si ispira all’impegno con i poveri che ha portato padre Carlos Mugica a impegnarsi con gli abitanti della Villa 31 (a Retiro, molto vicino al porto), cosa che ha pagato con la vita, assassinato nel 1974 dalla Tripla A.[5] I “preti delle villas” sostengono che vanno nelle villas ad imparare. Per questo Charly dice: “Più che a costruire un mondo diverso, veniamo a connetterci con quello che c’è già, perché il nostro è un barrio di immigrati, di gente che è venuta perché non aveva accesso ai servizi sanitari e al lavoro”.
Contrariamente alla stigmatizzazione compiuta dai media (che non smettono di parlare di violenza, droghe e delinquenza), Charly sostiene che “la Villa 21 è il miglior barrio di Buenos Aires, per la solidarietà, per il livello di organizzazione”. Durante la pandemia hanno constatato quanto poco sappiano i governi, anche quelli progressisti, di ciò che avviene nelle villas.
“La pandemia fa emergere tutto quello che c’era di non risolto, la precarietà del lavoro, la mancanza di acqua, l’impossibilità di risparmiare qualcosa… e adesso i problemi emergono tutti insieme”. Nella villa non c’erano soltanto povertà e lavoro informale, c’erano la tubercolosi, la dengue, l’HIV, i senza fissa dimora e i carcerati.
Quando è arrivata la pandemia, hanno moltiplicato le mense e la consegna di generi alimentari alle famiglie, e hanno messo tutti i loro spazi al servizio del barrio. “Perché i governi vogliono risparmiare sui generi alimentari, e le procedure burocratiche sono un disastro tale che nessuno vuole più vendere a loro”, dice Charly con indignazione.
Lui lavora con i movimenti sociali del barrio, che considera imprescindibili. Con gli attivisti sociali hanno fatto un censimento delle persone vulnerabili e delle infermiere, e hanno allestito dei punti di vaccinazione, distribuiti sui 63 ettari della Villa 21-24. “Qui le persone non si possono isolare, perché a causa del sovraffollamento arrivano fino a dormire in sette in una sola stanza”.
Charly ci fa notare che nel barrio non entrano le ambulanze, per motivi di “sicurezza”. I protocolli ufficiali non hanno quindi la minima utilità in situazioni di povertà estrema. Per questo le organizzazioni sociali hanno superato le distanze per prendersi cura del barrio”, dice Charly.
“Vedo uno scenario abbastanza difficile. In tempi di guerra accettiamo l’economia di guerra, ma dal momento che non c’è guerra, i bisogni esploderanno. Vogliamo rispondere all’urgenza, ma vogliamo che questa risposta lasci una capacità installata nel barrio”. Insomma, organizzazione.
Padre Carlos Olivero si congeda con una frase quasi biblica, frutto della sua esperienza di vita: “Con lo Stato non ci si riesce, perché lo Stato non conosce la realtà dei barrios. Quello che verrà deve essere con l’organizzazione popolare. Questo significa che le compagne e i compagni non diventino dei dirigenti, affinché non abbassiamo le braccia”.
Fonte: “Argentina: el milagro de la vida en las periferias urbanas”, pubblicato online anche da El Salto.
Traduzione a cura di Camminardomandando
[1] Ndt – Quartiere in condizioni sociali e igieniche spesso disagiate, non necessariamente periferico (la Villa 21 si trova in pieno centro di Buenos Aires) – ndt.
[2] Ndt – Così vengono chiamati in Argentina gli insediamenti informali di baracche e case precarie – ndt.
[3] Ndt – La basilica della città paraguayana di Caacupé, dove si venera la Vergine dei miracoli, apparsa secondo la leggenda a un indigeno cristiano nel XVI secolo.
[4] Ndt – Case in cui ci si prende cura delle persone più vulnerabili; in italiano potremmo dire ospizi o strutture, ma non renderemmo l’idea del termine spagnolo hogar, che significa letteralmente focolare.
[5] Ndt – AAA: Alleanza Anticomunista Argentina, organizzazione di estrema destra.
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