Bisogna selezionare i migliori, grida da oltre trent’anni il liberismo, occorre premiare i meritevoli e quindi favorire la competizione. La vita è diventata ovunque una incessante gara. In questo contesto, la scuola è vissuta come una palestra nella quale correre sempre più velocemente, ossessionati dall’ingiunzione a imparare a competere per superare gli altri e noi stessi, una fabbrica di ansia da prestazione e paura di perdere e di deludere. Quale alternativa alla scuola della meritocrazia? Abbiamo bisogno di “una scuola che aiuti i bambini/e, i ragazzi/e a dare il meglio di sé e a cercare le loro potenzialità, invece che mettere in evidenza le loro mancanze – scrive Emilia De Rienzo -, una scuola in cui non si chieda di essere forti, intelligenti, ma in cui ci si senta liberi di esprimere se stessi nelle proprie differenze. Ma soprattutto che si possa accattare la propria e altrui fragilità…”
Sentiamo spesso parlare della scuola di una volta come di un modello a cui tornare. Una sorta di nostalgia dei tempi che furono. Ma proprio tornando indietro nel tempo c’è un dato che ci sfugge o meglio non si vuole prendere in considerazione: in quei tempi si accettava che la grande maggioranza degli alunni e delle alunne, soprattutto di estrazione popolare, fosse destinata a una scolarità breve.
A conferma di questo molti hanno visto in don Milani e nella sua lotta l’inizio di un decadimento della scuola stessa, attribuibile anche a tutti quegli insegnanti che hanno condiviso il suo pensiero e si sono battuti per una scuola per tutti, proprio per tutti. Si sono battuti e hanno fatto sì che, almeno nelle loro classi, nelle loro scuole, questo obiettivo fosse il proprio motore. In Lettera a una professoressa (1967), don Milani – di fronte ad una massiccia selezione scolastica – denunciava gli esiti discriminatori della scuola di quel tempo, e affermava con forza l’idea che tutti i ragazzi sono idonei per studiare. Spetta alla scuola, infatti, organizzare le condizioni adeguate d’apprendimento per tutti e per ciascun studente. Questa posizione influenzò in modo sensibile gli atteggiamenti della scuola progressista, spostando l’attenzione dal merito all’eguaglianza. Non bisogna dimenticare che questo spostamento fu però costantemente osteggiato dalle forze conservatrici.
“Non esiste la società. Esistono solo gli individui”, diceva Margaret Thatcher alla fine degli anni Ottanta. Con questo motto si apprestava a modificare il patto di cittadinanza che prevedeva il rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno, a destrutturare il welfare, a trasformare profondamente la partecipazione sociale e politica e la ricerca del bene comune e dell’interesse collettivo perché, diceva la premier britannica, “a troppe persone è stato fatto credere che se hanno un problema è il governo che deve risolverglielo”. Un’affermazione molto chiara, senza veli e senza nascondimenti retorici. Era assolutamente esplicito che si promuoveva un regime basato su un individualismo crescente, sulla concorrenza che faceva leva sul concetto di merito. Secondo la sua convinzione ognuno poteva raggiungere il successo se si impegnava ed era utile tutto ciò che permetteva la messa a profitto del capitale. Doveva essere, quindi, l’economia (quella neoliberista) il motore della società a cui tutto doveva essere adeguato.
Oggi il neoliberismo è diventato l’ideologia dominante del nostro tempo e, pur presentandosi come una semplice dottrina economica, è profondamente radicato nella nostra società ed è penetrato profondamente nella nostra mentalità. È troppo spesso il motore delle nostre azioni. La solidarietà è, in questa logica, vista come freno allo sviluppo e causa di comportamenti rinunciatari se non parassitari.
La competizione riveste una posizione fondamentale. Tutte le politiche attuali, da quelle grandi, come la riforma della scuola, a quelle piccole che possono riguardare la nostra vita quotidiana di tutti i giorni, sono guidate da questa idea pervasiva: bisogna selezionare i migliori, premiare i meritevoli e quindi favorire la competizione. La logica della competizione economica e del mercato, arriva a plasmare la nostra quotidianità e soggettività. Siamo messi in competizione con gli altri e con noi stessi, non solo nella sfera professionale, bensì ogni volta che scegliamo come parlare, come rapportarci agli altri, come guardare ai nostri figli e così via. Siamo guidati nella nostra vita da questo imperativo, Competi! e la vita diventa una incessante gara.
In questa prospettiva, la scuola viene vista come terreno di una gara aperta a tutti, e la carriera scolastica degli studenti viene basata sulla capacità (o talento): ciascuno è responsabile di ciò che ottiene, se si risulta tra i perdenti, si deve incolpare solo sé stessi. La scuola quindi come una palestra di allenamento alla competizione: una continua gara che ignora comunque la disparità dei punti di partenza (e della diseguaglianza dei sostegni in itinere). In questo modo, gli svantaggi sono trasformati in demeriti. Contemporaneamente la famiglia riversa sui propri figli ambizioni e richieste che non favoriscono certo una crescita serena del ragazzo/a : nella vita bisogna emergere e fare in modo che gli altri se ne accorgano.
Il forte accenno messo sul merito è una pericolosa “trappola ideologica”, in grado di minare i fondamenti stessi della nostra concezione di uguaglianza sociale tra gli individui.
Correre sempre più velocemente, ossessionati dall’ingiunzione a imparare a competere per superare gli altri e noi stessi, provoca a lungo andare ansia da prestazione, paura di perdere, di deludere, umiliazione per le sconfitte.
Tra tanti episodi ne citerò uno. Elisabetta in prima media un giorno prende «quasi distinto» in matematica. La trovo disperata in lacrime, il pianto si fa sempre più convulso e la respirazione sempre più faticosa. Le chiedo perché quella disperazione per un voto e per di più alto. Mi risponde: Chiara ha preso più che distinto! E allora? Mia mamma mi dirà che non ho studiato, se la mia compagna ha preso un voto più alto del mio per lei vuol dire che non mi impegno abbastanza.
Cosa c’è dunque in gioco in questo tipo di competizione? A essere in gioco è la serenità di una bambina a cui si chiede di essere sempre più brava a tutti i costi, di essere di più, sempre di più anche di una sua amica. Sono in gioco le relazioni con gli altri, con le amiche, con i compagni, è in gioco un concetto sbagliato di studio visto come uno strumento per meritare un premio e la stima dei più grandi.
Succede, allora, il bambino/a per essere accettato e amato fa di tutto per rispondere alle aspettative dei genitori e degli insegnanti , a volte in contrapposizione ai compagni. In questo modo però rischia di sacrificare alla parte più profonda di se stesso, alla sua sfera emotiva, affettiva. La crescita sana di un bambino/a non può basarsi solo sulla sua intelligenza a discapito della complessità che caratterizza ogni individuo per essere accettato..
Si tratta – dice la Vegetti Finzi – spesso di un “rischio «differito» che emerge più avanti «quando l’intelligenza non basta più per sentirsi vivi, amati e accettati. Quando si cerca se stessi. E non ci si trova: perché l’intelligenza, appunto, non è tutto nella vita di una persona».
Quando la nostra identità è legata alla performance, la qualità della nostra performance definisce che cosa siamo, oggettivizza la persona che deve rinunciare alla sua ricchissima soggettività.
Ma questa logica devia anche il percorso di un insegnante, lo condiziona, gli fa credere che la sua responsabilità è seguire con più attenzione quegli studenti definiti come “le eccellenze” per favorire il progresso economi
«Nella mente di coloro che vogliono aiutare i giovani – dicono Benasayag e Schimit ne L’epoca delle passioni tristi -, domina l’idea di un futuro minaccioso. Ecco che allora chi esercita una responsabilità pedagogica si comporta come se avesse di fronte un pericolo: deve combattere per superarlo e per aiutare il maggior numero di persone a uscirne vittoriose. Così la nostra società diventa sempre più dura: ogni sapere deve essere “utile”, ogni insegnamento deve “servire a qualcosa”» . Ne consegue che «gli sforzi di tutti gli allievi e insegnanti devono essere tesi alla ricerca delle competenze migliori e dei diplomi più qualificati, sola garanzia di sopravvivenza in questo mondo pieno di pericoli e di insicurezza, caratterizzato dalla lotta economica di tutti contro tutti» .
Le ansie, le angosce, le paure di fallimento sono diventate patologie sociali, che connotano l’esperienza scolastica dei nostri studenti il cui futuro ha il carattere della minaccia, anziché quella della speranza.
Non c’è spazio per la cura del proprio essere più intimo e interiore, per l’attesa, per uno sguardo lungo che possa pensare ad un mondo migliore. L’ideologia meritocratica, da questo punto di vista, ben incrocia le istanze del liberismo economico e si dimostra sempre più come il coronamento di un’idea di società ben definita e selettiva in cui non c’è spazio per l’imprevisto, il cambiamento e l’originalità.
Bisogna fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido soggetti-oggetti che siano malleabili e funzionali al mondo economico, che non pongano tante domande, ma siano capaci di adattamento psicologico e professionale.
Il progetto di una scuola per tutti oggi, sembra pericolosamente arretrare ed essere sempre più lontano da l’articolo 34 della Costituzione: “la scuola è aperta a tutti”. Classificare, etichettare, scegliere i migliori e privilegiarli nell’impostazione della Scuola: questo è il progetto che sottende le scelte politiche. Questo il senso della parola “Merito” apposta al nome del ministero dell’istruzione. Ecco che si comincia a parlare di “classi di transizione” destinate ad alunni immigrati che non abbiano una buona padronanza della lingua italiana, classi che si avvicinano molto alle “quelle differenziali” che sono state luoghi di forte discriminazione e di diseguaglianze culturali e sociali. Si delegittima poi l’inclusione e compaiono articoli come quello di Galli della Loggia, del 13 gennaio sul Corriere della Sera: “Il Mito dell’inclusione nella scuola italiana”, in cui l’intellettuale polemizzava sulla presenza nelle nostre aule di ragazzi disabili e stranieri.
E allora tocca a chi ancora crede in una scuola per tutti/e sviluppare una forte critica alla meritocrazia per riaffermare la centralità del diritto all’istruzione. Riaffermare che una Scuola della Costituzione parla il linguaggio dei diritti, non quello meritocratico.
Una scuola che aiuti i bambini/e, i ragazzi/e a dare il meglio di sé e a cercare le loro potenzialità, invece che mettere in evidenza le loro mancanze in cui non si chieda di essere forti, intelligenti, ma in cui ci si senta liberi di esprimere se stessi nelle proprie differenze. Ma soprattutto che si possa accattare la propria e altrui fragilità.
Così, Anna, una ragazza appena uscita dalle superiori parla della sua esperienza: “A scuola la tua identità diventa: studente di livello alto, medio, basso. Quando non si dice: sei uno da otto e hai preso solo sei… Ti mettono addosso un’etichetta e questa te la porti fuori anche della scuola. Succede così che se sei uno studente in genere “molto performante”, quando prendi un voto anche solo un po’ più basso, senti di aver deluso le aspettative che hanno su di te. Quello che sei tu in tutte le tue infinite sfaccettature, non esiste. Cancellato. E alla fine, quando diventi più grande ed esci della scuola ti chiedi chi sei veramente…”.
Questo articolo di Emilia D Rienzo – insegnante per oltre trent’anni a Torino – fa parte di una ricerca che prova a scavare intorno a diverse parole/concetto con le quali favorire il passaggio da una scuola del “Non si può” a una “Scuola del dialogo”. Il senso della ricerca viene spiegato in questo articolo:
Le altre parole della ricerca:
PAZIENZA; SILENZIO; AULA; CURA; FANTASIA [I]; FANTASIA [II]; RICONOSCIMENTO; ASCOLTO; RACCONTARE/RACCONTARSI; RACCONTARE / TESTIMONIANZA; SOGNO; ETICHETTE; AGGRESSIVITÀ
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Giuseppe Campagnoli dice
La meritocrazia un falso mito.
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Fiorella Palomba dice
L’incipit “Sentiamo spesso parlare della scuola di una volta come di un modello a cui tornare.” con cui Emilia chiama alla riflessione ci dice molto sulla devianza che il c’era una volta porta con sè.
Insegnare non è un compito semplice, anzi. Deve essere chiaro che cosa si vuole ottenere: ragazze e ragazzi colti, onesti e solidali oppure corridori in corsa per la vittoria? Io non ho dubbi e voi?🌸