Quando i ragazzi comprendono l’importanza di raccontarsi e si sentono ascoltati, possono anche sentire l’esigenza di scrivere. La scrittura diventa un momento in cui fermarsi a riflettere su se stessi e trovare così le parole per esprimere ciò è depositato dentro di loro. All’inizio scrivono così come sanno, fanno errori, le loro frasi sono confuse, a volte sconnesse, ma poi, pian piano migliorano, accettano di impegnarsi, chiedono aiuto: il loro impegno nasce dal desiderio di comunicare, di lasciare, su un foglio di carta bianca, qualcosa di sé.
La scuola non dà quasi mai risalto al racconto di ciò che i ragazzi hanno vissuto lì dentro. Ed invece, proprio loro avrebbero molto da dire. Troppo spesso passano tra quei banchi senza poter lasciare qualcosa che appartenga loro, senza lasciare un segno, senza poter dire cosa hanno trovato o avrebbero voluto trovare. “Dove vanno a finire i lavori che facciamo, quando usciamo dalla scuola, dove li conservate?”, mi ha chiesto una volta un ragazzo. “Cominciamo a tenerli con cura noi”, gli avevo risposto. E così avevamo fatto. Quando trovano lo spazio per esprimersi, infatti, i ragazzi sanno dire molto di come la scuola potrebbe cambiare in meglio, di quanta umanità passa in quelle aule. E i loro lavori ben rilegati erano stati letti e consultati dai ragazzi che erano venuti dopo, che a loro volta avevano lasciati i loro.
Raccontarsi l’uno all’altro è un modo per trovare un filo, un senso, un modo per organizzare i propri ricordi, per dare forma alle proprie esperienze di vita. Per semplice che sia, ogni racconto ha una trama: e la trama non è esattamente il modo in cui la vita “si dà”, è il modo in cui la vita acquista significato grazie alla forma che il racconto le conferisce.
Raccontare se stessi è un compito interminabile.
Ciò nondimeno, la ricerca del sé resta una delle pratiche più terapeutiche che esista: essa trasforma la nostra vita in esperienza. Ecco perché è importante che i ragazzi imparino a raccontarsi, perché poterlo fare restituisce dignità ad ognuno di loro, perché ognuno di loro è portatore di storie, valori a cui forse diamo molto poco spazio.
Ogni storia ha la sua ricchezza, anche quando è fatta di dolore e di sofferenza.
Rashid era un alunno della ex Jugoslavia, emigrato nel periodo della guerra. Un ragazzo chiuso, ma con una grande sensibilità che mi chiedeva spesso di essere lasciato solo a pensare. Nel tempo ha cominciato a parlare di sé, inizialmente piccoli episodi, poi sempre di più mi chiedeva aiuto perché sentiva l’esigenza di “buttar fuori”. Il terzo anno voleva che gli altri capissero. Ed ha scritto, scritto, scritto. Questo è uno degli ultimi lavori che mi ha lasciato:
In quel buio specchio che è la coscienza vedo un bambino pieno di rabbia e rancore, che nel tempo ho domato, quasi represso nascosto nell’animo. Questo bimbo mi parla delle sue sofferenze: nascere nella guerra e vivere nella paura di morire, arrivare in un paese straniero, imparare la lingua senza dimenticare la lingua natale, lo slavo, fa nascere una rabbia che ti colpisce dentro.
Piccole offese, disattenzioni, indifferenze e odi, forse involontari, ma che lasciano il segno nel cuore, prevalgono anche se hai un animo buono, ti fanno diventare nervoso e sentire incompreso. Alle elementari cercavo di conquistare gli amici con gli oggetti-simbolo per attirare la loro attenzione, ma mi sentivo solo e la rabbia aumentava dentro di me.
Finalmente sono arrivato alle medie dove mi bastava parlare per essere ascoltato e spiegare per essere capito. La mia rabbia è diventata energia, ho cominciato a vedere finalmente la vera persona che ero e ancora sono. Sono un ragazzo sentimentalmente esperto sulle sofferenze altrui, un ragazzo che vorrebbe condividere il piacere di essere se stesso, un ragazzo come gli altri con una storia diversa. Perché diverso non sta al posto di pericoloso. Un ragazzo che tiene alle sue origini e non permette neanche al suo miglior amico di offenderlo per la religione o colore della pelle.
Come mi vedono gli altri? Molti in generale come il pericolo rivolto alla società, come chi distrugge le tradizioni degli altri e toglie il lavoro altrui… È già difficile normalmente vivere in un posto che non è la tua casa, in più dove gli altri provano disprezzo per te. Molte volte sento al mercato o nelle propagande politiche una mentalità che in parole povere dice “via l’invasore, via il diverso”.
Invece, vorrei che gli altri vedessero in me una persona diversa ma nel senso buono della parola: come una persona da cui si può imparare un pensiero diverso, vorrei vedessero una persona che ha dei diritti come delle responsabilità verso la società, vorrei che si aiutasse davvero l’emigrato senza volerlo rispedire in un paese forse in guerra, dove forse, appena arrivato verrà imprigionato o persino ucciso.
Forse, se le persone vedessero il bambino che ho visto io, capirebbero quanto si soffre, non a essere, ma a sentirsi diversi dagli altri e considerati inferiori. Se trovassimo il clima di aiuto e di amicizia anche fuori della scuola, ci può essere una speranza per chi come me pensa che non è la diversità e le cose che ci dividono in gruppi e ci diversificano, ma è importante quello che abbiamo in comune: il fatto di essere persone uguali in diritti e libertà».
Era molto orgoglioso Rashid e una volta un compagno che gli voleva sinceramente bene, mi ha detto che sembrava quasi che rifiutasse l’aiuto. Ne abbiamo parlato insieme. Rashid con gli occhi bassi gli ha spiegato che l’aiuto che gli veniva dato, non era alla pari come avveniva tra altri compagni. Lui si sentiva inferiore all’altro e questo gli faceva male. I suoi genitori erano poveri perché durante la guerra nella ex Jugoslavia avevano perso tutto, anche il titolo di studio e suo padre che era laureato ora doveva fare un lavoro umile per mantenere la famiglia. Ha aggiunto guardando negli occhi il suo compagno: “Prova a immaginare cosa vorrebbe dire per te e per la tua famiglia trovarti un giorno nelle mie stesse condizioni, come ti sentiresti?”. Aveva perfettamente centrato il punto. L’altro aveva abbassato lo sguardo e aveva detto: “Adesso forse capisco”. E il passo importante nell’accettazione di una realtà difficile avviene nel momento in cui il ragazzo sente che la sua storia aiuta gli altri ad aprire le loro menti, a capire qualcosa di nuovo, a capire che anche lui ha qualcosa da insegnare.
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Questo articolo di Emilia D Rienzo – insegnante per oltre trent’anni a Torino – fa parte di una ricerca che prova a scavare intorno a diverse parole/concetto con le quali favorire il passaggio da una scuola del “Non si può” a una “Scuola del dialogo”. Il senso della ricerca viene spiegato in questo articolo:
Le altre parole della ricerca:
PAZIENZA; SILENZIO; AULA; CURA; FANTASIA [I]; FANTASIA [II]; RICONOSCIMENTO; ASCOLTO; RACCONTARE/RACCONTARSI;