Il primo diritto di un bambino, quando entra a scuola, è di essere riconosciuto nella sua storia qualunque essa sia, di essere riconosciuto come soggetto unico e irripetibile. Non è in gioco semplicemente la volontà di stabilire un contatto con altri, ma più profondamente quella di condividere il proprio mondo, di sentire riconosciuta la propria voce e, con questa, la propria sensibilità. Questo riconoscimento può essere rafforzato dalla letteratura: cosa possono insegnare infatti gli scrittori e le scrittrici se non la capacità di dire ciò che i ragazzi non riescono a dire, a decifrare i diversi modi di sentire? “Il primo compito della scuola dovrebbe essere creare un buon clima di classe dove ogni storia è un mondo – scrive Emilia De Rienzo – e ogni mondo ha la sua ricchezza…”
“Caro diario, ho capito che non mi conosco fino in fondo. In generale non so cosa scrivere quando devo parlare di me, non riesco a descrivermi. Però qualcosa ho capito di me: io voglio apparire in alcuni casi quello che non sono, lo faccio perché ho paura di non essere accettato. Io mostro di me solo le cose che voglio mostrare: anche se probabilmente è una cosa sbagliata io non riesco ad evitarla. Ho paura che se mi espongo troppo uno potrebbe ferirmi dove fa più male. In questo modo però mi sento insicuro di me stesso. Se uno mi coglie di sorpresa potrebbe vedere che dietro alla maschera c’è un bambino con il dito in bocca. A me questo mondo fa paura, ho paura che se cadessi e nessuno venisse ad aiutarmi, non riuscirei a rialzarmi. Io mi sono reso conto che ho dei comportamenti da egoista: quando S. che è mio amico sta con qualcun altro io vado in crisi pensando che lui non mi parla più e non è più mio amico. Lo so è strano, ma è così. Io vivo nel terrore di essere lasciato da solo”
(Testo scritto da P. un ragazzo di seconda media)
Ogni bambino che entra in una classe si porta dietro il suo passato, la sua storia, il suo modo di essere, la sua unicità, le sue paure, le sue speranze. Non sa quanto e come verrà accolto, non sa se riuscirà a inserirsi nel gruppo, se sarà all’altezza delle richieste che gli verranno fatte. Non sa…
Si porta dietro tutto il suo mondo, in primis quello famigliare con tutte le sue contraddizioni, le sue regole, i suoi giudizi o i suoi pregiudizi, il suo status sociale… Il mondo in cui ha trascorso la sua vita e l’ha in qualche modo forgiato, condiziona la possibilità stessa del suo divenire, lo può avvantaggiare, ma anche penalizzare. Quale racconto potrà dare di sé, quando gli chiederanno “Chi sei?”.
Alcuni già hanno sperimentato una situazione di emarginazione, vivono in situazioni segnate dalla precarietà, dall’abbandono, dalla chiara sensazione che la propria vita non è considerata degna come quella di altri. Non è certo una consapevolezza razionale, ma è un sentire ancora opaco che si manifesta ancora di più nel momento in cui è esposto allo sguardo degli altri.
Del resto, lo sappiamo ormai con chiarezza, viviamo in un mondo fortemente segnato dalla disuguaglianza, dalla diversità, in cui è importante il tuo aspetto fisico, il tuo modo di vestire: l’apparenza.
Da questa realtà arrivano i nostri allievi e la scuola pubblica dovrebbe avere quel compito che gli dà la Costituzione: “… rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, ma stiamo andando in questa direzione?
Il primo diritto di un bambino, quando entra a scuola, è quello di essere riconosciuto nella sua storia qualunque essa sia, di essere riconosciuto come soggetto unico e irripetibile. Non è in gioco semplicemente la volontà di stabilire un contatto con altri, ma più profondamente quella di condividere il proprio mondo, di sentire riconosciuta la propria voce e, con questa, la propria esistenza e la propria sensibilità. Se il proprio mondo interiore non può in qualche modo essere condiviso e riconosciuto ci si sente soli.
La solitudine è una dimensione che ci appartiene, una dimensione interna che tutti abitiamo, ma la scoperta della propria diversità coincide con una solitudine particolare, la solitudine che ti fa sentire estraneo al contesto in cui si è calati. Il peso della diversità, qualunque essa sia, è difficile da sostenere e la tentazione è quella dell’omologazione, della rinuncia.
Nietzsche ha scritto che le persone nei loro contatti col prossimo debbono sempre “simulare una superficie”, una superficialità di comunicazione che possa fingere una normalità che non ci appartiene. Oggi questo è visibile ancora di più di ieri immersi come siamo nel mondo dei social.
Ecco che la scuola può dare un grande contributo. Del resto cosa serve insegnare per esempio l’italiano se non si insegna a comunicare? Cosa possono insegnare gli scrittori, i grandi nomi della letteratura se non la capacità di dire ciò che i ragazzi non riescono a dire, a decifrare i diversi modi di sentire? Il primo compito della scuola dovrebbe essere, quindi, quello di creare un buon clima di classe dove ogni storia è un mondo e ogni mondo ha la sua ricchezza. Solo in questo modo può diventare un luogo di confronto, dove ogni bambino si incontra con altre realtà di vita e può ritrovare la propria diversità in mezzo ad altre diversità, i propri problemi in mezzo ad altri problemi.
Là dove si vede un orizzonte di senso può esserci un risveglio, può nascere il desiderio di alzarsi e rimettersi in cammino: solo “in uno spazio respirabile e in un tempo transitabile”, come dice Maria Zambrano, dove non ci si deve più nascondere ma si può “venire alla luce” e “decidersi finalmente a nascere”. La condizione dell’umanità del resto è come afferma Hanna Arendt: “essere nati per cominciare”. Iniziare il proprio cammino. Questo può essere il nostro compito: creare uno spazio reale e vitale in cui possa aver luogo per tutti questo nuovo inizio, un luogo dove sia possibile l’incontro, dove ognuno si possa sentire diverso ma non estraneo e mai “tagliato fuori”, dove, anche partendo dal proprio labirinto interiore, si possa cercare la propria strada. Uno spazio che vinca ogni timore, che spinga ogni studente a uscire da sé, dal proprio anonimato. Uno spazio dove possa incontrare “un sapere” che sappia illuminare i passi quotidiani dell’esperienza, in cui degli insegnanti, nonostante le difficoltà, sappiano innamorarsi del loro lavoro, sappiano prestare attenzione a ciò che cambia, sappiano imprimere un movimento e accettare le sfide.
È l’atteggiamento di dialogo con l’altro, con quello che può venire dall’altro come esperienza sempre individuale, che deve essere valorizzato nella relazione educativa. Solo se le emozioni e i sentimenti degli allievi sono accolti e riconosciuti come aspetti strettamente legati all’esperienza e non come ostacolo o disturbo allo svolgimento del programma, il bambino può trovare la forza di raccontarsi, di appropriarsi della propria storia, anche se a volte dolorosa, come un valore e non come un motivo di esclusione da tutti gli altri.
Questo approccio educativo potrà aprire la mente all’apprendimento di un sapere che il ragazzo non sentirà più come estraneo, ma che sarà vissuto come un aiuto alla sua crescita, potrà trovare una spiegazione alla sua storia personale solo se capirà che la sua storia è compresa, accettata e non si sentirà aggredito da domande e commenti.
Certo è un lavoro che richiede tempi, momenti di discussione e di sospensione di attesa. Bisogna lasciare lavorare anche il tempo insieme al nostro lavoro per creare un clima di solidarietà. Non può, cioè, esserci sviluppo del singolo individuo se questo non è all’interno di una rete, di una situazione di aiuto.
Scrive Jerome Bruner:
«Una delle proposte più radicali emerse dalla psicologia culturale nel campo dell’educazione è stata quella di rivoluzionare la concezione della classe, considerandola appunto una sotto comunità di persone che apprendono le une dalle altre dove il docente ha un compito di orchestrazione (…) l’insegnante onnisciente è destinato a scomparire dalle aule scolastiche. (…) È nella natura delle culture umane formare comunità in cui l’apprendimento è frutto di uno scambio reciproco…».
Bisogna credere in una scuola del confronto, del dialogo che parta dal riconoscimento gli uni degli altri. In quale altro luogo i bambini/e, ragazzi/e possono formare il senso di sé? Dove possono dare un nome alle proprie emozioni o ai propri sentimenti? Dove imparare a stare in una relazione in modo sano, accettando le frustrazioni, i limiti, la sconfitta? Dove possono parlare, essere ascoltati, confrontare i propri modi di essere, i loro disagi, il loro malessere, le loro gioie? Con chi imparare a ridere insieme e non di qualcuno? Come comunicare la propria rabbia prima che esploda? Come condividere i propri desideri? Con chi imparare a dar conto di sé? A mettersi in discussione? A essere messo in discussione? A pensare e a riflettere? L’atto del pensare non deve diventare solo un puro esercizio intellettuale, ma un processo mentale con cui interrogarsi sulla vita, a ciò che ci lega alla realtà nelle sue molteplici forme. E il dialogo con l’altro non è contrapposizione polemica, ma scambio.
Il filosofo Charles Taylor afferma che l’identità di ognuno è intimamente legata alle forme del suo riconoscimento e quindi “un riconoscimento adeguato non è soltanto una cortesia che dobbiamo ai nostri simili: è un bisogno umano vitale”. Ognuno di noi può subire un danno reale, una distorsione, se le persone che lo circondano gli restituiscono, come in uno specchio, un’immagine di sé che lo limita, lo sminuisce, lo umilia: lo imprigiona in una definizione. In assenza di questo riconoscimento ogni ragazzo/a può rimanere imprigionato in concezioni di sé false, distorte. Non riconoscere l’altro può portare ad una forma di invisibilità di chi si vede negata la propria identità come stava capitando a Maria.
Un giorno alla fine dell’anno avevo chiesto ai ragazzi di individuare una parola che per loro avesse acquisito un significato speciale, importante nella loro vita. Molti hanno scelto: amicizia, cooperazione, gruppo, unità, affetto, gioia, felicità… Maria, che aveva parlato poco durante l’anno, ha pronunciato quasi sottovoce la parola «dolore». Nella classe si è fatto immediatamente silenzio, negli occhi di tutti una domanda che una compagna ha formulato apertamente: perché hai scelto questa parola? Maria si è alzata è ha detto a tutti: «Perché quando ci si sente sempre meno degli altri, quando non si viene considerati si prova dolore, tanto dolore. È qualcosa che ti prende qui… [e ha indicato il petto] e come se ti sentissi senza respiro… Ho bisogno di dirlo. Grazie a qualche compagna, ho trovato il coraggio… E legato al dolore provi anche odio. Odio per chi ti fa tanto male…».
Ha cominciato a raccontare tante situazioni in cui si era sentita umiliata, lasciata sola, non calcolata: era uno sfogo, quasi un lamento. Ce l’aveva con tutto e con tutti, guardava però i suoi compagni senza vergogna, senza più la timidezza che aveva contraddistinto fino a quel giorno il suo stare a scuola. I suoi compagni la stavano ascoltando con un’attenzione rara, qualcuno aveva le lacrime agli occhi. C’era commozione nella classe, un’atmosfera calda.
Io le ho chiesto ad un certo punto se non pensava che qualcosa dipendesse anche da lei, qualcosa che non aveva fatto, qualcosa che si era bloccato in lei. Lei si è messa a piangere: sì, forse era vero, lei si era adagiata, lasciata andare, ma ora aveva capito grazie a quelli che l’avevano aiutata che doveva reagire, ricominciare. Forse era tardi… La compagna di banco le aveva preso la mano e lei la stringeva forte. Qui con voi troverò il coraggio, concluse sedendosi.
Maria si era esposta agli altri e si era sentita ascoltata, accettata per quello che era. Questo è un passo importante perché un ragazzo incominci a lottare contro le sue difficoltà di apprendimento.
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Questo articolo di Emilia Di Rienzo – insegnante per oltre trent’anni a Torino – fa parte di una ricerca che prova a scavare intorno a diverse parole/concetto con cui favorire il passaggio da una scuola del “Non si può” a una “Scuola del dialogo”. Qui il senso della ricerca e i link alle parole approfondite: