di Paolo Caccari*
Le Alpi Apuane sono divorate da centocinquanta cave che asportano cinque milioni di tonnellate all’anno di materiale. Circa cinquecento sono quelle già sfruttate e abbandonate. Da una a sette cave per ogni chilometro quadrato. Cime capitozzate, crinali sfregiati, crateri ciclopici sui basamenti delle montagne, ovunque discariche di detriti e scaglie (ravaneti), polveri fini (marmettola) che diventano torbide lattiginose nei torrenti e, attraverso gli inghiottitoi carsici, penetrano nelle falde, traffico di mezzi pesanti lungo le strette strade di montagna che attraversano antichi centri.
Un patrimonio naturalistico, storico e umano – incluso nella Rete Unesco dei geoparchi che avrebbe dovuto essere tutelato dal Parco regionale istituito già nel 1985 – demolito, dunque, a copi di mine e fatto a fette come burro dal filo diamantato delle tagliatrici giganti a catena.
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Si tratta di un business internazionale industriale che nulla ha più a che fare con la tradizionale arte della lavorazione del marmo di Carrara. Uno scempio a cui si oppone il Coordinamento Apuano composto da Legambiente, Salviamo le Apuane, Salviamo le Alpi Apuane, Wwf, Cai, Fai, Italia Nostra, Rete dei Comitati toscani, Società dei Territorialisti che assieme hanno sottoscritto un Manifesto per le Alpi Apuane (qui è possibile scaricare il testo completo). Dalla loro parte si è schierato anche un drappello di sindaci coraggiosi e lungimiranti: David Saisi di Gallicano, Camilla Bianchi di Fosdinovo, Riccardo Ballerini di Casola in Lunigiana, Michele Giannini di Fabbriche di Vergemoli. Si oppongono alla monocultura dell’“economia di marmo”, chiedono una difesa idrogeologica delle valli, difendono il Piano Paesaggistico regionale che prevede anche la graduale chiusura delle concessioni a scadenza. Sono certi che le straordinarie risorse agro-silvo-pastorali e turistiche della Garfagnana, della Lunigiana, dell’Alta Versilia potrebbero dare da vivere e da lavorare agli abitanti fermando lo spopolamento delle aree interne appenniniche. Le poche centinaia di lavoratori impiegati nel settore del marmo potrebbero così trovare nel tempo una ben maggiore e più valida compensazione.
L’idea di fondo è la valorizzazione dei sistemi socio-economici locali basati su piccole produzioni di qualità che alimentino la filiera agro gastronomica locale, su servizi qualificati per il turismo, sulla autoproduzione energetica sfruttando le fonti locali rinnovabili ed anche, perché no, sull’uso dei preziosi giacimenti minerari ma solo per lavorazioni di eccellenza.
Per concretizzare tutto ciò le amministrazioni hanno deciso di costituire un Ecomuseo che funzioni anche da Osservatorio locale del paesaggio che segua le trasformazioni ambientali. Fabio Baroni ne è il principale animatore. Ha già messo in rete numerose aziende agricole e di trasformazione che riforniscono anche i Gruppi di acquisto solidale delle città, agriturismi e antichi mulini, nuove attività di guide turistiche legate alla speleologia e ai torrenti, imprenditori che utilizzano materiali di scarto delle lavorazioni del marmo. Il primo obiettivo è vincere un bando regionale per un Piano Integrato Territoriale.
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