Qualcuno negli anni Settanta ha lottato per abbattere il muro che separa chi è considerato “normale” da chi non lo sarebbe e ha sognato una scuola nella quale tutti potessero convivere, una scuola che è un po’ meglio della società. Ma ancora oggi si fa ricorso a definizioni e classificazioni che oggettivano bambini e bambine, ragazzi e ragazze, tracciano confini, misurano separando. Il pericolo della classificazione e dell’etichetta, spiega Emilia De Rienzo, è guardare nell’individuo solo ciò che appare “diverso” se non “patologico”, e dimenticare tutto ciò che è altro. Classificare un bambino significa impedirgli di evolversi, limitare le sue relazioni significa negargli una crescita. Quel cammino cominciato molti anni fa è stato complesso e contrastato e non è ancora del tutto compiuto. Non si compie mai
C’è un muro che separa i “normali” da chi considerato “normale” non è. Questo muro è stato più o meno alto, più o meno chiuso nella storia della nostra società, ma c’è sempre stato. Qualcuno negli anni Settanta ha lottato per abbattere quel muro e ha “sognato” una scuola dove tutti potessero convivere: l’ha fatto nelle scuole accogliendo nelle proprie classi quei bambini/e, ragazzi/e che sempre erano rimasti separati quando non addirittura “istituzionalizzati”. E molti hanno toccato con mano che non solo era possibile, ma era un arricchimento per tutti. E dopo tanta sperimentazione è arrivata una legge, la legge che poneva fine alle classi speciali e differenziali. Il cammino è stato lungo e contrastato e non è ancora del tutto compiuto. Non si compie mai.
Il pericolo è sempre in agguato, tant’è che qualcuno proprio in questi giorni nel programma con cui concorre alle elezioni europee chiede che queste classi vengano ripristinate. Tanto è vero che il nome del ministero che fa capo all’Istruzione ha cancellato la parola “pubblica” per sostituirla con la parola “merito”. Differenze che segnano una direzione inequivocabile, anche se purtroppo non chiara a tutti. Differenze che non possono lasciarsi indifferenti, che richiedono, una nuova mobilitazione di tutti quelli che ancora credono in quella scuola democratica, inclusiva per cui tanti hanno lottato e si sono impegnati.
Anche oggi si fa ricorso a definizioni e classificazioni che oggettivano la persona, tracciano confini, misurano separando, recidono relazioni per recintare terreni. Possono toccare cioè la vita stessa del quotidiano: il pericolo della classificazione e dell’etichetta è quello di guardare nell’individuo solo ciò che appare “diverso” se non “patologico”, di focalizzare cioè l’attenzione su ciò che “non funziona” e dimenticare tutto ciò che è altro e che invece è molto di una persona.
Un conto è dire che un bambino ha difficoltà quando legge o scrive, e individuare tecniche, strategie per aiutarlo, un altro è definirlo, dargli “un nome” che finisce quasi sempre nella realtà, a sostituirsi al suo nome proprio.
Chiedevo a un bambino della scuola elementare come andasse la scuola, e lui rivolto al padre ha risposto: “Papà, chi sono io? Un dis… dis… disle… Non mi ricordo… dillo tu” e il padre “Un dislessico”… . A scuola Lorenzo, questo il nome del bambino, era “un dislessico. Di come si relazionava in classe non sapeva dire altro, come se quell’essere dislessico comprendesse tutto ciò che sapeva dire di lui.
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Oggettivando la persona, la si priva della sua soggettività, il suo stare al mondo è ridotto a un insieme di dati che compongono un profilo, cioè elencano delle «caratteristiche» che possono essere modificate a piacimento. Loro sono la loro disabilità. Non si tiene conto del fatto che il singolo sia immerso in una rete, più o meno fitta, di relazioni e non si considera che, come per tutti, anche per chi è “disabile” solo creando legami, lavorando sulle relazioni, sulla sfera emotiva ed affettiva è possibile assicurarne una crescita sana e degna di essere vissuta.
La cultura dominante oggi è ancora quella classificatoria, che, con i suoi test e le sue diagnosi, evidenzia solo i deficit, frantuma la persona, riduce e incasella gli aspetti molteplici della realtà in schemi rigidi e precostituiti. «Non sempre – dice Ronald Laing – l’uomo ha bisogno di sbarre per costruire gabbie. Le porte della nostra mente sono le più difficili da aprire».
È inimmaginabile lo stato di frustrazione derivante dall’essere inchiodati a una definizione che distorce e mutila la propria complessità psichica.
Ci si chiede come una verità così semplice venga tranquillamente trascurata, come ci si pensi così poco per non dire quasi mai.
“Il pericolo è quell’essere ‘denominati’ – dice lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger – cioè “etichettati e cristallizzati in una forma che tradisce sempre la nostra ricchezza interiore”. “Al contrario, la forza e la verità dell’individuo albergano proprio nella sua incommensurabilità, nel fatto che nessuno potrà mai distruggere la sua unicità”.
Settorializzare la visione del bambino vuol dire vedere spesso le difficoltà come insormontabili, ci impedisce di vederlo nella sua vera luce, nella sua specificità psicologica e coglierne quindi le potenzialità che ci sono sempre. Il bambino lo si conosce nella relazione e in un ascolto in cui si sospendono quei giudizi, quelle categorizzazioni in cui siamo immersi da sempre, avendo interiorizzato quel ruolo che ci impedisce di “guardare oltre”. Un’attenzione che, come dice Binswanger, “lascia venire ad essere” le cose e non le incanala da subito in definizioni, in classificazioni che occultano la vita dietro a quel un muro di parole neutre e impassibili della fredda scienza. E allora, quando si parla di persone, di ragazzi/e e bambini/e, forse bisognerebbe tenere più conto di quel sapere che viene dall’esperienza e che quindi si forma nel tempo, nel suo accadere quotidiano, sempre alla ricerca di risposte ai problemi che ogni giorno la vita pone.
Se anche io sono in possesso di tecniche che possono essere utili, devo poi applicarle facendo attenzione massima alla sfera dei sentimenti, degli affetti e delle relazioni, facendo attenzione agli stati d’animo, dando a chi affianco il coraggio di affrontare quella che è una sua difficoltà, ricordandomi che ogni individuo ha la sua storia e i suoi vissuti, che non è una scatola vuota da riempire. La tecnica rimane solo una tecnica. Il bambino/a, il ragazzo/a ha bisogno di molto di più: ha bisogno di qualcosa che non è né misurabile né standardizzabile, ha bisogno di noi, della nostra capacità di stare in sintonia con loro senza pre-giudizi, camminando al suo fianco, insieme ai loro compagni di cui ha un immenso bisogno. Siamo di fronte al quel “non so” che si apre alla vera conoscenza che è cammino, osservazione, ricerca, tentativi ed errori, ma sempre credendo che anche di fronte alle più grandi difficoltà “si può sempre fare qualcosa” come mi ha detto una volta una mia cara amica psichiatra che molto ha fatto per questi bambini/e.
Una comunità viaggia insieme e cerca insieme soluzioni ai problemi che man mano si pongono ognuno nelle sue competenze. E anche i bambini sono competenti. Eccome lo sono!
Il pensiero, quindi, si fa “ricerca”, impara ad osservare, a creare, a non trascurare neanche i piccoli dettagli, quelli che sfuggono alle generalizzazioni, alle astrazioni, e che hanno la capacità di rimetterlo in movimento. Impara a riflettere su ciò che accade, e a guardare le cose da più punti di vista. Il dettaglio a volte ci fa scoprire aspetti inaspettati di una persona, ci fa cogliere anche solo uno sguardo rivelatore di uno stato d’animo, un atteggiamento del corpo, un’espressione del viso che possono dire molto di più di tante parole. L’attenzione al dettaglio sospende l’atteggiamento che ci fa dare per scontato ciò che ci circonda e che facciamo usualmente: avvia processi di nuova comprensione e di elaborazione della nostra esperienza. L’attenzione al dettaglio permette di costruire ambienti accoglienti. L’attenzione al dettaglio può far nascere nuove idee e ci mette in movimento verso direzioni non ancora esplorate. Ci fa provare e riprovare. Non ci fa mollare
Il puro pensiero scientifico, invece, come dice Marìa Zambrano, “astrae e isola dallo sfondo un’immagine per meglio impossessarsene, sradicandola da legami e provenienze che le danno vita, che è sempre mobile e temporale vita, per assicurarla nella sua visibilità chiara e distinta. Nel lavorare con le persone bisogna, invece, guardare la realtà prestando attenzione a ciò che cambia, che si muove e questo è l’inizio del guardare veramente; del guardare che è vita”. Immobilizzando, invece, la realtà, si cerca in un certo senso di dominarla, senza però comprenderla veramente in tutte le sue sfaccettature.
Classificare un bambino significa impedirgli di evolversi, di sottrarlo alle sue potenzialità creative, vuol dire non vederlo nelle sue potenzialità. “Non ci si può basare su quello che manca in un certo bambino, su quello che in lui non si manifesta, ma bisogna avere un’idea di quello che possiede, di quello che è” così dice Vygotskj, ma questo può essere possibile solo se avere delle difficoltà non significa essere isolati dal contesto sociale.
Aiutare i bambini a scoprire le proprie potenzialità: fare questo vuol dire aprirli alla speranza e la speranza è apertura al “possibile”, la speranza attiva, mette in movimento, il tempo che abbiamo davanti si apre alla realizzazione dei progetti che costruiamo forgiandoli sulla persona e non modellandoli su stampi già precostituiti e come tali mai raggiungibili.
Bisogna sempre riportare al centro dell’attenzione la persona con la sua identità e individualità. Solo allora avremo un «chi» e non un «che cosa» come dice Oliver Sacks. «Bisogna uscire dal pregiudizio che sta alla base delle definizioni “incurabili”, “irrecuperabili” le quali stabiliscono un limite di tempo oltre il quale non è possibile il recupero. Non esiste nessun limite se non nell’idea di chi non sa come affrontarlo, di chi crede di non poter fare di più».
Aleksandr Lurija aveva risposto a Oliver Sacks quando gli aveva chiesto un consiglio a proposito di un uomo che aveva perso la memoria: “Faccia tutto quello che le suggeriscono – gli aveva detto – la sua intelligenza e il suo cuore. La speranza che egli recuperi la memoria è poco o nulla. Ma un uomo non consiste solo di memoria. Ha sentimenti, volontà, sensibilità, coscienza morale tutte cose su cui la neuropsicologia non può dire nulla. Ed è in queste cose, che travalicano i confini di una psicologia impersonale, che lei può trovare il modo di arrivare al suo paziente e di cambiarlo”.
Sì sono proprio l’intelligenza e soprattutto il cuore gli strumenti con cui “arrivare” agli altri, con cui scoprire la diversità come ricchezza, con cui cercare le potenzialità e non solo le carenze di qualsiasi individuo”. Dice Oliver Sacks “Si può vedere una stessa persona come irrimediabilmente menomata o così ricca di promesse o di potenzialità”.
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Questo articolo di Emilia D Rienzo – insegnante per oltre trent’anni a Torino – fa parte di una ricerca che prova a scavare intorno a diverse parole/concetto con le quali favorire il passaggio da una scuola del “Non si può” a una “Scuola del dialogo”. Il senso della ricerca viene spiegato in questo articolo:
LE ALTRE PAROLE DELLA RICERCA:
PAZIENZA; SILENZIO; AULA; CURA; FANTASIA [I]; FANTASIA [II]; RICONOSCIMENTO; ASCOLTO; RACCONTARE/RACCONTARSI; RACCONTARE / TESTIMONIANZA; SOGNO
Fiorella Palomba dice
Cara Emilia, la complessità di una bambina e di un bambino deve essere la molla vincente per apprendere e insegnare.
Io ero una bambina strana: creativa e chiusa, ma chi mi ha compreso mi ha aiutato e mi ha regalato un mestiere unico l’INSEGNAMENTO. 🌸