In tutta l’America Latina il Covid continua a colpire in modo violentissimo: il più drammatico è naturalmente il noto caso del Brasile, dove si sono superati gli 80 mila morti, ma il Messico è già a 40 mila, seguono il Perù, il Cile, la Colombia, etc. Le previsioni sulla catastrofe economica non sono da meno in una regione che, già molto prima dell’arrivo del virus, denunciava in modo esplicito e crescente le conseguenze nefaste del modello estrattivista sulla vita quotidiana de los de abajo, delle persone che stanno in basso. Eppure, in tutto il continente, la resistenza organizzata dei popoli e dei movimenti resta straordinaria, soprattutto per quel che riguarda l’autonomia e la capacità di auto-organizzazione, come ci ha raccontato per settimane e settimane il grande reportage di Raúl Zibechi – un viaggio costruito da Montevideo, parlando quasi sempre al telefono ma in rigorosamente in modo diretto con decine e decine di interlocutori, giunto alla decima e conclusiva puntata (qui trovate tutte le precedenti I–II–III –IV –V–VI–VII– VIII e IX). A Montevideo funzionano 400 cucine popolari, una cosa quasi incredibile in una città di 1,2 milioni di abitanti. Anche in questa ultima tappa sono proprio l’autogestione della vita e della produzione essenziale di cibo a segnare, in Uruguay e in Brasile, la sola via di una possibile difesa della dignità e dell’esistenza stessa, di fronte all’inerzia, al disinteresse e all’incapacità dei governi e degli Stati che condanna alla morte per malattia, per solitudine o per fame quantità davvero oceaniche di persone incolpevoli e inermi

Il Mercato popolare di Sussistenza (MPS) è una rete di 5 gruppi territoriali autogestiti che si coordinano per fare acquisti al di fuori dei supermercati, con un risparmio che va dal 30% al 50% sui prezzi dei prodotti alimentari. Più della metà dei prodotti vengono acquistati direttamente dai produttori, spiegano Sebastián e Clara nel corso di una lunga conversazione.
Durante la pandemia, la rete ha triplicato il volume degli acquisti. Sono ormai più di mille le famiglie che si organizzano in gruppi di barrio. Non è permesso l’acquisto individuale: si devono organizzare gruppi di vicini, di cooperative o di sindacati, per fare un ordine mensile scegliendo da una lista di più di 300 prodotti, che includono prodotti biologici, vegani, per celiaci, alimenti freschi, articoli per la pulizia e capi di abbigliamento.
Ogni gruppo manda gli ordini alla commissione che si occupa degli acquisti, e in quel momento paga l’importo corrispondente. Una settimana dopo, ogni gruppo locale preleva l’ordine in uno dei due centri di raccolta collocati in punti strategici della città; i prodotti vengono portati nel barrio e distribuiti fra le famiglie.
Il funzionamento della rete si basa sul lavoro volontario, dal momento che nessuno riceve un compenso. Si regolano in base ai principi dell’autonomia, dell’autogestione, dell’anti-patriarcato, della solidarietà di classe, del sostegno ai produttori e alla produzione nazionale, e della lotta contro la ricchezza. Considerano il Mercato Popolare di Sussistenza come “uno strumento politico che ha come orizzonte la costruzione di una nuova società senza sfruttati e senza sfruttatori” (mps.org.uy).
Sebastián spiega come tutto è cominciato: “Nel 2009 abbiamo costituito la Brigata José Artigas in alcuni barrios di Montevideo, seguendo l’indicazione di Pepe Mujica di promuovere il volontariato di base. Ma col tempo abbiamo visto che la proposta del governo non era quella che ci voleva e abbiamo deciso di andare per la nostra strada; così è nato il mercato popolare”
Il primo ordine l’hanno fatto nel gennaio del 2016, con solo quattro prodotti che sono stati distribuiti fra venti famiglie. Quattro anni dopo sono già una forza sociale che trasforma le logiche del consumo e che consiste, come sottolinea Clara, nella “autogestione collettiva del cibo”.
Fanno un incontro mensile dei delegati di ciascuno dei gruppi territoriali, che si riuniscono anche in quattro zone per risolvere i problemi di distribuzione e di acquisto. Hanno creato diverse commissioni: logistica, acquisti, finanze, comunicazione, formazione e ingresso di nuovi gruppi. L’8 marzo di quest’anno è stato inoltre creato un collettivo di donne e di identità dissidenti.
Le spese di trasporto e le borse per gli alimenti sono finanziate con una quota di 15 pesos ogni 500 pesos di acquisto (un dollaro sono 44 pesos). Le principali parole d’ordine del Mercato Popolare sono: “combattivo, solidale, locale, partecipativo e a basso costo”.
Rispondendo a una domanda sui problemi più grossi che devono affrontare, Clara afferma che “per i soldi non ci sono mai stati problemi, perché ci basiamo sulla fiducia: le famiglie pagano i prodotti ma li ricevono una settimana dopo, e sanno che se dovesse sorgere qualche difficoltà, la si risolverà tutti insieme”.
La partecipazione è un problema, dice Clara. “Bisogna che le persone ruotino e non siano sempre le stesse, e soprattutto che non ci trasformiamo in una cooperativa di consumo, dove alcuni salariati gestiscono tutto, perché siamo un’organizzazione sociale e politica che cerca di trasformare la società, e questo va al di là del consumo”.
Negli ultimi anni ci sono stati due cambiamenti. Uno qualitativo, dal momento che durante la crisi provocata dalla pandemia si è moltiplicato il numero delle famiglie che fanno acquisti tramite la rete. L’altro è che all’inizio acquistavano dai grossisti, mentre ora stanno passando ai produttori diretti: contadini che coltivano frutta e ortaggi, fabbriche recuperate dai loro lavoratori e cooperative alimentari già forniscono più della metà dei prodotti della rete.
Sia Clara che Sebastián ritengono che la sfida più grande sia che i settori popolari entrino nel Mercato Popolare. “I barrios abitati prevalentemente da lavoratori della classe media con uno stipendio fisso sono quelli in cui si è riflettuto sui consumi e ci sono le condizioni per programmare un acquisto mensile. Qui sta il problema: le famiglie più povere non dispongono del denaro necessario per fare un acquisto per tutto il mese”.
“Per questo vogliamo recuperare il ruolo della vecchia bottega di quartiere, che possa comprare da noi e rivendere i prodotti a un prezzo maggiorato di non più del 15%. È un modo per ricostruire le relazioni sociali territoriali intessute intorno al negozio (come la vendita a credito), che i grandi supermercati hanno distrutto”.

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Gabriel è un metalmeccanico di circa 40 anni che vive nella periferia ovest di Montevideo, in un barrio operaio fatto di abitazioni semplici con uno spazio retrostante che può essere coltivato. In febbraio ha avuto un incidente con la sua moto ed è rimasto temporaneamente a casa dal lavoro. Quando è arrivata la pandemia ha deciso di cominciare a cucinare per i suoi vicini.
“Sono già passati due mesi e non sono mai mancate donazioni da parte di produttori della zona e di piccoli commercianti, e soprattutto contributi dei vicini, dice Gabriele. Durante le prime settimane doveva incaricarsi di raccogliere gli alimenti, cucinare e fare le pulizie, ma a poco a poco alcune donne del barrio si stanno coinvolgendo nell’attività di una cucina che serve 50 piatti ogni sera.
A Montevideo funzionano 400 cucine popolari, una cosa quasi incredibile in una città di 1,2 milioni di abitanti. La pagina solidaridad.uy indica in maniera dettagliata dove è in funzione ogni cucina e i giorni in cui le donne del vicinato si incontrano. Club sportivi e sociali, commissioni di sensibilizzazione, bar popolari, cappelle, cooperative di edilizia abitativa, mense per bambini, club di calcio per bambini, organizzazioni politiche di base e sindacati sono gli spazi più comuni.
Alcune cucine sono state create da donne che neppure si conoscevano. Altre sono state promosse da gruppi di teatro di strada del barrio. Alcuni sindacati hanno portato cucine e fornelli nei barrios informali (insediamenti che si sono costituiti in seguito all’occupazione di aree urbane), hanno portato cibo e aiutano gli abitanti ad organizzarsi.
Il movimento delle cucine popolari è molto vario. Alcuni gruppi si sono appoggiati ad aziende e anche a supermercati, che offrono pacchi alimentarti da distribuire, ma nella maggior parte dei casi si tratta di cucine dove si prepara il proprio cibo tra vicini.
A Montevideo abbiamo una forte cultura associativa fin dall’inizio del XX secolo, quando i lavoratori migranti europei si sono stabiliti nella villa del Cerro, fondando atenei, biblioteche popolari, gruppi teatrali, società mutualistiche e sindacati. Questa cultura si è evoluta, crescendo dal basso, con la sua impronta in un primo tempo anarchica, e poi socialista e comunista. Per farsene un’idea, basta pensare che il collegio di medici, fondato da un anarchico, oggi è il Sindacato Medico dell’Uruguay.
Per questo non è affatto strano che siano state create 400 cucine in una città di medie dimensioni. Nel 1971, quando è stato fondato, e nel 1985, alla fine della dittatura, Il Frente Amplio aveva circa 500 comitati di base; il movimento per i diritti umani, che si opponeva alla legge sull’impunità del primo governo dopo la dittatura, ha costituito più di 300 commissioni di quartiere nel 1989.
Nell’insediamento Las Cumbres, nella periferia est di Montevideo, vivono 500 famiglie e sono in funzione due cucine, una delle quali vegana, gestita da un collettivo libertario. È interessante constatare che le cucine sono lo spazio delle donne e dei giovani, che sono riusciti a riaprire alcuni club e centri culturali che erano in crisi e avevano chiuso qualche anno prima. È possibile che il collasso permetta una crescita della cultura anti-patriarcale e anti-capitalista.
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La domenica 31 maggio è stata un giorno speciale per il Brasile. Sono state effettuate manifestazioni contro Bolsonaro, le più significative in un anno e mezzo in cui le strade erano state monopolizzate dall’ultra-destra lealista. La novità, quello che colpisce più profondamente, è che i raduni in 14 città sono stati convocati dai circoli di tifosi del calcio.
Le mobilitazioni in difesa della democrazia e contro Bolsonaro sono partite infatti da raduni organizzati da tifosi di squadre come Santos, San Paolo e Palmeiras, che pur essendo rivali sul campo da gioco sono confluiti nelle strade, spinti dalla preoccupazione per “la progressiva crescita dell’autoritarismo nel paese, a partire da un’ondata di aggressioni a giornalisti e personale sanitario” (“Torcidas antifascistas assumem linha de frente da mobilização contra Bolsonaro e atraem oposição”, in El País, 01/06/2020).
I club sono organizzati da vari anni nella Associação Nacional das Torcidas Organizadas (ANATORG – Associazione Nazionale di Club Organizzati). Hanno deciso di non identificarsi con la bandiera di nessuna squadra, per evitare problemi tra i club. Il primo raduno ha avuto luogo all’inizio di maggio a San Paolo, convocato dallo Sport Club Corintians nello stesso momento in cui l’ultra-destra manifestava nella via principale della città.
Erano solo 70 tifosi, ma hanno creato un precedente. Domenica 31 ci sono stati scontri con la polizia e con i sostenitori di Bolsonaro, che non sono più gli unici ad occupare le strade.
Sorpreso al vedere i tifosi che lottano per le strade mentre la sinistra e i sindacati mantengono una calma preoccupante, ho rivolto la domanda a un gruppo di compagni. La risposta, brillante, è venuta da Silvia Adoue, insegnante della Scuola Florestán Fernandes del Movimento dei Sem Terra:
“I partiti e le centrali sindacali hanno perso organicità con i territori e con i lavoratori. Non appena c’è una mobilitazione in vista, il PT [Partito dei Lavoratori] cerca di cavalcarla e farla propria… e così la rovina. Mi ricorda un episodio che Eric Hobsbawn racconta nel suo libro sulla storia sociale del jazz.
In un locale di jazz, si spengono le luci. L’attenzione si concentra sul jazzista. Silenzio prima che cominci. Una voce dal pubblico grida: Fulano, suona qualcosa che loro [i bianchi] non possano imitare. Bene, dal 2013 stiamo cercando di suonare qualcosa che loro [gli opportunisti] non possano imitare”.
Questo articolo è uscito anche in Spagna, con il titolo “Movimientos en la pandemia: autogestionar la comida y la vida”, su elsaltodiario
Traduzione a cura di Camminardomandando.
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