Per troppi anni abbiamo pensato che per cambiare il mondo fosse necessario conquistare il Palazzo d’Inverno. Oggi sappiamo che non è così. Resta la domanda: dove è possibile ritrovare potenzialità rivoluzionarie? “Penso che il tipo di rivoluzione che cerchiamo sia qualcosa che accade ogni giorno – scrive Chris Carlsson -, dove i semi di una nuova vita germogliano nelle pratiche quotidiane di solidarietà e mutualismo, nella cura reciproca e del mondo naturale… Ogni atto di gentilezza, di mutualismo, di attività non remunerata ma utile e di difesa della natura, è parte di una rivoluzione più profonda che sta arrivando. La pazienza radicale è tanto necessaria quanto frustrante… Ci sentiamo chiusi in un vicolo cieco e sembra che non vi sia via d’uscita. Ma io penso che potremmo sorprenderci e trovare un’uscita da questo mondo senza uscita…”. Gli ultimi decenni hanno mostrato come in diversi movimenti, dagli zapatisti a Occupy, dalle più recenti marce delle donne alle mobilitazioni contro la crisi climatica, le potenzialità rivoluzionarie dipendano da una qualche forma di common, per dirla con Massimo De Angelis, “da sistemi sociali di diversa scala all’interno dei quali le risorse vengono condivise…”. Di certo non ci saranno modelli da replicare, non ci sarà un processo fluido e uniforme
Mentre leggo e scrivo di storia non smetto mai di pensare a un cambiamento sociale radicale. E mi sento sempre frustrato dal mio stesso isolamento, che nasce dalla mia disaffezione critica verso ciò che passa per la sinistra, sia nella sua versione socialdemocratica che anarchica, per non parlare di quelle più integraliste del vecchio marxismo-leninismo che non ho mai abbracciato nemmeno quando andavano più per la maggiore verso la fine degli anni ’70. Che si tratti di inclinazione ideologica autoimposta, o di un’autentica assenza di una cultura politica dinamica in cui si stanno sviluppando i dibattiti che penso siano essenziali, mi sento spesso come se fossi bloccato in un vicolo cieco: da una parte l’assurdità della cultura dominante di estrema destra, dall’altra il continuo tafazzismo della sinistra.
… nell’esatto momento in cui è diventato chiaro che il riscaldamento globale è in ogni senso una situazione collettiva, l’umanità si trova alla mercé di una cultura dominante per cui l’idea stessa del collettivo è stata esiliata dalla politica, dall’economia e anche dalla letteratura. (Amitav Ghosh, La grande cecità, University of Chicago: 2016, p. 80)
… i lavoretti precari sono parte dell’individualizzazione della vita economica e della responsabilità finanziaria. Ciascun uomo, donna o bambino è costretto ad assumersi il controllo diretto e personale del lavoro, della pensione, dell’assicurazione, dell’istruzione e così via. Ahimè, una maggiore responsabilità significa maggiore rischio di fallimento. La gig economy è l’antitesi della responsabilità collettiva e della solidarietà di classe. (Richard Walker, Pictures of a Gone City: Tech and the Dark Side of Prosperity in the San Francisco Bay Area, PM Press: 2018, p. 116)
Sono una di quelle persone che hanno trascorso l’intera vita adulta, più di quarant’anni ormai, pensando e pianificando la rivoluzione. Durante una recente conferenza pubblica “Shaping San Francisco”, abbiamo avuto una interessante discussione – per quanto un po’ sintetica, visto il programma – sugli sconvolgimenti rivoluzionari del biennio 1968-70. Nel prepararmi alla conferenza, ho letto il libro di George Katsiaficas The Global Imagination of 1968, che in realtà conclude che, per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’anno 1970 è stato molto vicino al tipo di rottura sociale che potremmo definire rivoluzione. Nel suo libro Katsiaficas elabora il concetto di “Effetto eros”, che credo abbia tratto spunto da Herbert Marcuse. Questo è il nome che dà al potente sentimento di connessione che emerge in tempi di conflitto sociale e sconvolgimenti.
Cercando di fare i conti con la disperazione che è sempre dietro l’angolo in questi tempi e ricordando che, per quanto terribile sia (e lo è), abbiamo delle potenzialità collettive che sono sopite ma che potrebbero svegliarsi molto più velocemente di quanto possiamo immaginare. Ricordo quanto rapidamente la Primavera Araba e i suoi epigoni in Spagna, Stati Uniti, Turchia, Brasile, Corea e altrove, si sono diffusi, amplificando l’effetto eros in tutto il pianeta nell’arco di pochi mesi. Le persone che hanno preso quelle piazze pubbliche, che hanno occupato quegli spazi pubblici, che hanno usato internet per ampliare le reti dirette, che sono il vero fondamento di un cambiamento radicale, sono per lo più ancora vive e vegete. Le forze della repressione hanno distrutto la maggior parte di quelle manifestazioni di speranza a partire dal 2011, ma le persone che vi hanno partecipato, la capacità di organizzare questo tipo di manifestazioni e il fatto di sapere che sono potenzialmente ripetibili, tutto questo non è andato distrutto. Ma dirò di più: si è potuto riflettere sul vicolo cieco in cui ci si è trovati e da questo si può implementare nuove tattiche di lotta per superare gli ostacoli, sia quelli autoinflitti che quelli imposti dallo stato.
Nel corso mia vita, tra il 1968 e il 2011, sia la vecchia che la nuova sinistra si sono frantumate e si sono ridotte a un insignificante insieme di gruppuscoli, anche se la rivolta culturale esplosa durante gli effervescenti anni ’60 e ’70, soprattutto tra le donne e la comunità LGBT, continua a lavorare per l’egemonia contro la destra riemergente. Ma le organizzazioni politiche formali e le ideologie democratiche e repubblicane, socialiste e conservatrici, sono ormai appassite e sono a mala pena l’ombra delle arene pubbliche del conflitto sociale che un tempo rappresentavano.
In altre parole, la sfera pubblica dove si svolge la politica, è stata quasi interamente svuotata di contenuti in termini di esercizio del potere: al pari del romanzo, è diventata un’occasione di testimonianza laica, una messa a nudo dell’anima del mondo come chiesa. La politica così praticata è principalmente un esercizio di espressività personale … [Come dichiarò Guy Debord:] “Lo spettacolo è per definizione immune dall’attività umana, inaccessibile a qualsiasi riconsiderazione o correzione pianificata. È l’opposto del dialogo . Ovunque vi è rappresentazione indipendente, lo spettacolo ristabilisce la sua regola”. (Amitav Ghosh, La grande cecità, University of Chicago: 2016, p. 131)
I tribunali conservatori, la punta di diamante della destra revanscista, potrebbero presto invalidare il diritto delle donne di accedere ad aborti liberi e legali. Le persone transgender vengono attaccate a tutti i livelli, mentre i diritti degli omosessuali sono sempre più sotto minaccia. Chissà quali altri attacchi anacronistici alle donne e alla libertà sessuale seguiranno! I diritti di voto sono già stati fortemente ridotti nella vecchia Confederazione, che ritiene di aver vinto la Guerra Civile: secondo alcuni, nel secolo e mezzo dopo l’abolizione della schiavitù, non si è sufficientemente consolidato un sistema politico suprematista bianco. Negli ultimi anni hanno promosso la loro vecchia agenda di privazione dei diritti di persone di colore e dei poveri, rafforzando una bizzarra alleanza tra le élite imprenditoriali, fanatici religiosi e gran parte dei bianchi della classe media e di quella operaia, i quali si ritrovano uniti attorno alla paura e all’odio verso qualsiasi obiettivo vicino o lontano (musulmani, messicani, neri, donne, terroristi, comunisti… ). Sognando di restaurare un mitico way of life americano perduto da tempo, si fanno tentare da false promesse di tornare indietro tempo, di riportare le cose a “come erano” (nella loro immaginazione).
Se sei impegnato nella rivoluzione, è difficile sentirsi ottimista. I democratici hanno sussunto l’idea stessa di “resistenza”, potenzialmente potente ma politicamente priva di fantasia, nelle loro prevedibili trappole elettorali. A dir la verità, le proteste di strada degli ultimi due anni sono state entusiasmanti: le marce delle donne, le proteste promosse dagli adolescenti contro la violenza armata, quelle contro la violenza della polizia e il Black Lives Matter, Standing Rock e Idle No More, o le mobilitazioni contro la crisi climatica. Ma dopo le massicce proteste del 2003 contro l’attacco all’Iraq, gli sforzi pacifisti e contro la guerra sono finiti nel nulla e la protesta di piazza sembrava meno efficace che mai. La tendenza dell’élite politica ad ignorare la protesta, continuando piuttosto a saccheggiare la ricchezza, a promuovere guerre e disordini internazionali e a distruggere l’ecologia planetaria, non solo non è diminuita, ma è piuttosto in continua crescita nonostante una netta maggioranza si opponga fermamente a tale agenda. Proporre una rivoluzione contro questa follia sembra al tempo stesso ragionevole e impossibile. Ma dipende da cosa si intende per “rivoluzione”.
Se l’idea di rivoluzione in una società industrializzata era inconcepibile per i tre decenni prima del ‘68, il tipo di rivoluzione prefigurato nella prassi emergente del movimento, era diverso da quelli precedenti. L’obiettivo della rivoluzione fu ridefinito per puntare sulla decentralizzazione e autogestione del potere e delle risorse: distruzione, non sequestro, di stati nazione militarizzati incorporati in una rete internazionale di guerre e macchinazioni corporative. (George Katsiaficas, The Global Imagination of 1968: Revolution and Counterrevolution, PM Press: 2018, p. 9)
Sfortunatamente gran parte della sognata decentralizzazione “autogestita” che effettivamente seguì a quegli anni, alla fine fu progettata e attuata dalla classe capitalista attraverso il programma neoliberista del “Washington Consensus“. Le narrazioni trionfaliste della fine della Guerra Fredda nei primi anni ’90, proclamarono la “fine della storia” e si fece di tutto per screditare il concetto stesso di rivoluzione. Non è stato così difficile, visti i disastri totalitari del XX secolo e la ridefinizione della liberazione dal basso come una serie di scelte personali dei consumatori. Con il personal computer e poi internet, la “rivoluzione” venne completamente banalizzata e ridotta a una serie di aggiornamenti dei prodotti.
Per gli irriducibili della vecchia o nuova sinistra (o i più recenti sostenitori) la rivoluzione ha continuato a risuonare come un atto radicale, una conquista del Palazzo d’Inverno o della Bastiglia, un momento quasi religioso di trascendenza capace di cambiare tutto già a partire dal giorno dopo. Tutto ciò che non fosse una completa trasformazione di ogni aspetto della vita, tutto in una volta ed ovunque, fu prontamente rigettato come mero riformismo, come delle mezze misure o un fallimento. Ma questo tipo di pensiero millenaristico rivela una scarsa conoscenza storica e sociale. Le ribellioni, le sommosse e persino le sollevazioni, al massimo possono portare al rovesciamento di una particolare élite politica, ma raramente hanno trasformato il modo in cui la vita viene vissuta. Katsiaficas conclude il suo libro approfondendo il tema della contrapposizione tra la ribellione e ciò che potremmo propriamente chiamare rivoluzione:
La ribellione … dimostra semplicemente malcontento verso lo stato attuale delle cose. Quando le persone si ribellano, insorgono contro chi viene percepito come causa di un problema comune, non per creare una nuova realtà. La rivolta culmina nella negazione dei governanti al potere, dei valori e delle istituzioni esistenti, non nell’affermazione di nuovi modelli di vita. Come dice Sartre: “Il rivoluzionario vuole cambiare il mondo; lo trascende e avanza verso il futuro, verso un ordine di valori che egli stesso inventa. Il ribelle, invece, è attento a preservare gli abusi di cui soffre in modo da poter continuare a ribellarsi contro di loro… Non vuole distruggere o trascendere l’ordine esistente; vuole semplicemente insorgere contro di esso”. (George Katsiaficas, The Global Imagination of 1968: Revolution and Counterrevolution. PM Press: 2018), p. 304)
Dove è possibile allora ritrovare potenzialità rivoluzionarie? Concordo sul fatto che difficilmente un cambiamento del nostro modello di vita possa emergere da suggestivi momenti di rivolta e resistenza che costellano la storia. Penso che il tipo di rivoluzione che cerchiamo sia qualcosa che accade in ogni momento, ogni giorno, dove i semi di una nuova vita germogliano nelle pratiche quotidiane di solidarietà e mutualismo, nella cura reciproca e del mondo naturale. La logica di queste pratiche quotidiane, così comuni eppure così silenziose dal punto di vista politico, ripudia la logica dei mercati, delle merci e della prezzabilità di tutto l’esistente. Un cambiamento radicale verso un futuro più egualitario, orizzontale ed ecologicamente sano, non solo è possibile, ma sta filtrando da sotto la superficie.
Purtroppo questo cambiamento è in gran parte invisibile, a meno che non ne siate direttamente coinvolti, dato che viene sistematicamente ignorato dai mass media, mentre i politici e gli uomini d’affari hanno piuttosto interesse a canalizzare qualsiasi energia sociale verso i propri scopi egoistici. Il “Green New Deal” recentemente annunciato rappresenta un altro tentativo da parte dei neoeletti democratici di sussumere questa energia sotterranea e ricondurla all’interno di un sistema politico chiaramente moribondo. Indubbiamente, abbiamo molto lavoro da fare per fermare le emissioni di carbonio e riorientare la produzione quotidiana delle nostre vite su sistemi che si armonizzino con gli imperativi ecologici. E tuttavia, se possiamo dirottare una fonte di finanziamento federale che potrebbe venir fuori da un Green New Deal pur imperfetto, per finanziare attività volte a migliorare le nostre vite, per realizzare necessari e profondi cambiamenti o anche solo per facilitare l’espansione di queste possibilità, allora è un qualcosa per cui vale la pena combattere.
È qui che il recente libro di Massimo de Angelis, Omnia Sunt Communia: On the Commons e The Transformation to Postcapitalism, cerca di offrire un nuovo modo di pensare alla pratica rivoluzionaria. Massimo è un vecchio amico e un collaboratore di lunga data dei miei amici di Midnight Notes. Egli cerca di riconciliare alcune delle idee marxiste autonomiste su cui ci siamo confrontati tutti per decenni, con il lavoro di Elinor Ostrom sui Commons, per il quale ha vinto un premio Nobel per l’economia. Il suo libro si dilunga sulle pratiche dei beni comuni, cercando di stabilire esattamente cosa può essere definibile come beni comuni e sottolineando come questi presentano sicuramente molti aspetti, ma che senza una comunità che produce e si prende cura dei beni comuni, questi non esistono.
La divisione del lavoro prodotta all’interno della pratica dei beni comuni, non si traduce in uno strumento di alienazione, di sfruttamento e di gerarchia delle condizioni di lavoro; può invece essere uno strumento per lavorare meno (p. 221). La libertà che i beni comuni conferiscono, è una libertà che non si trova da nessun’altra parte: è la libertà di plasmare, insieme ad altri, la condizione dell’agire, della cura, della condivisione. La libertà come auto-determinazione, per determinare in modo autonomo. E poiché determinare vuol dire selezionare dal regno complesso del possibile, significa anche impostare dei limiti e farlo autonomamente (p. 204).
De Angelis si rimbocca le maniche e arriva a proporre un modo di pensare agli affari senza venir meno alla trasformazione totale tanto cara ai rivoluzionari: “L’orizzonte strategico non è quindi evitare di fare affari, ma come conferire a una determinata impresa quelle basi su cui i beni comuni possano sviluppare nuove forme e cercare di aggirare il capitale includendo le questioni e le persone che ne sono state da esso escluse” (p. 274). Ho trovato molte parti del libro piuttosto scarne, anche se è sicuramente un grande libro se si è interessati ad approfondire il confronto tra la descrizione marxista classica del ciclo delle merci semplice contro quello capitalistico espresso dall’equazione Denaro-Merce-Denaro e come ciò si rapporta ai beni comuni. Il libro è inoltre arricchito da una serie di esempi utili, molti tratti dall’America Latina (inclusa Salinas de Guaranda, una città cooperativizzata in Ecuador, che ho visitato alcuni anni fa), dove ha trascorso del tempo visitando comunità che usano ancora la tradizionale “minga” (traducibile come “lavoro comunitario“, cioè lavoro liberamente condiviso) per produrre e migliorare i beni comuni alla base delle loro vite. Ma Massimo è un grande pensatore rivoluzionario e qui lascio la parola a lui con una sua lunga citazione sulla rivoluzione sociale, che riguarda direttamente i concetti che ho finora accennato:
… la rivoluzione sociale non può essere ridotta a un evento momentaneo, una “vittoria”, ma è piuttosto un fattore epocale e configurato da una serie di “vittorie” e “sconfitte”. Marx parla quindi di “inizio dell’epoca della rivoluzione sociale”. Quanto possa essere lunga quest’epoca, nessuno può dirlo (anche se i cambiamenti climatici e la massiccia crisi della riproduzione sociale stanno mettendo alcuni obblighi e urgenze all’orizzonte). … I sistemi non vengono implementati, la loro influenza emerge; e il loro emergere avviene attraverso i relativi processi di rivoluzione sociale e di rivoluzioni politiche, con i primi che creano la fonte da cui i secondi acquisiscono potere per sconvolgere il capitale, mentre allo stesso tempo costruiscono la loro autonomia… Il processo di rivoluzione sociale è in ultima istanza un processo atto a trovare soluzioni ai problemi che i sistemi capitalisti non sono in grado di risolvere, poiché ne sono la causa, ma che noi abbiamo urgente bisogno di affrontare: giustizia sociale, una vita dignitosa per tutti, cambiamenti climatici, disastri ambientali … Dai vari movimenti degli ultimi decenni, dagli zapatisti a metà degli anni ’90 fino al movimento Occupy nel 2011, è divenuto sempre più chiaro che qualunque sia l’alternativa proposta da una parte specifica di movimento – sia micro che macro: bilanci partecipati, riconfigurazione della spesa sociale da parte dello stato centrale, transition town, cooperative di energia rinnovabile, fattorie autogestite, cyber-attivismo, difesa delle comunità tradizionali minacciate dall’estrattivismo, assemblee generali, piazze pubbliche autogestite, ecc – dipendono tutte da una qualche forma di common, ossia sistemi sociali di diversa scala all’interno dei quali le risorse vengono condivise e nei quali la comunità si definisce in termini di condivisione, spesso attraverso forme di relazioni sociali orizzontali fondate sulla partecipazione e forme di democrazia inclusiva.
Ho riportato sopra in corsivo il punto sui sistemi che non vengono implementati perché penso che sia un altro difetto chiave di molti “programmi rivoluzionari”. È impossibile elaborare pienamente un nuovo modello ancor prima che si manifestino le necessarie trasformazioni sociali. È proprio durante quelle trasformazioni dal basso, guidate da un numero non prevedibile di persone che usano nuove forme di democrazia diretta mai adottate prima, che emergeranno nuovi modelli di vita (ciò che è implicito in un “programma”). E certamente non sarà un processo fluido e uniforme. Le battute d’arresto e le sconfitte faranno sicuramente parte del processo di nascita di questi modelli. Ma se i cambiamenti vengono profondamente radicati nelle stesse pratiche sviluppatesi per un certo lasso di tempo, ciò fornisce una base per alternative radicali alle strutture politiche ed economiche che governano la vita, e allora la rivoluzione potrebbe non essere inevitabile, ma sicuramente sarà difficile resistervi!
Allo stesso tempo, prima di riuscire a sostituire i sistemi politici ed economici globali con un nuovo sistema mondiale basato su una condivisione egualitaria e dignitosa per tutti, ci saranno alcuni anni di interazione tra il mondo che stiamo cercando di generare e il mondo che cerca di ostacolarci. Massimo ha alcune riflessioni anche su questo:
… nell’elaborazione di queste alternative ci si deve confrontare con diversi aspetti degli Stati e dei mercati esistenti e dei circuiti che essi riproducono: ne abbiamo bisogno in certi casi e li combattiamo in altri. Pertanto, è necessario sviluppare una posizione relazionale nei loro confronti, una posizione relazionale che non sia solo per ‘dire no’, ma anche per impegnarsi in pratiche costituenti che cerchino di modificarli per favorire lo sviluppo dei beni comuni, e che strutturalmente si affianchino ad essi ma da una posizione di potere e, certamente, senza mai rinunciare all’autonomia dei beni comuni. (p 312) …
Siamo tutti impazienti. È impossibile descrivere l’insulto quotidiano di vivere negli Stati Uniti sotto il “Truffatore in capo” che sta perpetrando il più grande saccheggio di benessere e ricchezza comune, nella storia del paese. La sua costante menzogna, il suo vantarsi, lamentarsi e minacciare, finisce per sovrastare ogni altra cosa. Per questo per molti è ancora più difficile vedere la profonda continuità tra questo regime e quelli precedenti. La lunga guerra in corso in Medio Oriente e in Nord Africa con spese militari sempre più ingenti, gli apparati “di sicurezza” in continua espansione e la sorveglianza di massa, sono così radicate nella politica della classe dominante, da essere trasversale ad ogni partito e ideologia. Un altro chiaro aspetto di continuità è costituito dai generosi e intoccabili sussidi per il petrolio e le automobili. Ed ancora, gli ultimi due decenni di classe politica dominante – a prescindere dal presidente in carica – è stata caratterizzata anche dalla protezione dei paradisi fiscali offshore e dalla sistematica finanziarizzazione non regolamentata, che consente all’1% di eludere le imposte mentre gestisce un enorme schema piramidale di derivati e di debito.
Ma le rivoluzioni richiedono il loro tempo. Come fa notare Massimo, i cambiamenti climatici e il collasso ecologico stanno riducendo il tempo a disposizione per apportare i cambiamenti di cui abbiamo urgente bisogno, ma nessuno può farli accadere più velocemente. Ogni atto di gentilezza, di mutualismo, di attività non remunerata ma utile e di difesa della natura, è parte di una rivoluzione più profonda che sta arrivando. La pazienza radicale è tanto necessaria quanto frustrante. Vediamo cosa sta succedendo e vogliamo cambiare rotta. Ci sentiamo chiusi in un vicolo cieco e sembra che non vi sia via d’uscita. Ma io penso che potremmo sorprenderci e trovare un’uscita da questo mondo senza uscita. Speriamo!
“Il denaro scorre verso un guadagno a breve termine”, scrive il geologo David Archer, “e verso lo sfruttamento eccessivo di risorse comuni non regolamentate. Queste tendenze sono come la mano invisibile del fato, che nelle tragedie greche guida l’eroe verso l’inevitabile catastrofe”. Questa è in effetti l’essenza dell’odierna cecità dell’essere umano. (Amitav Ghosh, La grande cecità, University of Chicago: 2016, p. 111).
I movimenti dei beni comuni sono movimenti che hanno la ricomposizione dei beni comuni come loro forza trainante, e questa ricomposizione si fonda sui beni comuni della riproduzione: cibo, cura, energia, l’abitare e l’istruzione. (Massimo de Angelis, Omnia Sunt Communia: On the Commons and the Transformation to Postcapitalism, Zed Books, London: 2017, p.386).
[Esiste] un’alternativa post-capitalista emergente che trasforma contemporaneamente la società civile, il mercato e le forme di stato. La società civile diventa produttiva, poiché i cittadini e gli abitanti sono persone comuni che decidono di contribuire alle risorse condivise. Le forme del mercato diventano non – o post – capitaliste, trasformate per essere compatibili con la logica dei beni comuni. L’accumulazione del capitale si trasforma nell’accumulazione dei beni comuni. Le autorità pubbliche diventano fattori abilitanti dell’autonomia personale e sociale necessaria per poter contribuire ai beni comuni. “Reimmaginare la sinistra attraverso un’ecologia dei beni comuni: verso una transizione dei beni comuni post-capitalisti” (Michel Bauwens & Jose Ramos in Global Discourse July 12, 2018).
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Titolo originale: Exiting the Cul-de-Sac. Traduzione di Virginia Benvenuti per Comune. Chris Carlsson, scrittore e artista da sempre nei movimenti sociali statunitensi, è stato tra i promotori della prima storica Critical mass a San Francisco. Autore, tra le altre cose, di Nowtopia (Shake edizioni) e, più recentemente, di Critical mass. Noi siamo il traffico (Memori), invia periodicamente i suoi articoli (molti dei quali raccolti sul blog nowtopians.com), a Comune
Vincenzo dice
Massimo rispetto per le posizioni espresse in questo articolo ma credere di poter cambiare le cose senza o, peggio, nonostante le istituzioni siano in mano al potere criminale e senza scrupoli della finanza globale è una piattaforma illusione! La macchina repressiva “lascia fare” solo cose insignificanti dal punto di visita politico, sociale ed economico. Ma per riconquistare le istituzioni serve una nuova Politica che superi quella attuale, basata sulla rappresentanza, per fondarsi sull’auto-rappresentanza secondo il principio “una persona, un’idea, un voto”. Vedi te a Napoli il 30 giugno o seguite l’incontro in streaming. http://www.primalepersone.eu/cms/?q=node/500