Per entrare nella gabbia dorata della maschilità, con i suoi privilegi, bambini e ragazzi sono educati in molti modi a perdere progressivamente la capacità di sentire le proprie emozioni e di empatizzare con quelle altrui. Con una sola eccezione: la rabbia. L’educazione femminile, invece, costituisce un addestramento alla vulnerabilità: dall’auto-contenimento fisico a quello emotivo, alle bambine non è insegnato a difendersi né sul piano mentale che fisico e sessuale. Sarebbe tuttavia sbagliato concludere che gli uomini maltrattanti agiscono in preda a delle emozioni incontrollabili di cui sarebbero vittima: equivarrebbe a negare la loro responsabilità individuale, ma prima di tutto la dimensione strutturale e sistemica della violenza. Nella quinta parte del saggio Un uomo (qui le parti precedenti: I, II, III, IV) Kyra Grieco continua a indagare la relazione tra violenza e genere, soffermandosi sulle radici della violenza
Abbiamo già visto alcune delle forme di violenza maschile, principalmente quelle fisiche e psicologiche all’interno della coppia e della famiglia, e l’importanza dell’intorno sociale per riconoscerle e combatterle. Abbiamo anche visto però quanto è facile cadere nella giustificazione della violenza, la nostra come quella altrui.
Non siamo infatti educat* a riconoscere i segni del maltrattamento, né a sapere cosa fare quando ci si confronta con chi lo subisce. Questo perché pensiamo che sia qualcosa di molto lontano da noi, che le case nelle quali succede non siano quelle dei nostri amici o parenti. Non a caso si parla di “violenza domestica” (e non di violenze maschili contro le donne o di violenze sessiste): perché queste violenze hanno per principale teatro lo spazio domestico o familiare, ritenuto off-limits perché riguarda l’intimità emotiva, relazionale e sessuale delle persone. Solo che con questa storia del farci gli affari nostri, possiamo vivere benissimo accanto a delle relazioni violente senza accorgercene mai. Questo non vuol dire che ogni volta che un’amica vi racconta una lite con il compagno dovete trascinarla al centro antiviolenza più vicino, ma che probabilmente ci guadagneremmo tutt* a imparare a saper cogliere i segnali che lasciano intuire o che preludono a una situazione di violenza (i cosiddetti “red flags”) e come comportarci con la persona che la subisce.
Nel caso della mia amica Marta, di cui ho raccontato la storia precedentemente, i red flags c’erano tutti, ma io non li avevo saputi vedere. Come riconoscerli, mi chiederete voi? Ci sono innanzitutto una serie di segnali psicologici (stati d’ansia, paura, attacchi di panico, depressione, perdita di autostima, agitazione, auto-colpevolizzazione, difficoltà di concentrazione), comportamentali (assenze o ritardi lavoro, allontanamento dalla propria famiglia e/o amici, abbandono delle proprie attività, socializzazione sempre e solo in presenza del partner) che non vanno sottovalutati, nonostante siano meno visibili e riconoscibili dei segnali fisici (lividi, contusioni, fratture, bruciature). Ci sono poi le cose che le persone dicono, a chi le sa ascoltare. Se un’amica vi confessa di avere ansia o paura delle liti con il compagno, quello è un chiaro red flag. Perché tutti litighiamo e a nessuno piace farlo, ma averne paura o vivere con l’ansia che accada, è un’altra cosa, che non va minimizzata. Una risposta come “Vabbè dai, che esagerata! Ma lo sai com’è lui, no?” infatti banalizza la violenza e fa sentire sbagliata o “ipersensibile” la persona che la subisce. Tenderà quindi a vergognarsi, a sentirsi in colpa e a dubitare della propria percezione (tutti meccanismi mentali tipici di chi vive violenza), a chiudersi e a non raccontarvi altro.
Esercizio [12] Se una vostra amica/figlia/sorella/collega/conoscente vi condivide dei comportamenti controllanti, rabbiosi o violenti da parte del compagno o dell’ex-compagno, invece di: 1) sminuire il problema (“vabbè, sai com’è lui, ha un caratteraccio”), 2) normalizzare (“l’amore non è bello se non è litigarello”), 3) giustificare il maltrattante (“non è cattivo, solo insicuro”), oppure 4) dare la colpa alla vittima (“non capisco perché non lo lasci, si vede che alla fine ti va bene così”), provate ad ascoltare in maniera attiva e non giudicante. Fatele delle domande per saperne di più sulla forma e la frequenza di questi comportamenti e come incidono sulla sua vita e sulle sue scelte (ci sono cose che lei ha smesso di fare, delle persone che ha smesso di vedere o di sentire per evitare il conflitto? Delle scelte lavorative, riproduttive, economiche o abitative che lei ha fatto per cercare di “calmare” o “rassicurare” l’altra persona?). Informatevi sulle strategie di autodifesa che lei sicuramente già mette in pratica (ne ha parlato con altri amici o familiari? se mai le cose peggiorassero, ce l’ha un posto dove andare? di che mantenere sé stessa ed eventuali figli in caso di separazione?). Chiedete come la fanno sentire i comportamenti che descrive, se dice di aver paura chiedetele di cosa. Non fatevi problemi a chiedere se si è mai sentita fisicamente in pericolo. Magari vi risponderà di no, ma saprà anche che se mai un giorno la sua risposta cambiasse, voi sapreste ascoltarla, perché non avete avuto paura di chiedere.
Di fronte alla violenza vista, subita o raccontata, è frequente rimanere increduli, e sentire un bisogno istintivo di spiegare razionalmente l’accaduto. Questo tipicamente passa attraverso due forme (speculari) di inversione dei ruoli: la colpevolizzazione della vittima o “victim blaming” e l’empatia maschilista o “himpathy”.
Il “victim blaming” è quel procedimento mentale che avviene quando di fronte al racconto di una aggressione sessuale ci ritroviamo a dibattere di come era vestita lei, di cosa ci faceva in giro a quell’ora, del perché aveva bevuto se non voleva guai, e del perché non lo aveva tenuto a distanza sin dall’inizio se non era interessata. Vi ricorda qualcosa? Saltiamo su tutt* quando a fare questo genere di ragionamenti è un politico di destra, ma è esattamente la stessa cosa che facciamo noi, nel nostro piccolo, quando qualcuno ci racconta di aver subito un maltrattamento, automaticamente, gli chiediamo: ma perché, tu cosa avevi fatto, che gli avevi detto? La domanda può sembrare innocua, ma questo automatismo sposta l’attenzione dalla violenza e dalla persona che lo esercita al comportamento di quella che invece lo subisce, cercando una ragione valida per il maltrattamento. Questo tipo di reazione, anche quando è mossa dalle migliori intenzioni, è terribilmente nociva perché una specificità di chi subisce molestie o violenze – come qualsiasi altro tipo di esperienza traumatica – è di sentirsi in colpa, di cercare nel proprio comportamento l’origine del maltrattamento, e di pensare che modificandolo, potrà evitare il riprodursi della situazione di violenza. Non bisogna infatti dimenticare che chi subisce violenza vive una dissonanza cognitiva tra la propria esperienza del maltrattamento e l’attaccamento emotivo con il proprio maltrattante. Nel chiedere quindi “ma tu cosa avevo fatto/detto per farlo arrabbiare così tanto?” (da sfondare la porta con un pugno, per esempio) si sta quindi spostando la responsabilità per il gesto violento alla persona che ne era destinataria. Perché, chiariamoci subito, provare un bisogno di sfogare la rabbia é lecito, ma basta uscire di casa e farsi quattro passi o prendere a calci la ruota della propria macchina. Colpire o rompere cose nella presenza o nell’immediata vicinanza della persona con cui si sta litigando è invece una implicita minaccia di violenza (spacco la porta perché sennò spacco te) che serve a spaventare l’altra persona e a costringerla a sottomettersi. Allo stesso modo, gli attacchi verbali che mirano a umiliare, denigrare, offendere in maniera diretta (insulti, urla, parole scurrili) o indiretta (svalutazione del valore personale, in toto o in relazione a ruoli specifici, insoddisfazione delle azioni o della condotta, biasimo), sono atti intimidatori la cui ripetizione sgretola il senso di sé dell’altra persona, inducendola a dubitare di sé, delle proprie percezioni, del proprio valore.
Un altro meccanismo in cui si cade spesso nel tentativo di spiegare la violenza consiste nel giustificare dei comportamenti violenti o controllanti attraverso le intenzioni (non lo fa apposta/lo sai che ti vuole bene) o le emozioni (è arrabbiato/ha paura di perderti) di chi li agisce. Questo procedimento l’empatia nei confronti del maltrattante che “non è cattivo, lo disegnano così”. Poverino…! Ritroviamo spesso questa variante della “himpathy” nella copertura mediatica dei femminicidi, in particolare quando gli autori di violenza sono più difficilmente accantonabili nella rubrica “Altri Uomini” (cioè identificabili con delle minoranze per il colore della loro pelle, le loro origini o la loro confessione, etc.). A seguito del femminicidio di Giulia Cecchetin, per cercare di dare un senso al comportamento apparentemente inspiegabile di Filippo Turetta, un “bravo ragazzo” e femminicida improbabile, si è spesso sottolineato il fatto che fosse stato depresso e non adeguatamente seguito. Il problema di questo tipo di copertura è che dà una spiegazione psicologica individuale a un fenomeno sociale, e così facendo ne banalizza la dimensione sistemica. Malessere e maltrattamento non vanno infatti assolutamente confusi. Certo che un uomo che uccide la propria compagna o ex “non sta bene”. Ma quante donne non stanno bene, eppure non uccidono i loro compagni? E perché un uomo che non sta bene agisce violenza proprio contro la donna che pretende amare, invece di cercare aiuto? Il femminicidio è un fenomeno sociale, non la conseguenza di un disagio individuale, e gli uomini che lo commettono non sono né mostri né poverini. Per riprendere le parole di Elena Cecchettin, sono “figli sani del patriarcato”: i prodotti finiti di una società che ci insegna che le vite non hanno lo stesso valore. Tutte le forme di violenza maschile sulle donne sono infatti strettamente legate a un ordine di genere che divide e gerarchizza i corpi, i sentimenti e le pratiche in “maschili” e “femminili”, e che così facendo legittima (o al contrario prescrive) certi comportamenti in base al sesso di chi li agisce.
Se è indubbio che i maltrattanti hanno dei sentimenti e che molti di loro sono persone sofferenti, questo non toglie niente alla violenza che agiscono. Nel caso del compagno di Marta (vedi Un Uomo [parte III]), che era insicuro e aveva paura di perderla, invece di controllarla ossessivamente e farle scenate di gelosia, arrivando a spaccargli due costole un anno e a lanciargli un coltello il seguente, avrebbe potuto fare tante cose: confrontarsi con parenti e amici, cercare aiuto in una terapia individuale, di coppia, rendersi a un centro per uomini maltrattanti per lavorare sui suoi comportamenti violenti, oppure lasciarla, se la relazione era per lui troppo insicurizzante per gestirla in maniera sicura e rispettosa. Insomma, per uno stesso problema ci sono tante soluzioni possibili. La violenza non è nessuna di queste.
Passare da un approccio emergenziale alla violenza maschile – dove ne prendiamo conoscenza e agiamo, individualmente e collettivamente, solo quando succede il peggio – a un approccio preventivo richiede un ragionamento sistemico sulle radici di questa violenza nella socializzazione degli uomini all’interno del sistema patriarcale. Le ricerche sulle mascolinità rilevano almeno tre dimensioni importanti: il riconoscimento differenziale delle competenze, il rapporto al corpo e la gestione delle emozioni. Questi ultimi due aspetti hanno un ruolo fondante nel legame tra maschilità e violenza.
Se tutt* gli esseri umani provano delle emozioni, il modo in cui queste sono espresse è socialmente e culturalmente definito: pensate per esempio all’entusiasmo statunitense (wow, that’s awesome!) o l’aplomb britannica (nice job, mate.), alle piangitrici professionali nei funerali (in Italia fino agli anni ’70, in altre parti del mondo ancora oggi) e all’impassibilità degli uomini in quegli stessi contesti. Il modo in cui le emozioni sono percepite, espresse e identificate come legittime, o al contrario stigmatizzate, varia quindi molto da un contesto sociale e storico all’altro, ma anche all’interno di uno stesso contesto, in funzione del genere e dell’età, nonché delle relazioni e dei rapporti di potere tra i singoli (i maltrattanti solitamente “scoppiano” a casa, con le loro compagne e/o con i figli, non con il loro superiore sul luogo di lavoro). Nel caso della maschilità che – ricordiamolo – altro non è che l’interiorizzazione e la performance di cosa vuol dire “essere uomini” in un gruppo sociale specifico (vedi Un uomo [parte I]), il rapporto alle emozioni prende la forma di una vera e propria dis-educazione al proprio sentire e a quello altrui (bell hooks, La volontà di cambiare).
In “Perché il patriarcato persiste?”, Carol Gilligan illustra come, tra i 4 e i 7 anni, i bambini iniziano a reprimere le proprie emozioni, e a mostrarsi aggressivi e competitivi in modo da distinguersi dalle bambine. Inizia così già in tenera età quello che è un percorso di allineamento con le norme della maschilità che, seppur socialmente valorizzato, implica un’amputazione emotiva e relazionale. Per diventare “veri uomini”, i bambini prima e i ragazzi poi devono infatti rinunciare progressivamente all’intimità emotiva con le persone a loro vicine, reputata una cosa “da femmine” o, peggio, da omosessuali. A che età gli amichetti smettono di tenersi per mano, e di dimostrarsi affetto con baci o carezze? Perché molti uomini adulti si sentono in dovere di fare battute omofobe ogni volta che mostrano di voler bene a un amico, in modo da scongiurare qualsiasi sospetto di una loro possibile omosessualità? Per affermarsi conformarsi a un modello di mascolinità stoica e indipendente, gli adolescenti dis-apprendono progressivamente a condividere le proprie emozioni e a creare l’intimità fondata su queste competenze relazionali (Niobe Way, Deep Secrets. Boy’s Frendship and the Crisis of Connection). Pur di entrare nella gabbia dorata della maschilità, con i suoi privilegi, perdono quindi progressivamente la capacità di sentire le proprie emozioni e di empatizzare con quelle altrui. Con una sola eccezione: la rabbia, tanto valorizzata negli uomini (in cui è associata con autorevolezza, decisione, forza, etc.) quanto stigmatizzata o ridicolizzata nelle donne (in cui è identificata come isteria, drammaticità o stizza). È illuminante a questo proposito la testimonianza di Daisy Letourner in Uomini non si nasce, che racconta come la sua transizione da uomo a donna abbia giocato sulla percezione sociale della sua rabbia, diventata improvvisamente isterica invece che degna di rispetto.
L’amputazione emotiva maschile – a cui sopravvive solo la rabbia come sentimento virile per eccellenza – nutre e perpetua lo stereotipo secondo il quale gli uomini sarebbero più “razionali” e le donne più “emotive”. In realtà, se consideriamo gli scoppi d’ira maschili come il canale privilegiato attraverso il quale si esprime una rosa di stati d’animo (stress, ansia, insicurezza, gelosia, fame, dolore, tristezza, e via dicendo) sembrerebbe piuttosto vero il contrario. Nei centri di ascolto per uomini maltrattanti, il lavoro svolto da operatori e operatrici costituisce una forma di ri-apprendimento e di gestione delle emozioni, in modo da poterle accogliere e trasformare, piuttosto che lasciarle esplodere ed innescare la violenza. Sarebbe tuttavia sbagliato concludere che i maltrattanti agiscono in preda a delle emozioni incontrollabili di cui sarebbero vittima. Questo infatti equivarrebbe a negare non solo la loro responsabilità individuale, ma anche la dimensione strutturale e sistemica della violenza. Se il passaggio dalla rabbia alla violenza è breve, questo è anche perché 1. un certo rapporto alla violenza fisica è fondante nella socializzazione maschile e 2. il ricorso alla violenza è funzionale al mantenimento di una posizione di privilegio e di controllo.
Nella prima infanzia il genere non costruisce solo il rapporto ai sentimenti ma anche quello al corpo (il proprio, quello altrui) in modi radicalmente diversi e impari. Per quanto innocue, le lotte tra bambini costituiscono una vera e propria “palestra” per le maschilità adulte, un allenamento all’essere uomini che consiste nella capacità di aggredire e di sapersi difendere, dove il confine tra il gioco e l’umiliazione, la sottomissione o il bullismo non è chiaramente definito (Cristina Oddone, Uomini normali. Maschilità e violenza nell’intimità). L’educazione femminile, invece, costituisce un vero e proprio addestramento alla vulnerabilità: dall’auto-contenimento fisico (giochi nell’angolo di cortile, gambe incrociate, farsi piccole, mangiare poco per essere magre, non fare troppo rumore, non alzare la voce, etc.) all’auto-contenimento emotivo (fare piacere agli altri prima che a se stesse, mostrarsi sempre gentili e disponibili, prendersi cura, ascoltare, consolare, empatizzare, etc.) alle bambine non è insegnato a difendersi né sul piano mentale che fisico e sessuale (Colette Guillamin, Sesso, razza e pratica del potere). Nella stessa fascia d’età (4-7) in cui i bambini iniziano a mostrarsi aggressivi e competitivi (atteggiamenti tollerati e valorizzati come “vivacità”), le bambine iniziano a contenere la loro rabbia (un sentimento che le rende “brutte” e “cattive”) e la loro aggressività, che impareranno a esprimere parlando, piangendo,o prendendosela con sé stesse (vedi anche Marina Valcarenghi L’aggressività femminile). Non dimenticherò mai il primo giorno di uno stage di autodifesa femminista, quando la formatrice ci chiese di stringere i pugni come per colpire qualcuno o qualcosa. La metà di noi chiuse i pugni con il pollice all’interno, il che – cosa ve lo spiego a fare? – è sconsigliabile se si vuole dare un cazzotto, il rischio essendo di slogarsi o rompersi il pollice per l’impatto. Tutte donne adulte, tra i 25 e i 50 anni, molte già con esperienze di violenza alle spalle, e la metà di noi non sapeva neanche tirare un pugno. Questo, secondo Elsa Dorlin (“Difendersi. Una filosofia della violenza”) perché l’esercizio legittimo della violenza, in particolare delle armi e delle tecniche di lotta, è storicamente stato l’appannaggio dei gruppi dominanti – dello Stato, della polizia, dei padroni, degli uomini bianchi sui non-bianchi e sulle donne – mentre i gruppi subalterni fanno l’oggetto di un “disarmo” organizzato, un addestramento a subire violenza invece che metterla in atto.
Queste considerazioni permettono di comprendere come l’uso della violenza sia funzionale al mantenimento delle disuguaglianze di genere, dentro e fuori le mura domestiche. La violenza è infatti un modo di affermare o ristabilire il predominio maschile, di esercitare un controllo sul comportamento altrui attraverso l’uso o la minaccia dell’uso della forza. In quanto tale, la violenza costituisce una performance della maschilità (eterosessuale) egemonica attraverso pratiche specifiche come alzare la voce, sbarrare gli occhi, mostrare i denti, muoversi in maniera scattosa, alzare le braccia o chiudere i pugni in maniera minaciosa, urlare, colpire o lanciare oggetti, dare calci a cose o persone. Questi atti linguistici e fisici, oltre a intimidire chi vi assiste, servono ad affermare che “sono un uomo e mi comporto come tale” (Cristina Oddone, Uomini normali. Maschilità e violenza nell’intimità).
La violenza quindi non soltanto è un aspetto fondamentale della maschilità – nel senso che essere uomini vuol dire poter agire o minacciare violenza impunemente – ma è anche e soprattutto la sentinella che sta di guardia ai privilegi – sociali, economici e politici – maschili.
Ma allora, cosa si guadagna (e cosa si perde) a essere uomini diversamente?
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Gianfranco dice
Analisi lucida e fatta con parole comprensibili. Per noi uomini (almeno così è per me), ma penso per tutti, dovrebbe valere la regola aurea di mettersi sempre in discussione e basare la relazione su un piano paritario. Ciò implica, per lo meno, chiedere scusa e resettare il proprio comportamento onde evitare il ripetersi di comportamenti scorretti. Molto bella la parte riferita all’autocastrazione di noi uomini di comportamenti empatici e di manifestazioni emotive specie con altri uomini. La paura di essere considerati omosessuali non è sintomo di mascolinità ma di omosessualità latente (che c’è in tutti).
Elisabetta dice
Bravissima! Queste considerazioni/esercizi così concreti se applicati quotidianamente accelererebbero il progresso emotivo e il rispetto di genere. Gli uomini che si curano attivamente l’amputazione emotiva, sono meravigliosi e potremmo amarli e stimarli contemporaneamente. Non smetteremo mai di crederci. Grazie