Le testimonianze di uomini maltrattanti dimostrano come i comportamenti violenti sono inizialmente minimizzati e giustificati e come intorno alla violenza maschile regna molte volte l’omertà. Per altro, tanto la violenza fisica che quella psicologica hanno un andamento ciclico: la vittima spesso si illude che, cambiando il proprio comportamento, si possa sfuggire alla violenza. In questo nuovo articolo sulla violenza maschile (qui il primo, il secondo e il terzo), Kyra Grieco ragiona anche di quanto sia difficile accogliere la parola di chi subisce violenza: il rischio di colpevolizzare (accade quando chiediamo alla vittima com’è possibile che abbia accettato tanto violenza) e svalutare la vittima (accade quando le diciamo che è assurdo aver scelto quel compagno e che deve assolutamente lasciarlo, imponendole una decisione non sua) è molto diffuso…
WARNING! In questo testo sono trattate situazioni di violenza verbale e fisica che possono turbare chi legge. |
Che rapporto c’è tra genere e violenza?
Accogliere la parola di chi subisce violenza
Nella parte precedente di questo articolo, abbiamo visto come riconoscere la violenza all’interno delle relazioni intime. Questo è particolarmente importane perché nella maggior parte delle relazioni maltrattanti, nessuna delle due parti ha pienamente coscienza della natura violenta della relazione.
Le persone che agiscono un maltrattamento sono generalmente persuase di star reagendo a un’ingiustizia o a un torto fatto loro e negano sistematicamente tanto la loro responsabilità del maltrattamento (è colpa tua; sei tu che mi fai diventare così) che i sentimenti e il punto di vista dell’altra persona (accusata di esser bugiarda, falsa, manipolatrice o di fare la vittima). Le persone che subiscono il maltrattamento, invece, oscillano tra il riconoscimento della violenza subita (che si esprime attraverso la rabbia, la paura e la richiesta di aiuto, per esempio) e la negazione di questa, il che le induce a minimizzarla (sono io che esagero) e a ricercare le cause della violenza nel proprio comportamento (è colpa mia; forse sono io che sbaglio; non dovevo fare quella cosa) (Monica Bonsangue “La violenza psicologica nella coppia. Cosa c’è prima di un femminicidio”). Le situazioni di violenza psicologica non sfociano necessariamente nella violenza fisica, ma tutte le relazioni fisicamente violente lo sono anche psicologicamente. I sondaggi ISTAT indicano che più del 30% delle donne italiane nell’arco della loro vita fanno esperienza di una relazione maltrattante: tra queste, il 90% afferma aver subito violenza psicologica, economica o stalking, il 67% aver subito violenza fisica, il 50% delle minacce, e il 14% delle forme di violenza sessuale. Gli autori di queste violenze nella stragrande maggioranza dei casi (53%) sono i partner, in minor misura (25%) sono gli ex, mentre i parenti (11%) e gli sconosciuti (11%) seguono a pari merito.
Questo significa che quando fate una cena di famiglia o con gli amici, con ogni probabilità almeno una donna tra quelle presenti avrà già subito violenza nel corso della sua vita, da parte dell’attuale partner o di un ex. Ma quanti uomini hanno agito violenza? Guarda caso, non disponiamo di dati in merito. Prima di tutto perché pochissimi sono gli uomini che ammettono di avere o aver avuto in passato comportamenti verbalmente, sessualmente, economicamente o fisicamente violenti con le loro compagne. Gli uomini maltrattanti tendono in effetti a minimizzare sempre la violenza agita, attribuendone la responsabilità a chi la subisce e costruendosi come vittime a loro volta.
Il lavoro dei centri per uomini maltrattanti, nati dal 2009 in poi e ormai presenti in vari punti del territorio italiano, consiste infatti prima di tutto ad accompagnare gli uomini nel riconoscimento della violenza che esercitano. Le testimonianze riportate in “Da uomo a uomo. Uomini maltrattanti raccontano la violenza” illustrano bene come comportamenti violenti siano inizialmente minimizzati e giustificati dai loro autori attraverso narrazioni che li presentano come il risultato di una serie di torti subiti da parte della vittima a cui è attribuita la responsabilità della violenza stessa (“è colpa sua”, “è insopportabile”, “non mi lascia mai stare”, “non è mai contenta”, “urla, mi aggredisce”, etc.). La violenza è quindi presentata come motivata dalla rabbia (“non ci ho visto più”, “ho visto rosso”, “non capivo più nulla”) innescata da comportamenti altrui, di cui l’autore non può essere ritenuto responsabile. Il processo di presa di coscienza accompagnato dai Centri di Ascolto per Maltrattanti mostra come in realtà come sotto la rabbia si celino spesso sensazioni di vulnerabilità (“mi sento minacciato” “mi fa stare male” “mi provoca perché mi odia”) che inducono il ricorso alla violenza per ristabilire un controllo emotivo interno. Solo che, nel frattempo, si è terrorizzato e traumatizzato l’altra persona, quando non la si è proprio mandata al pronto soccorso.
La violenza prende molte forme diverse, e può crescere e trasformarsi nel tempo, in relazione con il contesto sociale, economico e familiare nel quale si iscrive. In alcuni casi la violenza fisica arriva rapidamente, in altri ci mette anni. In molti casi non arriva mai, e si rimane allo stadio della violenza psicologica, le cui conseguenze sono meno visibili ma altrettanto nefaste per la salute fisica e mentale di chi a subisce: perdita di autostima e di autonomia, depressione, ansia, attacchi di panico, disordini alimentari e del sonno, scoppi d’ira e comportamenti maltrattanti a sua volta, autolesionismo, suicidio. Tanto la violenza fisica che quella psicologica tendono ad avere un andamento ciclico: una fase di tensione (in cui la vittima ha l’impressione di “camminare sulle uova”), a cui segue l’esplosione del maltrattamento (crisi di rabbia, aggressione verbale, colpi, etc.), seguita poi da una fase di riappacificazione caratterizzata dalla giustificazione (ero stanco, ero stressato, avevo bevuto o fatto uso di sostanze, etc.) e dall’attribuzione della colpa alla vittima (lo sai quanto ci tengo eppure tu…), che culmina poi nella fase “luna di miele” (regali, gesti e parole dolci, complimenti e valorizzazione). L’alternanza di queste fasi crea presso la vittima una dissonanza cognitiva tra il partner maltrattante e il partner premuroso della “luna di miele”, alimentando così l’illusione che, cambiando il proprio comportamento, si possa sfuggire alla violenza. Il fatto poi che molti di questi comportamenti – gelosia, scoppi d’ira e colpi contro mobili, porte, o muri – siano naturalizzati come tipicamente “maschili”, li rende difficilmente identificabili come violenti, sia da parte delle donne che li subiscono, sia da chi gli sta intorno.
Così, quando anni fa la mia amica Marta (uno pseudonimo) si era lamentata del fatto che il suo partner e convivente la faceva mille domande se lei tardava nel tornare a casa dopo lavoro, io avevo cercato di rassicurarla, ipotizzando che fosse insicuro e avesse paura di perderla. Solo qualche settimana dopo, quando lei si era rifugiata da me perché lui, da ubriaco, le aveva lanciato un coltello, avevo capito che non era solo insicurezza, ma violenza. Marta mi aveva poi confessato che l’anno prima, sempre in preda alla gelosia e all’alcol, con un calcio le aveva rotto due costole. Io allora avevo fatto tutto quello che non bisogna fare, in questi casi: le avevo chiesto com’era possibile che avesse accettato tutto questo (colpevolizzandola), avevo detto peste e corna di lui (svalutando così anche lei che se l’era scelto come compagno) e le avevo detto che doveva assolutamente lasciarlo (imponendole una decisione non sua).
Non avevo capito perché, già il giorno dopo, lei aveva cominciato a preoccuparsi per lui, immaginandolo triste e dispiaciuto per quello che aveva fatto, e a giustificare la sua gelosia come il frutto di una storia familiare complicata. Non avevo neanche capito perché, dopo tre giorni, aveva deciso di tornarsene a casa, scegliendo di continuare la relazione e allo stesso tempo di non frequentarci più, da una parte perché io ero stata così giudicante e dall’altra perché lui glielo aveva proibito. Per lei, ero l’amica che l’avrebbe sostenuta solo se l’avesse lasciato, cosa che non era pronta a fare. Per lui, siccome sapevo, ero diventata una nemica da tenere a distanza. Lui infatti non ha mai voluto confrontarsi con la sua violenza, non l’ha mai ammessa né accettata. Probabilmente di sé pensava di essere un uomo molto innamorato, un po’ geloso, un impulsivo, che ogni tanto esagerava sotto effetto dell’alcol. Mica uno di quelli che picchiano la moglie davanti ai figli ogni sera quando tornano a casa. Questo è uno dei primi, più grandi problemi della violenza: il violento è sempre un altro. E che purtroppo troverai sempre uno più violento di te per giustificarti.
NOTA BENE Se mai vi trovaste ad accogliere la parola di una persona che ha subito violenza, abbiate cura di praticare un ascolto empatico, attivo e non giudicante. Iniziate col riconoscere il coraggio e la fiducia di cui fa prova condividendo con voi la sua storia, e fatele sapere che le credete (validando quindi il suo vissuto). L’esperienza della violenza distrugge l’autostima e la fiducia nelle proprie capacità di chi la subisce, il semplice fatto di raccontare richiede quindi uno sforzo enorme, che va riconosciuto e valorizzato. Non denigrate l’autore delle violenze, perché questo svaluta anche il giudizio di chi le ha subite per esserselo scelto, e non cercate di persuaderla a lasciarlo o denunciarlo se non è quello che vuole. Non abbiate fretta di “fare” qualcosa, rendetevi piuttosto disponibili per ascoltarla o accoglierla qualora ne avesse bisogno. Chiedete se potete fare qualcosa per aiutarla, se ne ha parlato con altre persone vicino a lei, se conosce il 1522 o il centro anti-violenza più vicino. Ricordatevi di sottolineare che al centro anti-violenza si può anche andare una volta sola, in totale segretezza, per parlare con qualcuno e che questo non significa sporgere denuncia, ma semplicemente consultare delle specialiste, come andare dal dottore quando si sta male. Molte donne pensano infatti di non aver subito “abbastanza” per rivolgersi ai centri anti-violenza, e temono che questo faccia di loro delle vittime e dei loro compagni dei “mostri” infrequentabili.
Siccome nella maggior parte delle relazioni maltrattati entrambe le parti minimizzano la violenza, l’intorno sociale gioca un ruolo fondamentale nella sua identificazione e trasformazione. Purtroppo, intorno alla violenza maschile regna spesso l’omertà. Famiglia, amici, colleghi e compagni di lotta scelgono di non riconoscere, ma di giustificare gli autori della violenza, normalizzando così i loro comportamenti e discreditando la parola della vittima.
Come nel caso di Giovanna (altro pseudonimo), che accompagnai al pronto soccorso perché durante una lite con il fratello lui le aveva aperto la testa con il calcio di un’ascia. Avete letto bene, un’ascia, di quelle piccole fatte per tagliare la legna in casa. C’era da ringraziare che l’avesse presa col calcio, altrimenti l’avrebbe probabilmente uccisa. Ad ogni modo, dopo essere scappata dalla casa dove abitavano entrambi con i genitori e il figlio di lei, essere venuta in cerca di un’amica e essersi fatta mettere venti punti in testa al pronto soccorso, Giovanna doveva decidere cosa fare. A causa delle sue attività di militanza politica non era affatto a suo agio ad andare dalla polizia. Il fratello poi aveva precedenti penali e un’eventuale denuncia avrebbe probabilmente significato il fermo, cosa che avrebbe “spezzato il cuore” (cito) alla loro madre. I genitori, infatti, si erano schierati in favore del fratello, accusando Giovanna di essere una “poco di buono” che per le sue frequentazioni militanti “abbandonava” (agli stessi genitori) il figlio di tre anni. Lei aveva quindi preferito chiedere aiuto a un’organizzazione di movimento, per una gestione interna della questione. Nonostante un’accoglienza inizialmente calorosa, a cui avevo presenziato (“ma certo sorella, ti crediamo, lo sappiamo che tuo fratello fa uso di sostanze e che ti picchia, non ti preoccupare ci pensiamo noi”), la situazione si era risolta con un nulla di fatto. Gli stessi “compagni” che avevano accolto la richiesta di Giovanna, quando li avevo rivisti qualche settimana dopo, mi avevano detto che dopo aver parlato col fratello erano giunti alla conclusione che la colpa fosse condivisa. Perché lei in un’occasione precedente l’aveva ferito a sua volta (per difendersi da un’aggressione), e perché il tema della discordia – il fatto che Giovanna “abbandonasse” il figlio per farsi gli affari suoi – era un dato di fatto. Insomma, se non sei una madre modello è legittimo che si ti si prenda ad asciate, così come probabilmente è normale che se non torni a casa subito dopo lavoro ti si lanci un coltello. Ma non vi preoccupate questa non è violenza, almeno finché non ci scappa la morta.
Per non lasciarvi in sospeso sulla sorte di queste due donne, sappiate che Marta e Giovanna sono ancora vive e vivono oggi libere dalla violenza. Per sfuggire al fratello, Giovanna si è trasferita in un’altra città, da una zia che l’ha ospitata, dove ha trovato un lavoro che le ha permesso di diventare economicamente autonoma, e di farsi poi raggiungere dal figlio. Con Marta invece ci siamo ritrovate, qualche anno più tardi, quando lei ha approfittato di un viaggio nel suo paese di origine per lasciare il compagno, e non tornare mai più indietro. Da allora, ha pian piano ripreso contatto con tutte le persone da cui quella relazione l’aveva isolata. Insomma, due storie tutto sommato “finite bene”. Se non che in entrambi i casi sono state le donne che hanno subito violenza a doversi lasciare tutto alle spalle, cambiare città, località, lavoro e frequentazioni, pur di mettere fine al maltrattamento. Mentre chi quella violenza l’ha agita non ha dovuto cambiare niente nella sua vita. Neanche confrontarsi con i propri comportamenti, che ha probabilmente potuto continuare a credere puntuali e giustificati, anche perché nessuno li ha identificati come violenza.
Nella terza parte di questo articolo parleremo di come l’educazione alle emozioni e il rapporto al corpo (il proprio, quello altrui) influiscono nel generare i comportamenti maltrattanti degli uomini nel sistema patriarcale in cui viviamo.
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