Come si (de)costruisce la propria mascolinità e quella altrui? La difficile domanda al centro del secondo di 5 articoli (molto attesi, qui il primo) di Kyra Grieco dedicati a come disimparare alcuni gesti e automatismi per rendere questo mondo più vivibile per tutti (ma soprattutto per tutte) apre tante questioni e, spesso con ironia, costringe a pensare. Si parte da cosa definisce un uomo e si ragiona, tra le altre cose, di saperi, corpi ed emozioni, avendo a disposizione almeno trent’anni di ricerca sulla mascolinità. Come nel primo articolo, restano fondamentali gli esercizi proposti, in questo caso sono sette: i primi sono facili facili, gli ultimi due sono fantastici e possono essere realizzati durante una riunione di lavoro, una cena con amici o parenti, una discussione qualsiasi su un tema che vi sta a cuore…
Visto che la mascolinità è relativa al gruppo sociale nel quale ci si trova, per capirla e agire su di essa conviene partire da se stessi e dal proprio intorno: amici, famiglia, colleghi. Pensare che uomini di altri gruppi sociali (religiosi, etnici o di classe) siano “più maschilisti” è infatti una forma frequente di gerarchizzazione delle mascolinità, che non fa altro che spostare il problema da sé agli altri. L’idea che alcune società siano “più patriarcali” è molto vecchia e già ampiamente sdoganata: il colonialismo si è storicamente legittimato attraverso l’idea che gli uomini colonizzati brutalizzassero le loro donne (Mohanty 2020); il razzismo si è alimentato dell’idea che i non bianchi fossero sessualmente iperattivi e violenti o ipoattivi ed effeminati (rispetto alla “norma” bianca); il classismo dell’idea che gli uomini delle classi popolari fossero forti ma brutali (quindi incapaci di nobili sentimenti) (Davis 2018). Tutti questi stereotipi nonché le loro rielaborazioni contemporanee nella denigrazione delle mascolonità altrui (quali definire un altro uomo una bestia o un damerino, fare illazioni sulla taglia del sesso o sull’appetito sessuale eccessivo o deficiente, suggerire che si faccia “comandare” dalla moglie o che al contrario sia un tiranno, etc.), sono unicamente modi di gerarchizzare gli uomini tra loro, cioè di posizionare la propria mascolinità come “migliore” di altre. Il punto quindi non è cosa definisce un uomo ma rispetto a chi ci si definisce uomini.
Esercizio [2] Tanto per cominciare suggerisco un esercizio elementare: riflettere sui paragoni che regolarmente facciamo con altri uomini, allo scopo di sentirci “migliori” – più egualitari, tolleranti, aperti, sensibili, etc. – di loro, e iniziare a focalizzarsi piuttosto su quello che si potrebbe cambiare nei propri comportamenti e nelle proprie relazioni, per esserlo ancora di più. Continuando a leggere, vedrete che ci sono tante cose da fare.
Questo aspetto della mascolinità in quanto competizione tra uomini precede qualsiasi considerazione sul rapporto con le donne. Perché è innanzitutto nel contesto nell’interazione con altri uomini – dalla famiglia alla scuola agli amici – che le norme di genere sono interiorizzate. Ricordo l’amica dispiaciuta per il figlio di sei anni che, appena iniziata la scuola elementare, aveva smesso di giocare alla ricreazione con l’amica del cuore perché non era cosa “da maschi”. Pur continuando a giocare insieme dopo scuola, aveva smesso di socializzare con lei in ambito scolastico, interiorizzando così dalla più giovane età la segregazione tra “maschi e femmine” (perché di segregazione si tratta: una apartheid dei sessi). In questa segregazione e nella riaffermazione della norma da parte degli altri bambini (che lo avrebbero schernito se avesse continuato a giocare con l’amichetta) si trovano i primi segni distintivi di una mascolinità che consiste, per l’appunto, in una messa a distanza del “femminile” (cioè di tutti i comportamenti e le pratiche che sono identificati come tali) nonché delle “femmine”, che vengono così relegate a specifiche forme di interazione, socialmente accettabili: madre, sorella, amica (ma solo dopo scuola, a tu-per-tu), fidanzata, amante, moglie, etc. C’è da sorprendersi se poi, a quarant’anni, quando si fa una cena, gli uomini sono tutti da una parte del tavolo e le donne dall’altra? Un uomo finito per sbaglio dal lato femminile del tavolo si sente in fretta scomodo, come se quel posto a tavola mettesse in dubbio la sua mascolinità, il suo appartenere al gruppo degli uomini. Questo, ammesso e concesso che sia il benvenuto nel gruppo “dei maschi”, il che non è il caso di tutti, in particolare di tutti quelli uomini che – per corporeità o comportamenti, per orientamento sessuale o per socialità – sono assimilati al femminile. Perché, ancora una volta, la mascolinità consiste innanzitutto nel guardarsi e normarsi tra uomini, prima ancora che in un’interazione con le donne, dalle quali ci si deve innanzitutto distinguere prima di poterci avere a che fare.
Esercizio [3] Alla prossima cena in famiglia, di lavoro o tra amici, sedetevi dall’altro lato del tavolo (questo se le o i commensali sono d’accordo, beninteso!). Accettate il disagio che questo potrà crearvi e cercate di passare una bella serata con persone che di solito frequentate solo in quanto amiche/compagne/sorelle/madri di altri uomini. Adattatevi ad altri temi e modi di discussione, ascoltate senza interrompere, fate delle domande. Insomma, mettetevi in minoranza, uscite dal gruppo degli uomini per vedere che effetto fa, vi assicuro che la vostra virilità non ne soffrirà.
Quando parlo dell’imperativo di distinguersi dalle donne e da altri uomini (per esempio gli omosessuali) non mi riferisco unicamente al fatto di riconoscere una differenza e tracciarne i confini, ma anche alla disuguaglianza che questa operazione produce (Delphy 2023). L’opposizione tra maschile e femminile significa dividere l’umanità in due “classi di sesso”, gli uomini e le donne (Delphy 2022) ma anche esprimere le disuguaglianze all’interno di ogni gruppo attraverso l’opposizione maschile/femminile. Quindi, per esempio, essere una “Donna con le palle”, “cazzuta” o “forte” costituisce un complimento. L’attribuzione di caratteristiche associate alla mascolinità (nell’uso corrente gli organi genitali maschili rinviano al coraggio, all’ambizione, alla caparbietà), implicano una valorizzazione della persona, a maggior ragione se si tratta di una donna, a cui non sono abitualmente attribuite queste qualità “naturalmente” maschili. È molto più raro incorrere in espressioni come “un Uomo cazzuto” o “un Uomo con le palle” o “un Uomo forte”: l’uso della parola uomo abbinata a degli aggettivi associati al maschile risulta infatti ripetitivo, a meno che non serva per distinguere quella mascolinità da altre (considerate essere più “deboli”, per esempio).
La particolarità di queste formulazioni è di riprodurre e consolidare, nel linguaggio comune, la distinzione di genere, specificando il sesso della persona solo quando questo non è “in concordanza” con le qualità che gli sono abitualmente attribuite come “naturali”. La stessa cosa vale per l’“uomo sensibile” o “dolce”, caratteristiche associate al femminile (quante volte si sente dire di una persona che è “una Donna dolce” o “sensibile”?). Nonostante alcune qualità associate al femminile facciano l’oggetto di una valorizzazione – in particolare in relazione all’evoluzione dei modelli paterni sopracitati – l’effetto di queste abitudini di linguaggio non è solo quello di differenziare il maschile dal femminile, ma anche di stabilire una gerarchia tra i due termini. Mentre non esistono delle espressioni speculari, tali un “Uomo con le ovaie” o un “Uomo vulvato” (ma potremmo iniziare a inventarsele, tanto il linguaggio come il genere è in eterno movimento), essere denominati una “femminuccia” (sensibilità) o un “mammo” (cura) è una forma di de-virilizzazione che equivale a un abbassamento di rango all’interno della comunità maschile. Le pratiche e i comportamenti associati al femminile sono infatti sistematicamente svalutate, mentre quelle associate al maschile sono valorizzate, indipendentemente dal sesso della persona che le agisce.
Esercizio [4] Provate a riconoscere, nel vostro linguaggio di tutti i giorni, tutte quelle espressioni (tipo “donna con le palle”) che riproducono gli stereotipi di genere (il coraggio sarebbe un attributo maschile). Non sapete se è uno stereotipo? Provate a sostituire la parola “uomo” o “donna” con un’altra categoria di persone, idealmente una a cui appartenete voi. Per esempio: “Un italiano con le palle”. Che effetto fa? Generalmente ci viene subito da pensare – anche un po’ offesi – “ma perché, gli italiani non hanno le palle?”. Bingo! Siete di fronte a uno stereotipo.
Iniziare da sé, quindi, e dal proprio gruppo sociale (amici, colleghi, familiari) è essenziale per identificare i contorni della propria mascolinità. Prendere coscienza di come si è interiorizzato, messo in atto, trasmesso e normato la mascolinità (la propria e quella degli altri) è infatti il primo, indispensabile passo per poterla trasformare. E trasformarla è un passo indispensabile per la parità di genere, che non è solo la parità tra uomini e donne, ma la parità per tutt*, e tra tutt*.
Warning: non è facile, e non è affatto piacevole. Non può esserlo, altrimenti c’è qualcosa che non va. Rimettere in questione quei comportamenti che sono stati interiorizzati come “normali” sin dalla più giovane età, e che sono condivisi all’interno del proprio gruppo sociale di riferimento, significa non solo andare a destabilizzare la propria identità, ma anche le proprie relazioni sociali. Venir meno a delle norme di genere interiorizzate (ad esempio l’obbligo per un uomo di non mostrare le proprie debolezze e vulnerabilità, o per una donna di essere sempre gentile ed accogliente) necessariamente crea disagio e delude le aspettative, le nostre come quelle altrui. I richiami all’ordine possono essere violenti e dolorosi, soprattutto se vengono da persone amate. Sentirsi dire dal proprio padre che non è fiero di te, dall’amico d’infanzia che con te non si diverte più, o dalla compagna che ti vorrebbe “più uomo” sono tutte possibili reazioni altrui al cambiamento, che fanno male perché vanno a ledere la propria immagine di sé così come i propri legami affettivi.
Per fortuna, da qualche anno si sono moltiplicati i saggi, fumetti e libri che hanno l’obiettivo di rendere accessibili ma soprattutto applicabili quasi trent’anni di ricerca sulle mascolinità, nonché di esperienze nel riconoscimento e nella decostruzione di queste. Nonostante una grande diversità di stili, di tematiche e di prospettive, l’insieme di queste teorie e pratiche tendono a identificare tre aspetti distintivi della mascolinità egemonica, cioè quella di uomini bianchi, cis, etero e di classe media che costituiscono la maggioranza (politica, non numerica) delle società occidentali contemporanee. Il primo aspetto concerne il sapere e il saper fare, cioè il valore sociale delle competenze; il secondo riguarda il rapporto al corpo (il proprio e quello altrui); il terzo, invece, il riconoscimento e l’espressione delle emozioni. Ma procediamo con ordine.
Il genere orienta l’accesso e lo sviluppo delle competenze, sin dalla più giovane età. Invece di soffermarmi su come i bambini sono incoraggiati a sviluppare competenze fisiche e tecnico-scientifiche che sono socialmente e – più tardi – economicamente valorizzate, mentre le bambine sono orientate verso lo sviluppo di competenze sociali ed emotive che spesso conducono verso mestieri di cura poco riconosciuti e retribuiti (Internet pullula di informazioni e risorse sull’educazione alla parità di genere, ma invito chi è interessat* a leggere il manuale di educazione antisessista di Aurelia Blanc Crescere un figlio femminista) vorrei concentrarmi sul riconoscimento differenziale delle competenze all’età adulta. Non mi riferisco tanto all’identificazione (e valutazione) diversa delle competenze in quanto “maschili” (p.e. tecnico-scientifiche) e “femminili” (p.e. emotivo-sociali), ma piuttosto alla valutazione divergente delle stesse competenze, a seconda che siano degli uomini o delle donne a mobilizzarle.
Una delle forme più riconoscibili di questa svalutazione delle competenze è il mansplaining, termine reso celebre dalla giornalista statunitense Rebecca Solnit (autrice di Gli uomini mi spiegano le cose) in un articolo del 2008, per identificare quelle numerosissime situazioni in cui alcuni uomini si sentono legittimati a spiegare qualcosa a una o più donne, supponendo che queste ne sappiano meno di loro. Quello che più mi colpisce, nella maggior parte dei casi, è la relativa docilità di quelle persone (tra cui la sottoscritta) che si vedono spiegare cosa di cui hanno già una vasta conoscenza e/o esperienza, pur di non correre il rischio di sembrare saccenti o scortesi, il che dimostra quanto la svalutazione delle competenze sia interiorizzata dalla donne stesse. Ho quindi assistito a un amico tecnico delle luci che spiegava l’Alzheimer alla sua compagna, che da più di dieci anni svolge ricerca con i pazienti affetti da questa malattia e con i loro familiari. E ho smesso di contare le volte che un uomo – per il mero fatto di essere maschio – ha negato ogni tipo di ricerca sulle mascolinità sulla base della propria esperienza individuale, apportando come unico argomento a sostegno che non posso saperne nulla, perché sono una donna. Come se io mi fossi convinta, per il semplice fatto di parlare italiano dalla nascita, di saperne di più di qualsiasi manuale di linguistica. Non so se mi spiego.
Esercizio [5] facile facile: prima di spiegare qualcosa a una o più persone, correggerle o dir loro come fare, soffermatevi a 1) (ri)conoscere e valorizzare le loro competenze in merito, prima di eventualmente 2) chiedere loro se desiderano il vostro intervento, che si tratti di un parcheggio o di una ricetta di cucina. Quindi invece di iniziare a spiegare cosa è o come si fa provate a chiedere cosa la persona sa già… in molti casi rimarrete sorpresi. Le loro competenze in materia vi sembrano insufficienti? Pazienza. Non prendete il volante (letteralmente e figurativamente) se l’altra persona non ve lo ha chiesto. Lo sviluppo e il riconoscimento delle competenze è anche questione di pratica.
Nella vita di tutti i giorni, il silenziamento delle donne e la svalutazione delle loro competenze è un fenomeno difficile da identificare, perché è assolutamente interiorizzato e naturalizzato. Io ad esempio mi sono resa conto che sono molto meno predisposta all’attenzione quando a parlare è mia madre. Poco importa che mi stia parlando di questioni di amministrazione domestica o di politica internazionale, quando lei parla, io dopo un po’ tendo a distrarmi. A prescindere dal rapporto madri-figlie su cui gli psicanalisti (maschi soprattutto) hanno speso pagine e pagine, ci ho riflettuto e sono giunta alla conclusione che questo dipende in gran parte dal fatto che sono stata cresciuta in un contesto in cui quello che mio padre diceva era “interessante” e tutt* lo stavano ad ascoltare, mentre mia madre era sistematicamente interrotta o corretta in quello che diceva (il fatto poi che l’italiano non fosse la sua lingua materna non aiutava). Nonostante facessero lo stesso mestiere e avessero gli stessi titoli, lui era il professore, lei la moglie del professore (mai la professoressa). Questo tipo di educazione fa sì che anche io, figlia femmina e femminista del professore e della professoressa, tenda comunque a prestare più attenzione quando a parlare è un uomo.
Così come nella vita familiare, anche nei contesti lavorativi, nello spazio politico e mediatico, sono infatti gli uomini a dominare gli spazi e i tempi di parola. Nonostante lo stereotipo che le donne parlino tanto, in realtà nella maggior parte delle situazioni miste – cioè in cui sono presenti uomini e donne – lo spazio verbale e sonoro è maggiormente occupato dai primi, a discapito delle seconde. Questo accade all’ora della ricreazione a scuola, quando gli schiamazzi dei bambini che giocano – spesso a degli sport fisici che richiedono molto spazio, quale il calcio – coprono le voci delle bambine che fanno giochi più fisicamente e uditivamente contenuti. Questo accade nei luoghi di lavoro
Esercizio [6]: passate tutta una riunione ad annotare le prese di parola e i loro tempi. Generalmente si rimane sorpres* della divergenza tra la nostra percezione e il tempo di parola effettivamente occupato dalle persone.
Accade anche al di fuori degli spazi lavorativi. Basta osservare – così come la riunione di lavoro – una cena con amici e/o parenti. Oltre alla divisione delle attività – il famoso “chi fa cosa” (lavoro visibile come cucinare il piatto principale, lavori invisibili come apparecchiare, nutrire i bambini, raccogliere i giocattoli finiti per terra, accogliere gli ospiti e fare le pulizie a fine cena) – se ci si focalizza sulle pratiche verbali e le interazioni, si possono osservare delle dinamiche simili a quelle nella corte di ricreazione alle elementari: gli uomini spesso parlano forte, si fanno battute da una parte all’altra della stanza o del giardino (lanciandosi parole al posto della palla da calcio), occupano gran parte dello spazio fisico e sonoro disponibile con la loro attività e le loro interazioni, mentre le donne tendono a “fare capannello” da una parte, parlando tra loro vicine e a voce bassa, in modo da potersi udire ma da non essere udite. Oppure decidono di allontanarsi o uscire per fumarsi una sigaretta, per scampare al baccano e poter conversare senza interruzioni.
L’occupazione maschile degli spazi fisici (il cosiddetto manspreading, come ad esempio sedersi a gambe e gomiti larghi nei trasporti pubblici, mentre accanto una donna di fa piccola piccola per stare nel mezzo sedile lasciatogli) e sonori (parlare molto e/o a voce alta, monopolizzare la conversazione o il dibattito, etc.) nelle sue forme quotidiane e ordinarie sembra innocua. In realtà, nel continuum delle violenze di genere, è la prima e la più banale delle forme di silenziamento e di marginalizzazione delle donne e di altre minoranze, che rende inudibili le loro voci e le istanze che portano. Questa tendenza che possiamo osservare nella vita di tutti i giorni tende peraltro ad amplificarsi nello spazio-tempo nel dibattito pubblico, incluso quando si discutono questioni considerate di “competenza femminile” come la violenza di genere.
Un esempio lampante è fornito dal dibattito a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin, e delle dichiarazioni della sorella Elena. L’indomani della lettera di Elena Cecchetin al Corriere, in cui definiva il femminicida “un figlio sano del patriarcato” e i femminicidi come “omicidio di Stato”, vari aticoli di blog e giornali online riportavano i commenti di Marco Travaglio, intervistato su La7: “Non credo sia un omicidio di Stato” e “Non ho certezze sulle soluzioni di problemi cosi enormi, so solo che dopo la morte bisognerebbe fare un po’ di silenzio”. Ora, tanto i commenti di Travaglio che la loro ripresa dai media costituiscono un chiaro esempio del male biais (cioè dell’orientamento maschile, quindi maschilista) dei media italiani, a diversi livelli. Innanzitutto, nonostante alla stessa puntata di 8 e mezzo fossero invitate anche la giornalista Serena Dandini, il giornalista di Libero Francesco Specchia e l’attivista Carlotta Vagnoli, autrice di Maledetta sfortuna. Vedere, riconoscere e rifiutare la violenza di genere e formatrice di educazione di genere nelle scuole da anni, gli unici propositi ripresi dai giornali sono quelli di Travaglio e lo “sbotto” (che potremmo anche qualificare di aggressione verbale) di Francesco Specchia, che interrompe e riprende Carlotta Vagnoli, affermando che il suo intervento “non c’entra niente”. Mentre quindi sia Serena Dandini che Carlotta Vagnoli – non per il fatto di essere donne ma per essersi interessate da anni alla problematica della violenza di genere – avevano condiviso riflessioni e considerazioni ben precise (dalla proposta di una legge bipartisan sulla violenza contro le donne all’impossibilità di conciliare l’autonomia femminile e la parità di genere e i valori fondanti dell’attuale governo : “Dio, Patria e Famiglia”) sono il manterrupting e mansplaining (ti interrompo e poi ti spiego perché quello che dici non ha nessun valore) di Specchia e l’affermazione – peraltro inutile – di Travaglio di “non avere certezze” che sono riprese e diffuse. Sul primo non mi soffermo perché un comportamento cosi insopportabile non merita neanche di essere commentato, né di essere visibilizzato ulteriormente. Concentriamoci invece sulle affermazioni, ben più innocue, di Travaglio.
Se da una parte possiamo lodare l’ammissione di incertezza da parte del giornalista, che per l’appunto è riuscito così ad evitare di fare mansplaining improvvisandosi esperto sulla questione, la sua intervista rappresenta una delle innumerevoli occasioni mancate per passare la palla a quelle persone ed esperienze che da anni lavorano sul tema, ma le cui voci non sono udite né udibili in tempi normali. Travaglio avrebbe per esempio potuto rimandare, oltre che alle persone presenti, al lavoro di prevenzione che svolgono diverse associazioni sul territorio italiano, oppure approfittarne per parlare dell’allarme lanciato dai centri anti-violenza che già da anni denunciano l’aumento dei casi tra le donne molto giovani (16-18) e le ultrasessantenni, oppure di come i tagli di fondi degli ultimi anni hanno costretto i centri antiviolenza a ridurre drasticamente i servizi e dipendere sempre di più dal personale volontario (in questo modo avrebbe potuto sostenere l’affermazione di Elena Cecchettin, invece di inficiarla: quella di non priorizzare la questione della violenza di genere è una chiara volontà politica che trascende gli schieramenti).
Insomma, a prescindere da Travaglio come individuo (perché non si tratta di un attacco ad personam, ma di mostrare un meccanismo ahimé abbastanza paradigmatico) il suo intervento a La7 è stato, come quelli di molti altri, un’ennesima opportunità mancata di fare quello che un uomo pro-femminista avrebbe potuto fare. “Che cosa”, mi direte? Senza voler essere prescrittiva – chi ha altre idee le proponga – vedo varie possibilità. 1. Rifiutare di occupar quello spazio, in modo da lasciarlo ad una persona più competente sull’argomento, che si sarebbe servita di quello spazio fisico e di parola per informare il pubblico sulla violenza di genere: cos’è, da dove nasce, come risconoscerla, come combatterla, cosa fare quando la si subisce o qualcun* vicino a noi la subisce; 2. Approfittare di quello spazio mediatico per visibilizzare persone e realtà esistenti che da anni lavorano sul tema. Quindi al “non ho soluzioni” sarebbe potuto aggiungere “ma ci sono i centri anti-violenza, tal autrice o autore, tali studi, associazioni etc. che propongono di intervenire in tal o tal modo”… certo non sarebbe stato preciso né esaustivo, ma almeno avrebbe re-distribuito un po’ del suo privilegio mediatico e valorizzato competenze altrui; 3. Finalmente, esiste un’altra opzione, certo più confrontante (e meno confortevole) da mettere in atto, che è quella, pura e semplice, di tacere. Così come parlare è un atto rivoluzionario per le donne (cf. Michela Murgia “Stai zitta! E altre nove frasi che non vogliamo sentire più”), tacere può essere estremamente sovversivo per gli uomini. Significa disporre di un potere e decidere di non usarlo. Significa lasciare spazio perché altre voci possano emergere o perché semplicemente abbiano più spazio di quel poco abitualmente accordato. Significa anche insegnare attraverso l’esempio qualcosa che è estremamente difficile da fare – starsene seduti in una riunione, una trasmissione o un’assemblea e rimanere in silenzio può fare sentire inesistenti o invisibili – e cioè che se si lascia vuoto quello spazio, altr* potranno occuparlo con i loro pensieri e le loro parole. Scegliere di tacere – non in maniera punitiva o aggressiva, ma rinunciando temporaneamente ad avere un ruolo da protagonista, il che non ha mai ucciso nessuno – costituisce infatti, in alcuni contesti, un atto politico.
Esercizio [7] per casa: in una riunione di lavoro, una cena con amici o parenti, una discussione qualsiasi su un tema che vi sta a cuore, provate a stare in silenzio e osservate cosa accade intorno a voi. Non vi alienate guardando il telefono o la televisione, restate presenti, ascoltate, se possibile prendete appunti. Chi parla più spesso o più a lungo (per questo vi servirà un timer)? Chi interrompe e chi viene interrott*? Quali competenze o saperi sono riconosciuti pubblicamente come legittimi (tipo: É / si fa così. Lo so perché l’ho letto su Topolino) e da chi? Quali competenze o saperi sono invece svalutati o marginalizzati (tipo: quello che dici non c’entra niente)?
Combattere con i propri automatismi – quali quello di spiegare le cose o di interrompere alcune persone più di altre – è un lavoro certosino, qualcosa che bisogna praticare con costanza perché regolarmente ci si ricasca. Come mi disse una volta un’amica: “Io non sono una femminista. Sono una maschilista che ogni giorno cerca di disapprendere qualcosa”. Disimparare è faticoso. Bisogna portare pazienza, accettare di sbagliare ripetutamente, ammetterlo, sapersi scusare, e cercare di fare meglio la prossima volta. Il femminismo, in quanto percorso e pratica, ci insegna che questo non si fa da soli. Ci vogliono valid* alleat*, persone di fiducia che magari sono più allenate su quella cosa in particolare, e possono quindi farci da apripista. Persone che abbiano sia le competenze che la voglia (soprattutto quella!) di farci notare quando ricadiamo nei soliti automatismi, contribuendo così a riprodurre stereotipi e disuguaglianze.
Esercizio [8] per un cambiamento di prospettiva: Quando una persona a voi vicina vi fa notare che qualcosa che avete detto o fatto è non è in linea con i valori che professate (per esempio, siete strenui difensori della parità di genere ma poi fate battute sessiste), invece di offendervi e mettervi sulla difensiva (“ma come! Io che faccio questo e quest’altro…”), rispondere aggredendo (“e fattela una risata!”) o archiviare la critica come un attacco personale (“ce l’ha con me”), provate a: 1) considerare che la persona in questione sta impiegando tempo ed energia per comunicarvi qualcosa, invece di starsene tranquilla e farsi i fatti suoi (potreste quindi ringraziarla, invece di negare o sminuire quello che dice); 2) immaginare che, anche se non vi fa piacere – anzi a maggior ragione se non vi fa piacere – potrebbe esserci del vero (in altre parole, mettetevi in discussione); 3) prendervi un po’ di tempo per rifletterci, informarvi e confrontarvi con altre persone sensibili alla questione e 4) solo dopo, decidere se andare a modificare un determinato comportamento, o meno. Male che vada, avrete comunque imparato qualcosa (in questo caso, a riconoscere una battuta sessista)!
Iniziare da sé significa quindi iniziare dal modo in cui, tra uomini, ci si guarda e ci si impone vicendevolmente alcuni comportamenti, o ce ne si impedisce altri. Questo significa, per esempio, smettere di fare un certo tipo di battute cameratesche, smettere di ridere a quelle altrui, o addirittura – sbizzarriamoci! – schierarsi in favore della persona che in quel momento sta essendo redarguita, normalizzando o riproducendo il comportamento (vabbè scusa ma che c’è di male? Anch’io …). Preparatevi a silenzi glaciali, occhiatacce e risatine scomode o a diventare il nuovo bersaglio di una raddoppiata censura. Decisamente non facile. Ma, se vi può consolare, col tempo le cose migliorano, basta restare fermi sulle proprie posizioni e continuare a opporsi alle stesse cose (meglio specializzarsi su alcune che cercare di prenderle tutte, nel corto termine si è più efficaci). A forza di fare il disco rotto, dai e dai, i vostri colleghi, parenti o amici inevitabilmente smetteranno di fare certe battute in vostra presenza (o di invitarvi alle cene, ma quello è un rischio da prendere) e, con un po’ di fortuna, qualcuno dei presenti potrebbe anche farsi due domande e decidere di informarsi su questi temi indipendentemente da voi.
Perché così come i gruppi di autocoscienza femminile sono stati all’origine della definizione e decostruzione della “donna” (categoria altrettanto relativa e contestuale quanto “uomo”), identificare e decostruire le mascolinità è necessariamente un processo che richiede un lavoro collettivo. In Italia esistono già molti percorsi ed esperienze che accompagnano gli individui e i gruppi in questo percorso. Dal 2007, l’Associazione “Maschile Plurale” lavora negli ambiti della comunicazione, dell’educazione, della formazione e dell’attivismo, per “promuovere una cultura che superi il patriarcato e una società liberata dal maschilismo e dal sessismo”. Stefano Ciccone, membro dell’associazione, riprende alcuni degli argomenti e approcci elaborati da Maschile Plurale nel suo libro Maschi in Crisi. Oltre la frustrazione e il rancore (disponibile gratuitamente online), nel quale decostruisce la cosiddetta “crisi della mascolinità” e propone di rileggerla come un’opportunità, per gli uomini, di sperimentare nuovi modalità esistenziali e relazionali. Anche il Gruppo Nonviolento di Autocoscienza Maschile (GNAM) ha pubblicato nel 2022 la sua esperienza nel volume Maschilità smascherata. L’esperienza del gruppo GNAM, che è stato recensito da Stefano Ciccone per Comune-info. Le iniziative promosse o affiancate da queste associazioni sono numerose e spaziano da gruppi di autocoscienza maschile (uno dei quali fa per esempio l’oggetto del documentario “Nel cerchio degli uomini” di Paola SanGiovanni) ai Centri per Uomini Autori di Violenza (CUAV). Alcuni di questi, insieme a cooperative sociali, onlus e Centri di Ascolto per Uomini Maltrattanti (CAM) hanno partecipato nel 2014 alla costituzione dell’associazione nazionale Relazioni Libere da Violenza (Relive), che raccoglie gruppi di lavoro ed esperienze volte a contrastare la violenza di genere, a partire da chi la agisce.
A questo punto mi direte: ma come siamo arrivati dallo humor cameratesco alla violenza domestica? Una battuta (anche se un po’ pesante) e un pugno, non sono mica la stessa cosa!
(Continua…..)
LEGGI IL PRIMO ARTICOLO:
Lea Melandri dice
Merita il tempo di lettura.
Laura Tamiro dice
Molto utile, anche per i richiami ad esperienze e pubblicazioni preziose.
Angela Marchini dice
Molto giusto. Grazie
Concetta Cuscusa dice
Grazie tantissimo Comune!
MPaola dice
Molto interessante. E interessanti le citazioni bibliografiche e gli esercizi.
Fulvio Francalanci dice
Veramente interessante! Grazie!
Claudia Melotti dice
Giustissima e utile riflessione, grazie Comune.
Francesca dice
Molte grazie davvero!
ciano dice
grazie di cuore per tutto il lavoro fatto.
Cinzia Dellagiovanna dice
Stasera sperimento gli esercizi!
Grazie
redazione di Comune dice
Aspettiamo curiosi tuoi appunti.