Cosa vuol dire essere un uomo? Come si (de)costruisce la propria mascolinità e quella altrui? Che rapporto c’è tra genere e violenza? Cosa si guadagna, e cosa si perde, a essere uomini diversamente? Quello che segue è un insieme di spunti, divisi in cinque articoli, che possono servire a chiunque – uomo, donna o persona non binaria che sia – pensi sia utile informarsi su come disimparare alcuni gesti e automatismi, giorno per giorno, per rendere questo mondo più vivibile per tutti, ma soprattutto per tutte. Come ogni buon documento pedagogico che si rispetti, spiega l’antropologa Kyra Grieco, il testo suggerisce anche qualche semplice esercizio da realizzare nelle interazioni della vita di ogni giorno, quella che resta sempre troppo sottovalutata quando si ragiona dei grandi cambiamenti di cui il mondo ha bisogno. Un’introduzione, il primo articolo (Cosa vuol dire essere un uomo?) e il primo esercizio
(qui le parti successive dell’articolo: II, III, IV e V)
Da qualche anno ormai, sono sempre più restia a fare pedagogia. Come tante prima di me, sono giunta a quel momento in cui – per stanchezza o per età, per disillusione o per violenza – mi sono stancata di combattere contro i mulini a vento. Dopo anni passati a fare la femminista di turno in vari dei miei gruppi amicali nonché nelle mie relazioni amorose, professionali e familiari, mi arrendo all’evidenza: il mondo non assomiglia e non assomiglierà a breve, neanche da lontano, a quello che vorrei per me e per altre donne. Perché possa assomigliarvi un giorno, la pedagogia non basta.
Non riuscirò mai a spiegare come sarebbe quel mondo a chi non vuole ascoltare. Smetto quindi di sfinirmi a cercare di convincere chi non me l’ha chiesto, serbo il fiato perché la strada è ancora lunga e io vorrei arrivare in fondo senza arrendermi o amareggiarmi del tutto. Smetto quindi di sprecare energie facendo pedagogia a destra e a manca in tutte le mie relazioni, nonché in quelle altrui: “Spiegaglielo tu…!”. Cerco di circondarmi di persone che di me si prendono cura, e di prenderne cura a mia volta, per fare corpo insieme contro quel mondo che forse non cambieremo, ma che non vogliamo che ci annulli.
Oltre a questo, quando mi viene richiesto di fare pedagogia, valuto bene prima di fare quel lavoro (eh già, perché di lavoro si tratta). Invito prima di tutto le persone a informarsi da sole. Le risorse esistono, perché devo farvi un riassunto? Prendete un libro e leggetelo. Prendete un podcast e ascoltatelo. Guardate un film, fate una ricerca internet. A me nessuno ha fatto un corso intensivo di femminismo o di teoria di genere, e vi assicuro che nascere con le ovaie non basta. Sembra facile, detta così, ma questo richiede un costante sforzo per combattere contro i miei automatismi. Per me che sono stata educata in quanto femmina a essere gentile, disponibile, a chiedere scusa se disturbavo, decidere di non dare spiegazioni e prendere una postura più intransigente, nonché rivendicativa, è tutt’altro che facile. Per me che ho sempre creduto – e che sono ancora profondamente convinta – che con abbastanza disponibilità, impegno e costanza, si possa arrivare a capire e a fare capire qualsiasi cosa, rinunciare a spiegare – e a spiegarmi – è una sfida. A maggior ragione quando di questi valori e di queste pratiche (del capire e far capire, tramite l’insegnamento) ne ho fatto un mestiere.
Mi esercito, quindi, ogni giorno un po’, a disimparare alcuni aspetti della mia educazione che penso mi impediscano di avvicinarmi a quel mondo che vorrei. Iniziando dalle mie relazioni professionali, amicali, familiari. L’altro giorno, un amico mi ha scritto per chiedermi cosa facevo, quella sera. Gli ho risposto che andavo a una riunione di organizzazione per il 25 Novembre, in vista della manifestazione notturna senza uomini cis. Mi ha chiesto cosa succedeva il 25 Novembre e cosa voleva dire esattamente “senza uomini cis”. Invece di rispondere, ho fatto come mia madre quando mio padre apre il frigo e chiede dov’è lo yogurt. Gli ho detto “Cerca!” (Con uno smiley per smorzare). Lui mi ha risposto poco dopo “la giornata internazionale della lotta contro la violenza di genere”, e che aveva trovato la definizione di uomini cis su chat gpt, aggiungendo però che ero “cattiva…! ” (senza smiley). Educata ad essere prima di tutto una persona (leggere : bambina,ragazza, donna) gentile, io che non volevo fare pedagogia mi sono comunque ritrovata a spiegare perché non volevo fare pedagogia. Esperimento fallito, se non fosse che da allora, quando non rispondo immediatamente, l’amico ridendo mi dice “ho capito, cerco”.
Nonostante abbia sempre meno voglia di fare pedagogia nelle mie relazioni personali, nelle quali divento anche più selettiva, i dibattiti intorno al femminicidio di Giulia Cecchettin mi hanno risvegliato un bisogno profondo di condividere, di nuovo e più largamente, quel poco che ho imparato dalle mie compagne, sorelle e letture. Poco, ancora troppo poco. Ma abbastanza da mettere nero su bianco alcune risorse che possano servire a quegli uomini, come il mio amico, che si decidono a cercare.
Le parole della sorella di Giulia, Elena, hanno infatti aperto uno spiraglio di luce, nel buio dei femminicidi italiani, uno spiraglio che lascia finalmente intravedere l’opportunità politica di parlare degli uomini. E che gli uomini parlino di genere e di violenza, tra loro. Perché ancora troppo spesso quando si parla di genere si pensa unicamente alle donne o ad altre minoranze (politiche, non numeriche), come se il genere riguardasse solo una metà dell’umanità. Così come il termine “razza” non fa mai pensare ai bianchi. La bianchezza infatti è la caratteristica invisibile di un gruppo dominante che si immagina e si rappresenta come neutro, rispetto alla quale i non-bianchi sono definiti come Altri (Ribeiro Corossacz, 2015). Idem per il genere maschile, concepito come genere neutro sul quale si definisce tutto ciò che maschile non è, o non è abbastanza.
Ma cosa vuol dire essere un uomo? Come si (de)costruisce la propria mascolinità e quella altrui? Che rapporto c’è tra genere e violenza? Cosa si guadagna – e cosa si perde – a essere uomini diversamente? Quello che segue sono alcuni spunti che spero possano servire a qualcuno – uomo, donna o persona non binaria che sia – per informarsi e informare su come disimparare alcuni piccoli gesti e automatismi, giorno per giorno, potrebbero rendere questo mondo più vivibile per tutti, ma soprattutto vivibile per tutte. Come ogni buon documento pedagogico che si rispetti, nel corso del testo troverete dei semplici esercizi da realizzare a casa, a lavoro, durante un’uscita, in tutte quelle interazioni o situazioni sociali quotidiane in cui ognuno di noi “agisce” la propria femminilità o mascolinità (a prescindere dal proprio sesso).
Cosa vuol dire essere un uomo?
La categoria uomo non ha nessun senso assoluto, la mascolinità o maschilità (termini che in questo testo userò in maniera intercambiabile) infatti non esiste in quanto tale. A seconda del periodo storico, del contesto sociale e culturale (nonché religioso, etnico, politico, etc.), questa categoria falsamente universale – che peraltro per lungo tempo é stata usata per indicare l’intera umanità – ha assunto le caratteristiche più diverse. Forza, delicatezza, razionalità, impulsività, coraggio, prudenza, appetito sessuale o disinteresse per i piaceri della carne: tutte queste qualità hanno contribuito, in epoche storiche e contesti diversi, a disegnare i contorni della mascolinità dominante o egemonica (Connell 1996).
Contrariamente all’uso che ne viene sempre più spesso fatto nel linguaggio comune, influenzato dalla psicologia e dalla biologia, il genere non è infatti un attributo individuale (cioè qualcosa che si ha o non si ha), ma una relazione (come quelle etniche o di classe, per intenderci) tra gruppi di individui, all’interno di un contesto sociale definito. In altre parole, si é soltanto uomini nella relazione con qualcun altro. Nel caso della mascolinità, questo qualcun altro – contrariamente a quello che si pensa – non sono solo le donne, ma anche gli altri uomini. Infatti, nonostante la maschilità si definisca in contrapposizione alla femminilità, la sua costruzione sociale e la sua interiorizzazione come “identità” si gioca innanzitutto nell’interazione tra uomini.
Il passaggio all’età adulta – da bambini o ragazzi a uomini, per intenderci – è strutturato da una serie di pratiche sociali, sia ordinarie che eccezionali, che plasmano le mascolinità delle nuove generazioni in (relativa) continuità con quelle delle generazioni precedenti. Questo accade sia all’interno del nucleo familiare che al suo esterno, attraverso l’instaurarsi di forme di socialità maschili: dai giochi allo sport, e dagli amici ai colleghi, è principalmente negli spazi-tempi condivisi tra maschi che ha luogo la (ri)definizione de l’interiorizzazione di cosa vuol dire “essere un uomo”. L’elemento di continuità con la generazione precedente è sempre parziale, perché il mondo cambia e i figli non sono mai uguali ai padri. Tra i boomer e i millennial, per esempio, abbiamo assistito a un’importante ridefinizione del ruolo genitoriale maschile, cioè della paternità (Miniati 2018). Viviamo oggi in un’era in cui prendersi cura dei propri figli, portarli al parco, tenerli in braccio e giocare con loro è socialmente valorizzato e valorizzante per gli uomini. Questo non significa necessariamente che il lavoro domestico sia stato effettivamente distribuito – in molti casi, le attività più ripetitive e meno piacevoli (fare la lista della spesa o le lavatrici, pulire, fare lo stock di pannolini o pappette per la settimana, prendere appuntamento dal medico per il vaccino, etc.) continuano a essere svolte dalle donne (Ghighi 2016). Queste attività generalmente poco piacevoli e visibili (proprio perché routinarie) occupano le donne in media 3 ore al giorno, contro i 45 minuti che vi dedicano gli uomini (ISTAT 2019). Ne consegue un importante carico mentale che la disegnatrice Emma ha sapientemente illustrato nel fumetto ”Bastava chiedere!” (2020). Continua inoltre a persistere, negli occhi di chi guarda (e di scrive, perché nessuno ne è esente) un doppio standard, come denota l’immancabile “che bravo” detto o pensato di fronte a un padre che nutre, cambia o porta a spasso la sua prole, tutte attività che non destano nessuna ammirazione né commento quando a svolgerle è una donna. Alcune cose cambiano, quindi, mentre altre no. Non possiamo che rallegrarci delle prime e concentrare i nostri sforzi sulle seconde.
Esercizio [1] per i papà: provate per una settimana a svolgere tutte le attività che di solito espleta la vostra compagna. Per questo, può essere utile richiedere la sua collaborazione per stilare una lista di attività che lei svolge giornalmente e di cui probabilmente avete una coscienza parziale. Questo può significare portare i bambini a scuola e passarli a prendere dopo lavoro, fare la spesa, coordinare con le altre persone implicate nelle vita domestica (nonn*, babysitter, persona delle pulizie), riordinate i giochi e pulire la cucina prima di andare a letto, lavare il bagno nel fine settimana, interagire nella chat di classe, portare i figli al compleanno dell’amichett*, prendere un regalino per lui o lei, etc. Insomma, provate a sostituirvi in tutto e per tutto all’altra persona, senza chiederle di dirvi cosa fare, né come farlo. Nella migliore delle ipotesi, vi renderete conto di essere assolutamente intercambiabili. Nella peggiore, vi accorgerete della quantità di attività ripetitive che l’altra persona svolge al quotidiano, potrete rendergliene atto e riflettere insieme a una redistribuzione del lavoro domestico.
Nonostante gli importanti cambiamenti da una generazione all’altra, quello che rimane costante è il legame profondo e indissolubile tra la socialità maschile e il senso che l’essere uomo assume, in un contesto sociale particolare. La mascolinità non è altro che un’identità collettiva derivata dall’appartenenza a un gruppo di riferimento, di cui gli uomini sono allo stesso tempo i soggetti (la interiorizzano), gli attori (la mettono in atto), i maestri (la trasmettono) e gli sbirri (la fanno rispettare). Le relazioni di genere hanno infatti una forte componente normativa: dettano cioè quello che si può o non si può fare, in quanto donna o in quanto uomo, per essere riconosciuti in quanto tali. Questa componente normativa si manifesta in particolare attraverso i richiami all’ordine, in caso di “devianza” dalle norme o modelli condivisi. Nei gruppi di uomini eterosessuali, l’esempio più frequente é quello dello humor cameratesco che consiste nel femminilizzare gli individui (guarda che brava, non fare la fichetta, sei peggio di una donna, etc.) e/o nel suggerire la loro omosessualità (avrai mica cambiato sponda? Dai dammi un bacino! etc.). Queste pratiche sono estremamente normalizzate nella maggior parte degli ambienti, anche tra persone che non si considerano né sessiste né omofobe perché stanno “solo scherzando”. Oltre a costituire delle forme di sessismo e omofobia ordinaria (vedi Graziella Priulla, Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo e Brigitte Gresy Breve trattato sul sessismo ordinario), questo tipo di battute hanno una chiara funzione normativa. Permettono infatti di stigmatizzare qualsiasi comportamento non si conformi al modello di mascolinità (implicitamente ma rigorosamente eterosessuale) condivisa dal gruppo, associandolo e associando l’individuo che lo ha agito con altri gruppi – in questo esempio, le donne o gli uomini omosessuali, ma si può trattare anche di altre minoranze – percepiti come socialmente inferiori. Questo permette nel contempo di rafforzare la norma (quello che un “vero” uomo deve e non deve fare) e di riaffermare le norme soggiacenti all’identità collettiva di quel gruppo, in questo caso la mascolinità egemonica. Questo tipo di richiami all’ordine, che in alcuni casi possono assumere anche forme fisicamente o simbolicamente molto violente, si applicano alle grandi così come alle piccole libertà prese rispetto alle pratiche condivise. Prendiamo ad esempio il consumo di alimenti o bevande: la carne rossa e l’abbondante assunzione di alcool sono in molti contesti associati alla mascolinità, ragion per cui un uomo vegetariano o astemio potrà vedere sminuita la sua virilità, mentre di una donna si potrà dire – con ammirazione – che “beve/mangia come un uomo” perché le piacciono il vino e la bistecca.
La buona notizia è che, se l’uomo non esiste in quanto tale al di fuori di un gruppo sociale specifico, se la mascolinità non esiste in assoluto ma unicamente come relazione tra individui all’interno di un collettivo che dà senso a questa parola, allora tutto è possibile. Perché quello stesso collettivo ha il potere di ridefinire quella parola, di modificare le pratiche alle quali é associata, di inventare nuovi modi di essere uomo, nella relazione con altri uomini prima ancora che in quella con le donne. Questo, a patto che voglia farlo.
Rosalinda Vitali dice
Straordinaria
Lea Melandri dice
Molto interessante.
Barbara Bonomi Romagnoli dice
Ottimo.
Rosa Tomarchio dice
Grazie, davvero interessante anche tra i banchi.
Rosella De Leonibus dice
Grazie, prezioso!
Simona Ricci dice
Bello bello
Alessandra Pisu dice
Un contributo davvero molto valido, grazie. Attendiamo gli altri tre articoli, con relativi esercizi!
Paola dice
L’ ho letto con interesse, attendo volentieri il seguito. Grazie
Tonino Cafeo dice
Grazie.
Veronica Grechi dice
Grazie Kyra Grieco per questo bellissimo articolo, aspettiamo il seguito ?
Gianni dice
Con rammarico pare che lo leggano di più le donne! Ma spero di sbagliarmi.
Grazie per le riflessioni interessanti.
Marco Frigerio dice
Grazie.
Stefano Casulli dice
Articolo estremamente interessante e ricco di spunti.
antonio dice
ammetto, difficile, ma sono d’accordo, si può
Corrado dice
Grazie. Diversi spunti e punti di vista che sembrano semplici ma richiedono uno sforzo per non perderli.
Ylenia dice
Buono scritto, ma manca un’elegante fondamentale se vogliamo realmente almeno provare ad abbattere la cultura patriarcale nella quale tutti noi siamo nati ed è la relazione stretta il filo rosso fra capitalismo e patriarcato, quanto il primo abbia assolutamente bisogno del secondo per camminare sulle sue gambe. E ancora, la classe questa sconosciuta, se la violenza di genere è sistemica non tutte la subiscono con la medesima intensità; mi spiego, un conto è la donna borghese o comunque appartenente ad una classe privilegiata che ha tutti gli strumenti per andarsene di casa e una sua indipendenza economica, un altro è la donna che appartiene ad una classe meno abbiente, cioè proletaria che se si vuole difendere da un partner violenti è costretta o a nascondersi in qualche casa rifugio o continuare a subire. La classe non è una categoria fra le altre ma una relazione sociale di sfruttamento, e se realmente si vuole parlare di machismo, sessismo, patriarcato non può essere dimenticata.
Maria Cleary dice
Grazie, riconosco e accolgo la sfida di rinunciare a spiegare
Nicoletta Guarducci dice
Grazie, davvero molto interessante.
Alisa Del Re dice
Interessante. Aspetto gli altri articoli
Fulvio Francalanci dice
Grazie! Un ottimo spunto per ricercare
Raffaella Benetti dice
Che testo stupendo.
Grazie!
silvia dice
Chiarissima, diretta e straordinaria.
Nico dice
avendo cresciuto 2 figli all’estero dopo il divorzio e la partenza della madre in un’altro paese devo dire che mi riconosco fino a un certo punto. Sí, talvolta scherzando ho usato linguaggi maschili, e, anche se cercavo di evidenziarne l’inappropriatezza, riconosco che i contentuti hanno sfumature importanti e ti ringrazio per averle evidenziate. Sulla gestione del quotidiano invece mi sono organizzato a mio modo, non credo di aver speso 3 ore al giorno (se si esclude il tempo per portarli e prenderli da scuola, cucinare e pulire la casa). alla fine mi viene da pensare che non si puó sostituire l’altro genitore, si possono solo trovare strategie diverse per cercare di fare il meglio possibile. Per fortuna i miei figli sono ancora vivi.
Gian Franco Zavoli dice
Purtroppo la vita di tutti gli esseri viventi è fatta per uccidere altri esseri viventi, siano essi vegetali che animali. Chi non uccide non può sopravvivere. L’essere umano deve uccidere come tutti gli esseri viventi, perchè malgrado i progressi della scienza, non è ancora capace di creare il cibo che non provenga da cellule vegetali ed animali e questo ha creato in noi l’istinto di uccidere che porta alle guerre. Andate a visitare i macelli, dove si uccide dalla mattina alla sera, su scala industriale. Chi ha creato la vita così ? Per fortuna che Dio non esiste, perchè altrimenti sarebbe un Dio boia. Bisogna assolutamente poter creare il cibo senza uccidere, per far scomparire questo istinto che porta agli omicidi ed alle guerre. Fin quando siamo così, saremo sempre degli assassini e non dobbiamo meravigliarsi degli omicidi e delle guerre. La cosa la più importante da fare è di creare il cibo che non provenga da cellule viventi. Ce la faremo ??? Solo allora potremo far scomparire l’istinto di uccidere che è in ognuno di noi.