La storia mostra che dal fondo dell’oppressione sorgono sempre movimenti sociali. Per questo nel caos creativo diffuso ovunque ciascuno di noi deve assumere ogni giorno la responsabilità del proprio e altrui destino
No lo que pudo ser: es lo que fue. Y lo que fue està muerto.
OCTAVIO PAZ, Leccion de cosas, 1995
di Manuel Castells
In tempi di incertezza, quando non si sa cosa dire, si suole citare Gramsci: in particolare la sua celebre affermazione secondo cui il vecchio ordine non esiste più e il nuovo ancora non è nato – il che presuppone la necessità di un nuovo ordine dopo la crisi, ma non contempla l’ipotesi del caos. Si suppone che questo nuovo ordine sorgerà da una nuova politica in grado di rimpiazzare l’obsoleta democrazia liberale, che manifestamente cade a pezzi in tutto il mondo perché ha cessato di esistere nell’unico luogo in cui può persistere: le menti dei cittadini.
La crisi del vecchio ordine politico sta assumendo molteplici forme: la sovversione delle istituzioni democratiche ad opera di caudillos narcisisti che raggiungono le leve del potere a partire dall’astio della gente per il marciume istituzionale e l’ingiustizia sociale, la manipolazione mediatica delle speranze frustrate da parte di incantatori di serpenti, il rinnovamento apparente e transitorio della rappresentanza politica attraverso la cooptazione dei progetti di cambiamento, il consolidamento al potere di mafie e teocrazie fondamentaliste che approfittano delle strategie geopolitiche dei poteri mondiali, il ritorno puro e semplice alla brutalità sfrenata dello Stato in buona parte del mondo – dalla Russia alla Cina, dall’Africa neocoloniale ai neofascismi dell’Europa dell’Est, al riaffacciarsi delle dittature in America Latina. E infine, il trincerarsi nel cinismo politico, camuffato da possibilismo realista, dei resti della politica partitica come forma di rappresentanza. Una lenta agonia di ciò che è stato questo ordine politico.
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Di fatto, la rottura della relazione istituzionale tra governanti e governati crea una situazione caotica che è particolarmente problematica nel contesto dell’evoluzione più ampia della nostra esistenza come specie sul pianeta blu. Nel momento in cui si mette in questione l’abitabilità del pianeta per gli umani in conseguenza dell’azione degli umani stessi e della nostra incapacità di applicare le misure correttive della cui necessità siamo coscienti. Nel momento in cui il nostro straordinario sviluppo tecnologico entra in contraddizione con il nostro sottosviluppo politico ed etico, ponendo le nostre vita nelle mani delle nostre macchine; nel momento in cui le condizioni ecologiche nelle megalopoli che accolgono una porzione crescente della popolazione umana possono provocare – e di fatto provocano – pandemie di tutti i tipi, che creano il mercato per le multinazionali farmaceutiche – questo potere malevolo che ha rapito e deformato la scienza della vita per suo beneficio esclusivo. Un pianeta in cui la minaccia dell’olocausto nucleare è ancora attuale per la follia di governanti divinizzati non sottoposti a controllo psichiatrico. E nel momento in cui la capacità tecnologica delle nuove forme di guerra, compresa la cyberguerra, prepara conflitti possibilmente più atroci di quelli vissuti nel XX° secolo. Senza che le istituzioni internazionali, dipendenti dagli stati – e pertanto dalla miopia di vedute, dalla corruzione e dalla mancanza di scrupoli di chi li governa – siano capaci di attuare strategie di sopravvivenza per il bene comune.
La rottura della mistificazione ideologica di una pseudorappresentatività istituzionale ha il vantaggio della chiarezza della coscienza del tipo di mondo in cui viviamo. Ma ci precipita nell’oscurità dell’incapacità di decidere ed agire, perché non abbiamo strumenti affidabili per questo, soprattutto nell’ambito globale dove incombono le minacce per la vita.
L’esperienza storica mostra che dal fondo dell’oppressione e della disperazione sorgono sempre movimenti sociali che, in diverse forme, cambiano le menti e attraverso esse le istituzioni: come è successo con il movimento femminista, con la coscienza ecologista, con i diritti umani. Ma sappiamo pure che finora i cambiamenti profondi hanno richiesto un cambiamento istituzionale che parte dalla trasformazione delle menti. Ed è a questo livello propriamente politico istituzionale che il caos continua ad imperare. Di qui la speranza, covata da milioni di persone, di una politica nuova. Ma quali sono le forme possibili di questa nuova politica? Non siamo di fronte al vecchio schema della sinistra, che si aspetta la soluzione dall’apparizione di un nuovo partito, l’autentico trasformatore che in fine sia la palanca per la salvezza umana. E se il partito in questione non esistesse? Se non potessimo ricorrere a una forza esterna a ciò che siamo e che viviamo, al di là della nostra quotidianità? Qual è questo nuovo ordine che necessariamente deve esistere e rimpiazzare quello che muore? O siamo in una situazione storicamente nuova, in cui noi, ciascuno di noi, deve assumere la responsabilità della nostra vita, delle vite dei nostri figli e delle vite della nostra umanità, senza intermediari, nella pratica di ogni giorno, nella multidimensionalità della nostra esistenza? Ah, la vecchia utopia autogestionaria. Ma perché no? E soprattutto: qual’è l’alternativa? Dove sono queste nuove istituzioni degne della fiducia della nostra rappresentanza?
Ho auscultato molte società negli ultimi due decenni e non rilevo segnali di nuova vita democratica al di là delle apparenze. Esistono progetti embrionali per cui provo rispetto e simpatia, soprattutto perché mi emoziona la sincerità e la generosità di tanta gente, ma non sono istituzioni stabili, non sono protopartiti o pre-stati. Sono umani che praticano da umani, utilizzando la capacità di autocomunicazione, deliberazione e co-decisione di cui oggi disponiamo nella “Galassia Internet”; traducendo in pratica l’enorme patrimonio di informazione e conoscenza di cui disponiamo per gestire i nostri problemi; per affrontare le sfide che vanno sorgendo ogni istante, per ricostruire dal basso verso l’alto il tessuto delle nostre vite, nella sfera personale e in quella sociale. Utopico? Quello che è utopico è pensare che il potere distruttivo delle attuali istituzioni possa cessare di riprodursi in nuove istituzioni create a partire dalla stessa matrice. E siccome la distruzione di uno Stato per crearne un altro porta necessariamente al Terrore – come abbiamo imparato nel XX° secolo – potremmo sperimentare e avere la pazienza storica di osservare come gli embrioni di libertà impiantati nelle nostre menti attraverso la pratica crescono e si trasformano. Non necessariamente per costruire un nuovo ordine, ma magari per configurare un caos creativo in cui apprendere a fluire con la vita, invece di intrappolarla nella burocrazia e programmarla negli algoritmi. Data la nostra esperienza storica, forse apprendere a vivere nel caos non è tanto nocivo quanto adeguarsi alla disciplina di un ordine.
Il testo di Castells è un estratto dal volume intitolato Ruptura. La crisis de la democracia liberal (Alianza Editorial 2017).
Traduzione per Comune di Stefano Caffari.
*Sociologo spagnolo, docente presso l’università della California, è autore di molti libri, tradotti in più lingue. È noto per la trilogia “L’età dell’informazione” (La nascita della società in rete; Il potere delle identità; Volgere di millennio).
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