Ammesso che ce ne fosse ancora bisogno, noi ne dubitiamo da tempo, il massacro di Juliaca, drammatico simbolo della ferocia della repressione contro decine di migliaia di comuneros entrati pacificamente nella città peruviana, mostra in maniera eclatante come non sia da tempo possibile distinguere la criminalità comune dalle istituzioni “democratiche” di uno Stato dominato dall’estrattivismo. Quel che accade da diverse settimane in Perù – una presidente eletta con un colpo di mano legittimato da un parlamento corrotto fino al midollo e pronto perfino a rivendicare le stragi in nome della legalità, della tutela dell’economia nazionale e dell’ordine pubblico – non è ormai certo un caso isolato. Le bande armate, legalizzate e non, che governano i territori per conto dell’industria mineraria, di quella forestale, dei laboratori di cocaina o di altre espressioni perfettamente legali di un’economia nazionale che non si può che definire mafiosa, controllano tutto. A cominciare dai media. Sono loro lo Stato e non sono certo disposte a trattare con la protesta dei popoli che opprimono. Nuove elezioni, in Perù così come in molti altri Paesi, non farebbero che garantire la continuità di governi sempre più autoritari e criminali alle prese con il rebus dell’ingovernabilità e il caos sistemico. Che fare? Naturalmente, non ci sono soluzioni pronte, né modelli replicabili. I cambiamenti in profondità di cui c’è un bisogno sempre più disperato non avvengono in un mese né con un’insurrezione o la conquista dei luoghi simbolici del potere. Raúl Zibechi racconta questa realtà sudamericana sulle nostre pagine da anni rilevando quanti danni siano stati prodotti dalla riproposizione di vie elettorali “democratiche”, consunte e svuotate di senso, capaci di generare solo farsesche e tremende illusioni di cambiamento. Anche in questo caso, però, Raúl segnala il solo, quantomai incerto, cammino aperto in quei territori, quasi sempre a forte maggioranza di popolazione indigena. Molti dei popoli amazzonici che si stanno mobilitando contro il governo, così come quelli di altre regioni del Perù, si stanno esprimendo in modo netto per la creazione di governi territoriali autonomi. Lo avevano già fatto i Wampis e gli Awajún. Ritengono sia quello sia il solo modo per difendere la vita e fermare quel modello di morte che nel continente latinoamericano, in misura maggiore che altrove, viene chiamato estrattivismo
«Nelle Ande i massacri si susseguono
con il ritmo delle stagioni.
Nel mondo ce ne sono quattro; nelle Ande cinque:
primavera, estate, autunno, inverno e massacro“.
Manuel Scorza
Il 4 di gennaio è iniziato uno sciopero regionale nel sud del Perù, era stato interrotto a dicembre per le vacanze di Natale. Più di 60 i blocchi stradali (soprattutto a Cusco, Apurímac, Ayacucho, Huancavelica, Puno) che chiedono elezioni nel 2023 e le dimissioni del Congresso, che ha solo l’8% di sostegno nella popolazione.
Il 9 di gennaio decine di migliaia di comuneros aymara sono entrati nella città di Juliaca, la più grande del dipartimento di Puno, in una manifestazione pacifica che è stata repressa dagli elicotteri con gas lacrimogeni, e da terra dalla polizia che sparava proiettili che poi esplodono nei corpi, come è stato riferito e come hanno denunciato i medici dell’ospedale locale (https://bit.ly/3GBlOw2 ). Inoltre, la polizia ha sparato gas contro gli infermieri e il personale sanitario che cercava di soccorrere i feriti, ha picchiato medici e vigili del fuoco. Secondo alcuni rapporti, sono stati anche rubati medicinali.
Il risultato è stato di 17 morti, per un totale di 48 assassinati da quando la ex vicepresidente di Pedro Castillo, (destituito mentre tentava di sciogliere il Parlamentto, ndt) Dina Boluarte, ha prestato giuramento in una seduta straordinaria del Parlamento, assumendo la guida della Repubblica. Quasi tutte le uccisioni sono avvenute in tre ore, tra le 15 e le 18, secondo resoconti dettagliati del quotidiano La República. I morti si aggiungono ai circa 300 feriti, tra i quali bambini e giornalisti, soprattutto nelle regioni dei popoli quechua e aymara di Apurímac, Ayacucho, Puno e Arequipa.
Sono crimini della democrazia peruviana, di una casta politica che ha sempre governato il Paese di uno Stato razzista “la cui decomposizione è cominciata con il Fujimorismo, proseguita con gli altri governi, partiti e imprenditori corrotti da Odebrecht, e che oggi assassina per continuare a ripartirsi il potere”, come si legge in un comunicato di alcune organizzazioni sociali.
Sono crimini avallati da un parlamento corrotto fino al midollo. Prova ne è che la sessione plenaria del Congresso ha protetto, lo stesso giorno, il parlamentare Freddy Díaz indagato dal Pubblico Ministero per lo stupro di una impiegata del Congresso nel suo stesso ufficio.
Alcune ore più tardi, lo stesso Congresso ha dato la fiducia a un governo che deve farsi carico di più di 40 morti mentre la Procura sta iniziando a indagare sulla presidente, il primo ministro e i ministri dell’Interno e della Difesa, per “reati di genocidio, omicidio qualificato e lesioni gravi commesse durante le manifestazioni nei mesi di dicembre 2022 e gennaio 2023 nelle regioni di Apurímac, La Libertad, Puno, Junín, Arequipa e Ayacucho.
Quello che si chiama democrazia, nelle Ande sono Stati totalitari dove possono governare solo gli eredi dei proprietari terrieri, oggi imprenditori mafiosi che dominano i media e le economie illegali. Ecco perché in Perù non è necessario un colpo di stato militare, perché i media (in particolare la televisione) sono completamente controllati, non riportano i massacri e si riferiscono ai manifestanti come “terroristi”.
In queste condizioni, nuove elezioni non faranno che garantire la continuità di governi autoritari e corrotti, come accade dagli anni ’80, situazione oggi però aggravata dall’attuale predominio delle economie mafiose.
Se fosse vero, come ha appena sottolineato Noam Chomsky, che “un mondo migliore è alla nostra portata” e che “Un altro mondo è possibile”, dovremmo riflettere su quali strade intraprendere per avvicinarci a tale traguardo.
I popoli amazzonici raggruppati nell’Associazione interetnica per lo sviluppo della selva peruviana si stanno mobilitando contro il governo, così come gli altri popoli del Perù. Si esprimono però per la creazione di governi territoriali autonomi (come hanno già fatto i Wampis e gli Awajún), perché ritengono che quello sia l’unico modo per fermare questo modello di morte che chiamiamo estrattivismo. Un modello sostenuto da Stati criminali con vernice democratica e bande armate, legali e illegali, che governano i territori dell’industria mineraria, dell’estrazione dell’oro, del disboscamento e dei laboratori di cocaina.
Fonte e versione originale in Desinformémonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Giovanna dice
Credo di essere persona informata di quel che accade in questo mondo ma mi vergogno di aver appreso solo ora, grazie a voi, di questa grave realtà che contribuisce a farmi pensare che stiamo andando verso la catastrofe di questa umanità irrimediabilmente marcia.