Nella prima linea di difesa, a Puerto Resistencia, quartiere periferico della città colombiana di Cali, c’era un ragazzo muto, che purtroppo per comunicare non conosce nemmeno la lingua dei segni. Eppure, quel ragazzo viene trattato alla pari di tutti gli altri, tanto che – in due delle assemblee che si sono tenute – è stato invitato a “parlare”. Sì, gli hanno passato il microfono in modo che potesse dire “quello che poteva e doveva dire “. Non era certo un modo per prenderlo in giro ma per affermare che a Puerto Resistencia tutti possono parlare. Tutti, anche chi, letteralmente, non ha voce. Allo stesso modo, poi, in quello spazio, tutti devono essere ascoltati”. Possiamo guardare la vita, il mondo, con gli occhi di quel ragazzo muto che partecipa alla vita delle barricate di Puerto Resistencia? Possiamo sentire cosa prova quel ragazzo quando gli viene consegnato un microfono e decine di persone in assemblea ascoltano con attenzione, senza il minimo tono di scherno, le sue sillabe sconnesse e incomprensibili? Possiamo noi, militanti di sinistra, immaginare che un giovane muto possa essere un soggetto politico? Se riusciamo a farlo, allora sì, possiamo cambiare il mondo. Possiamo costruire un mondo nuovo. Sono parole tratte da un testo che ci ha inviato Raúl Zibechi. Lo ha letto, collegato da Montevideo, questa sera, 28 maggio, nella presentazione del suo ultimo libro “Tempo di collasso” (esce in questi giorni per Nova Delphi) che si è tenuta a Roma, promossa da Vivèro, nel quartiere Pigneto

Grazie a tutte e a tutti. A Nova Delphi, a Yaku, a Vivero e Comune del Crocicchio, a Enoise, TerraTerra….Grazie, in particolare, alle persone del quartiere Pigneto, quelle che noi chiamiamo “vecinos”, una parola che forse sarebbe sbagliato tradurre in “cittadini” o “abitanti”. “Vecinos” viene da “vicino”, e voi capirete di certo la differenza.
Volevo dirvi che oggi ho ricevuto una lettera da uno studente che frequenta i corsi in cui insegno in Colombia. Vive a Puerto Resistencia, un quartiere periferico della città colombiana di Cali, quella in cui, da un mese a questa parte, si sta combattendo molto. Vorrei leggervene qualche riga:
“Sulla lotta come mezzo di creazione di identità, vorrei condividere un aneddoto che mi sembra bellissimo. Nella prima linea di difesa, a Puerto Resistencia, c’era un ragazzo muto, che purtroppo per comunicare non conosce nemmeno la lingua dei segni. Eppure, quel ragazzo viene trattato alla pari di tutti gli altri, tanto che – in due delle assemblee che si sono tenute – è stato invitato a “parlare”. Sì, gli hanno passato il microfono in modo che potesse dire “quello che poteva e doveva dire “. Non era certo un modo per prenderlo in giro ma per affermare che a Puerto Resistencia tutti possono parlare. Tutti, anche chi, letteralmente, non ha voce. Allo stesso modo, poi, in quello spazio, tutti devono essere ascoltati”.
Nel modo di guardare il mondo, a me piace partire dai piccoli fatti della vita quotidiana, quelli che normalmente non compaiono nei media mainstream, ma sono il cibo spirituale della gente comune e il cemento della vita comunitaria.
È così che mi propongo di comporre un quadro dei settori popolari. Un quadro d’insieme che nasce dall’accostamento di ritratti di quella vita quotidiana, una sorta di collage, un grande arazzo di origine molto varia.
Il mio obiettivo è di comprendere e mostrare l’eterogeneità della vita reale, la vita che rifiuta l’omogeneizzazione che serve al sistema capitalista. Quel sistema ha bisogno di renderci tutti consumatori degli stessi prodotti, di farci vivere tutti negli stessi spazi uguali. Lo shopping schiaccia le persone e le rende sudditi della famiglia reale delle marche dei prodotti di consumo.
Il capitalismo, in generale, è inteso come un modo di produzione, un’economia che produce beni. Questa, tuttavia, è una visione dall’alto verso il basso, ha certamente la sua importanza, ma in essa le persone non sono centrali. Se invece guardiamo dal basso, ciò che vediamo è un’enorme diversità che viene schiacciata – in ogni minuto e in ogni parte del mondo – da un sistema che ha bisogno di omogeneità, di distruggere la diversità della vita.

Quasi certamente senza saperlo, il ragazzo che mi ha scritto da Cali raccontandomi l’aneddoto del muto che occupava un posto centrale nell’assemblea, stava raccontando una storia simile a quella dei pueblos indigeni, e in particolare a quella delle storie zapatiste.
A guardarli da vicino, gli zapatisti non iniziano mai parlando di economia, borsa, multinazionali, cominciano dai piccoli avvenimenti della vita quotidiana, come nelle storie del vecchio Antonio o in quelle delle ragazze più giovani, come Difesa zapatista. Non è una pedagogia speciale, è il modo in cui le persone comprendono la vita dalle piccole cose che ci influenzano.
Qualcuno un giorno mi ha detto che gli indigeni sono come i bambini e le bambine. Lo ha detto in modo paternalista e quasi sprezzante, ma è vero. Non è che sono ingenui. No, niente del genere. È che guardano la realtà da un luogo, da un punto di vista, che non è contaminato dai volti seri degli adulti, dal capitalismo, dal patriarcato, dal colonialismo. Mi dicono che in Italia saranno per primi le ragazze e i ragazzi NO TAV della Val di Susa a ricevere gli zapatisti. Questo mi sembra meraviglioso, perché sarà la vita che li accoglierà. Saranno le vite che ancora sognano, desiderano, sentono e, naturalmente, piangono e sorridono con piena naturalezza.

Possiamo guardare la vita, il mondo, con gli occhi di quel ragazzo muto che partecipa alla vita delle barricate di Puerto Resistencia?
Possiamo sentire cosa prova quel ragazzo quando gli viene consegnato un microfono e decine di persone in assemblea ascoltano con attenzione, senza il minimo tono di scherno, le sue sillabe sconnesse e incomprensibili?
Possiamo noi, militanti di sinistra, immaginare che un giovane muto possa essere un soggetto politico?
Se riusciamo a farlo, allora sì, possiamo cambiare il mondo. Possiamo costruire un mondo nuovo. Perché se siamo riusciti a fare un passo come quello, se siamo riusciti a essere all’altezza di un giovane muto (oppure di una donna che ha súbito violenza, di una migrante che non parla la nostra lingua, ecc.), è perché siamo già parte del nuovo, perché stiamo già camminando con altri passi.
Il mondo nuovo non è la società perfetta, il paradiso in cui arriveremo un giorno, dopo tanti sacrifici. È un modo di camminare per il mondo, con i piedi e il sorriso delle ragazzine e dei ragazzini. Il mondo nuovo comincia nel giorno in cui meriteremo di sentirci migranti, anziani, ragazze, quello in cui avremo l’onore di sentirci muti in un’assemblea.
Bellissimo.
Bellissima lotta!!!
Sarebbe importante osservare che quel giovane non è muto, ma sordo, e che definiamo “muti” coloro che non parlano IN QUANTO non sentono. In questo senso, allora, non possiamo immaginare un soggetto politico che, in quanto sordo, è anche muto. A lui – come a tutti gli altri – vanno offerti gli strumenti per esserlo: la lingua che gli consenti di sentire e di essere sentito. Altrimenti facciamo solo demagogia.
giusto Daniela, ci lasciamo incantare dai racconti, solo ieri l’altro è stata approvata la legge che riconosce la Lis in Italia, ultimi tra gli ultimi, e chissà tra quanti anni ne vedremo l’applicazione.
La Resistencia del popolo colombiano è un esempio per tutti noi. Il rispetto, l’empatia l’energia con la quale stanno lottando a costo della vita e delle brutture a cui vanno incontro. Rispetto