Faccio fatica a scrivere. Qualsiasi discorso, in un momento come questo mi sembra vuoto, vacuo. Così mi trovo a ragionare intorno al dolore, io, occidentale, bianca, privilegiata, posso concedermelo? Posso pensare al dolore degli e delle ucraine dimenticando che la guerra esiste altrove anche se non la vediamo, ed esiste da molto? E come posso contrappormi a quello che sta succedendo? Come posso non sentirmi responsabile e sentire responsabile la società in cui viviamo?
Mi sento come un criceto sulla ruota, faccio fatica a capire quali sentimenti sono più degni, cosa sia giusto e cosa non lo sia. Un sentimento, però, è sicuro, non sopporto più le fazioni, la certezza di salvare gli uni o gli altri, di avere la verità in tasca su quello che sta succedendo, mi sembrano piccoli atti di guerra continui. La verità è che non ci capisco molto e nonostante provi a informarmi e a mio modo lo abbia sempre fatto, quando mi sembra di riuscire a capire e a sentire, arriva qualcuno che parla di informazioni deviate.
Il problema non è quanto ci stiano o meno intortando i nostri governanti occidentali, ovviamente io non li “salvo”, (d’altronde l’Italia credo spenda di più per gli armamenti che per la scuola), ma è che ci viene chiesto di aderire all’una e all’altra fazione: no pace, sì pace, no vax, sì green pass… ecc, dentro a un calderone continuo, con il risultato che non si ha nemmeno più la possibilità di sentire.
Sentire il dolore degli altri, ucraini o meno, perché se ti dispiace per i civili, per i bambini che muoiono, per gli ospedali bombardati, arriva subito qualcuno che ti ammonisce: sì, però, gli altri? Quelli che scappano dalla Libia? I messicani? I somali, i siriani? E hanno pure ragione, sembra che il colore della pelle, nel 2022 conti ancora e che ci siano profughi di serie A e serie B.
Ma io voglio avere la possibilità di sentire il dolore degli altri, perché, questa richiesta di schieramento continuo, alla fine, ci conduce ad una lotta continua ed estenuante e all’annientamento dei sentimenti di compassione verso l’altro.
Meglio non sentire, voltarsi dall’altra parte per non finire nel girone infernale del chi sta con chi.
Ecco, io non ho certezze ma l’unica che si sta dipanando è quella che di fronte ai civili morti, alla gente che soffre, qualunque essa sia, non voglio diventare indifferente.
Non voglio smettere di sentire perché non so più cosa sentire. Che poi non è il gioco dei potenti?
Non ci sto alla guerra delle contrapposizioni, io sono e rimango una donna di pace.
Punto tutto sulle relazioni, la compassione e la vicinanza.
Gaetano Grasso dice
Sulla compassione:
http://www.doppiozero.com/materiali/un-ritratto-di-rosa-luxemburg
… c’è una Rosa Luxemburg che, quando esce dalle categorie rigide della concezione materialistica della storia, soprattutto nella corrispondenza, si avventura nel campo delle emozioni, della loro fecondità esistenziale e politica, e, in una lettera, tra le più note, scritta dal carcere nel dicembre 1917 e destinata a Sonja Liebkenecht, ne incontra una particolarmente rivelativa: l’emozione della compassione… lettera, che Karl Kraus pubblica nella rivista Fackel nel luglio 1920, auspicando che sia ospitata nelle antologie scolastiche per il suo pregio letterario…
… Rosa racconta del dolore che le ha provocato assistere a una scena: due bufali usati come animali da soma per trasportare carichi enormi di giubbe e altro materiale di guerra, così brutalmente percossi da un soldato, da suscitare la compassione della guardiana e, poi, la sua nel vedere uno dei due bufali sanguinare e assumere “un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo”, tanto da farle sospirare: “Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia” (R. Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, Milano 2007). Nell’equiparare la propria condizione a quella dell’animale, pur così diversa, Rosa Luxemburg muove dalla valutazione della comune vulnerabilità al dolore, alla fame, alla malattia e ad altre forme di sofferenza (la sofferenza del bufalo sottratto alle sue praterie rumene, come bottino di guerra, diventa l’epitome di tutte le sofferenze umane e non umane provocate dalla guerra, come dimostra la conclusione della lettera), che sta sempre alla base del sentimento di compassione, che, a differenza dell’empatia, che consiste nel sentire o entrare in risonanza con ciò che sente un’altra persona particolare, rinvia a una morale naturale e universale, indipendente dalle culture e dalle epoche storiche. La Luxemburg sembra intuire la forza etica e umanizzante che può avere la capacità di compassione, quando – come si vede nelle ultime scene del film che le ha dedicato Margarethe von Trotta nel 1986 – dettando proprio a Sonja il suo editoriale per il giornale di partito, nei giorni concitati dell’insurrezione berlinese, dice sorprendentemente: “L’uomo affrettato da un’azione importante, che, negligentemente, calpesta un miserabile verme, commette un crimine”.