Quando la riproduzione sociale subisce uno shock si attivano forme di mutuo aiuto e di solidarietà. Nei mesi della pandemia è accaduto con la spesa solidale in tante città italiane. A Whuan, invece, non appena il trasporto pubblico è stato sospeso, autisti volontari si sono autorganizzati per trasportare medici e infermieri. In Norvegia un gruppo di persone guarite dal Covid-19 ha offerto servizi che sarebbe pericoloso offrire per persone non immuni. A Città del Capo, alcune assemblee di quartiere hanno raccolto la disponibilità di persone con esperienza medica, pronte a intervenire nel caso gli ospedali divenissero sovraffollati… Secondo Massimo De Angelis, la pandemia ha fatto emergere ciò che si è sviluppato da anni in contrasto con il neoliberismo capitalista, cioè il comune. Quali le potenzialità di questo fare in comune, diffuso fuori e dentro i circuiti del capitale e dello stato, ora che il sistema sociale è sull’orlo del caos e ha bisogno di riconfigurarsi? La prima: il ritorno alla normalità, cioè al dominio del neoliberismo. La seconda: un nuovo patto sociale fondato su un green deal tecnicista. Due ipotesi in cui il comune esce indebolito. La terza? La costruzione complessa ovunque del comune, cioè la fragile diffusione di nuove pratiche di partecipazione orizzontale, fondate sul riconoscimento reciproco, il mutuo aiuto, la cura e la lotta… “Non ci resta che entrare dentro la storia”

La corresponsabilità neoliberale
Partiamo da una constatazione abbastanza lineare: pressoché tutti i sistemi, le pratiche e le misure di controllo che il capitale neoliberale ha impiantato negli ultimi quarant’anni, si sono rivelate non solo inadeguate, ma anche e soprattutto corresponsabili della diffusione epidemica e dell’alto numero di vittime e di contagi. Facciamone un breve riassunto assai parziale:
1. La disposizione predatoria nei confronti della natura, con l’accelerazione alla deforestazione al fine di impiantare industrie estrattive, sistemi agricoli e allevamenti intensivi, o accomodare processi di rapida urbanizzazione, ha aumentato la probabilità di trasmissione zoonotica di virus da specie selvatiche all’uomo1.
2. L’iper-connessione della globalizzazione ha aumentato la probabilità del contagio: “Ciò che erano casi locali ora sono epidemie che si fanno strada attraverso le reti del commercio e del trasporto globale2.” Alcuni studi riportano anche che l’inquinamento e, in particolare, le polveri sottili ha aumentato la permanenza del virus in aria, aumentando il suo campo di azione3.
3. Le politiche di privatizzazione e semi privatizzazione della sanità pubblica, accompagnata da tagli della spesa pubblica, la razionalizzazione delle risorse, ha reso assai più complicato la gestione dell’emergenza sanitaria e amplificato i suoi effetti di morte e di sofferenza.
4. L’intensificazione della competizione economica e delle sue logiche in questi anni, ha reso indisponibile localmente tutta una serie di prodotti necessari all’emergenza (dalle mascherine ai ventilatori), e che sono stati accaparrati in regime di iper competizione.
5. Le politiche del lavoro e della precarizzazione hanno svalorizzato lavori chiave oggi in prima linea ed emersi come assolutamente necessari per il bene comune, e hanno reso allo stesso tempo vulnerabile larghi settori della società che in periodo di lockdown non ha accesso ad alcun reddito.
6. L’aumentata frammentazione sociale, la precarietà, l’assenza di tutele e diritti hanno reso assai problematica la vita di milioni di rifugiati nel mondo, migranti, e lavoratrici del sommerso, oggi sull’orlo della rovina e della fame per loro e le loro famiglie.
7. Il senso comune neoliberale, cioè il nocciolo istintivo dentro il regime di verità neoliberale, nonché le forze imprenditoriali che lo incorporano, che mettono l’attività economica al fine del profitto prima di ogni altra cosa, hanno contribuito gravemente a ritardare l’azione politica dello stato. Si veda per esempio quanto è successo nelle prime settimane negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna, e quanto è successo in Lombardia in Italia. Inoltre le lunghe e complesse filiere dell’economia globale spesso rendono ambigua la distinzione tra ciò che è necessario e ciò che non lo è, mentre il loro metodo di gestione just in time limita gravemente le scorte di prodotti necessari.
8. Il modello agricolo monoculturale e industriale dominante rivela tutta una serie di fragilità che possono portare a conseguenze ulteriormente gravi. Come documentano Robert Wallace et al (2020): “Crescere monocolture genetiche – animali alimentari e piante con genomi quasi identici – rimuove i focolai immunitari che in popolazioni più diverse rallentano la trasmissione. I patogeni ora possono evolversi rapidamente attorno ai comuni genotipi dell’ospite. Nel frattempo, le condizioni affollate deprimono la risposta immunitaria. Le più grandi dimensioni e densità di popolazione di animali da allevamento facilitano la trasmissione e l’infezione ricorrente”.
Tutto ciò è la manifestazione della fondamentale corresponsabilità del capitalismo neoliberale sul fronte degli effetti della pandemia, nonché la sua debolezza nel gestirla. Questa corresponsabilità credo debba essere inquadrata in un contesto di crisi assai più grande, un contesto fatto di due grandi spettri. In primo luogo, lo spettro delle conseguenze economiche della pandemia, con le sue conseguenze sociali, che si vanno ad aggiungere a quelle già gravi esistenti e che si radicano su una struttura economica già debole dell’economia mondiale, con bassi tassi di crescita e di profitto e alti tassi di indebitamento. E poi l’intensificarsi di questa nuova crisi sociale di portata devastante nel contesto di una stratificazione sociale e divaricazione di redditi e ricchezza che non ha smesso di ampliarsi da quattro decadi di neoliberismo. In secondo luogo, lo spettro della crisi ecologica e del cambio climatico che in forze ancor maggiori della pandemia, rivolgeranno la loro carica di distruzione e di morte sulla fragile e segmentata resilienza umana nel tardo capitalismo neoliberista. Occorre dunque guardare avanti, percependo però assai attentamente questi livelli concentrici di criticità, e porsi la domanda: quali trasformazioni possibili e necessarie dell’economia, della governare, delle istituzioni e del nostro stesso concepire e praticare il cambiamento ci aiuteranno per uscire da questi livelli concentrici della crisi senza le ossa rotte? E questa ampia domanda ne apre un’altra. Quali sono oggi, dall’interno di questa pandemia, le prospettive per il futuro, quali sfide ci attendono per far sì che non siano i “macroparassiti” contemporanei ad avvantaggiarsi della situazione al fine di riconfigurare un nuovo ciclo di crescita e conseguente devastazione sociale e ambientale — per esempio usando la tremenda crisi economica che si prospetta nel dopo pandemia come leva per continuare con l’agenda neoliberale, o per avviarsi verso un neo dirigismo statale del green deal? E allo stesso tempo, quali sfide ci attendono per far sì che siano altre visioni, altre razionalità e altre pratiche di valore a crescere e a connettersi in questa fase, ad acquisire spazi sempre più larghi di cooperazione sociale del comune, a creare nuove istituzioni di riproduzione sociale, a forgiare nuove relazioni sociali nei quartieri, nelle città, sui territori e nei confronti della natura? Domande enormi, che possiamo rispondere solo passando dentro ai tempi che ci si prospettano attraverso una riflessione e azione comune.

Sull’orlo del Caos
Si può però cominciare a intuire che si sta aprendo un periodo che i teorici della scienza della complessità chiamano l’orlo del caos, dove l’ordine sociale esistente ha necessità di evolvere, di riconfigurarsi per affrontare sia le rigidità interne (per esempio i bassi tassi di crescita dall’ultima crisi del 2008) sia le grandi perturbazioni portate da fattori che vengono da fuori del capitalismo, ma che trovano nel capitalismo moderno un terrena fertile. Tra questi fattori, oltre a un virus di origine zoonotica, c’è una viralità di origine sociale che si è sviluppata soprattutto dalla crisi del 2008 e si chiama lotta. Infatti il lockdown pandemico ha aggravato ulteriormente le condizioni di crisi che ci siamo trascinati dal 2008 (se non dal 1979), e la possibilità di una stagnazione globale sorge in un momento dove proprio a livello globale, negli ultimi dieci anni, i movimenti si sono accresciuti notevolmente. Un recente rapporto del Centre for Strategic and International Studies chiama gli ultimi dieci anni “L’età della protesta di massa” , una protesta che presenta una forte tendenza in crescita delle proteste di strada in tutti i continenti, in media una crescita dell’11.5% annua dal 2009 al 2019, con punte di crescita del 23,8% annuo nell’Africa Sub-Sahariana, 17% in Nord America e 16.5% nel medio oriente e nel Nord Africa. Il rapporto stabilisce quattro ragioni principali di queste lotte: lo sviluppo di tecnologie globali di comunicazione e informazioni che hanno ampliato le opportunità di organizzazione e comunicazione; la lotta contro la disoccupazione e sottoccupazione della gioventù globale; l’aumentata percezione della disuguaglianza e la corruzione; i disastri ambientali e il cambio climatico. A queste proteste di strada si devono aggiungere quelle che fanno del cyberspace il loro terreno di lotta e di mobilitazione delle coscienze.
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Il Comune e le crisi
D’altra parte, l’acuirsi della crisi economica e ambientale crea un contesto che non favorisce solo la crescita dei movimenti sociali. Come ha dimostrato la pandemia corrente, e poi tanti altri disastri negli anni passati, in momenti dove la riproduzione sociale subisce un forte shock si riattivano nuove forme organizzative di mutuo aiuto e di solidarietà. Così le grandi catastrofi ambientali quali l’uragano Katrina a New Orleans nel 2005 e le crisi economiche devastanti quali quella Greca iniziata nel 2009, hanno fornito il contesto dal quale sono nati sistemi di solidarietà auto-organizzati per affrontare i problemi evidenziati dall’emergenza e che né lo stato né il mercato erano in grado di affrontare anzi, che sia lo stato neoliberale che il mercato capitalistico hanno contribuito a creare. Lo stesso accade oggi nel contesto del coronavirus in Italia, come Comune-info ha più volte documentato, e nel mondo, come ha riportato tra molti altri George Monbiot. In India, i giovani si organizzano per mandare pacchi alimentari ai lavoratori giornalieri, cioè persone che vivono su bassi salari quotidiani che in tempo di emergenza pandemica si sono volatilizzati. A Whuan, non appena il trasporto pubblico è stato sospeso, autisti volontari si sono autorganizzati per trasportare medici e infermieri tra la loro casa e l’ospedale. In Sudafrica le comunità di Johannesburg hanno prodotto pacchi di sopravvivenza contenente il necessario sanitario in tempo di coronavirus (gel disinfettante, carta igienica, cibo e acqua) per gli abitanti delle township. A Città del Capo, un gruppo locale ha mappato digitalmente tutte le famiglie del distretto, sondato la composizione degli occupanti, e riunito in assemblea le persone dei quartieri con esperienza medica, pronti ad intervenire nel caso gli ospedali divenissero sovraffollati. Un’altra comunità nella città ha costruito lavandini nelle stazioni dei treni e sta cercando di trasformare un laboratorio di ceramica in una fabbrica di sanitari. Negli Stati Uniti, sono nati siti che connettono lavoratori ospedalieri con volontari che possono offrire cibo o un’abitazione, o che connettono bambini in incontri di gioco virtuale (come WePal, creato da un bambino di otto anni), o siti rivolti a quei genitori che devono risolvere il doppio problema di gestione del lavoro e dei bambini a casa da scuola, e procura insegnanti, cibo e servizi di emergenza per la cura dei bambini. In Norvegia un gruppo di persone che è guarito dal Covid-19 offre servizi che sarebbe pericoloso da offrire per persone non immuni. A Belgrado, volontari organizzano caffè virtuali con consulenze collettive sulla crisi. Gli studenti a Praga fanno i babysitter ai bambini di infermieri e medici. Nelle case popolari di Dublino si sono inventati il bingo del balcone, una tombola dove i partecipanti seguono i numeri dal loro balcone. Nel Regno Unito, migliaia di gruppi del mutuo aiuto vanno a far la spesa di cibo e medicine, installano equipaggiamento digitale per gli anziani e formano squadre telefoniche dell’amicizia. Un gruppo di mamme joggers a Bristol, ha trasformato la passione per la corsa in un servizio per coloro che non possono muoversi da casa, consegnando (di corsa) medicine. Per non parlare poi dell’autorganizzazione di medici, tecnici, ingegneri e hackers per raccogliere saperi e materiale. In Latvia, dei programmatori hanno organizzato un Hackfest di 48 ore, per progettare i componenti più leggeri per una visiera che può essere prodotta con una stampante 3D. E poi la rete è piena di consigli condivisi per costruire mascherine a casa, di medici e tecnici che progettano ventilatori a basso costo e che possono essere prodotti con parti facilmente reperibili. E poi ancora strumenti condivisi in biblioteche open source che raggruppano tecnologie e nuovi modelli organizzativi per battere la pandemia. E via di seguito.
Se a queste aggiungiamo tutte quelle micro reti della quotidianità che si attivano nei vari contesti della vita sociale a fronte dei bisogni riproduttivi, la pandemia ha fatto emergere e ha messo in evidenza ciò che si è sviluppato ormai da anni in contrasto con il neoliberismo capitalista, cioè un modo di produrre assolutamente necessario alla riproduzione sociale: il comune. Il comune come un ecosistema di relazioni sociali, di relazioni socio-ecologiche, di processi (ri)produttivi, i quali sono oggetto di riflessione e governance da parte dei soggetti il cui fare in comune è fonte costituente del comune stesso e delle sue pratiche di valore. Il comune abbraccia sia i singoli commons — i diversi sistemi di auto-produzione articolati sui territori — che l’interazione tra diversi commons, che si configura su diverse scale sociali, e abbraccia anche i movimenti sociali. Il comune è quindi un modo di (ri)produzione che emerge al suo interno dall’articolazione delle diverse soggettività e i diversi commons, mentre al suo esterno si relaziona nei confronti dello stato e del capitale spesso conflittualmente per rivendicare diritti, welfare, e salute.
Ora partendo dall’esperienza di questa crisi pandemica, si pensi agli effetti devastanti che nuove ondate dei cosiddetti “fenomeni ambientali estremi” (che diverranno sempre più normali) avranno sulle nostre città, nel contesto di infrastrutture decrepite, servizi essenziali sotto-finanziati da anni, e autorità locali senza soldi. Durante il prossimo disastro, o la prossima pandemia, io credo ci ricorderemo della modalità relazionale che ci ha tutelato in questa, cioè il mutuo aiuto, il fare in comune. L’emergere improvviso di picchi del fare in comune nelle fasi di crisi è sintomo che la società sta cercando di praticare un processo di riconfigurazione di sistema e di priorità, e lo fa in primo luogo creando capacità in più, o di “ridondanza”, un eccesso di capacità di cura rispetto a quella che si darebbe se le cose fossero “normali”, cioè adagiate sulla normalità dell’austerità. È chiaro che questa ridondanza creata dal fare in comune è tanto necessaria quanto carenti sono le istituzioni e i dispositivi privati e pubblici della normalità.
La capacità della lotta e quella costitutiva del fare in comune, non solo fuori dai circuiti del capitale e dello stato, ma anche dentro di essi, sono i due processi sociali fondamentali alla base di un processo di trasformazione sociale. Queste sono le due grandi dimensioni costitutive del comune, inteso non unicamente come principio politico, ma soprattutto come modo di produzione, di relazione e di orizzonte su cui si fonda il suo principio politico. Queste due dimensioni del comune, lo sviluppo delle loro qualità, la loro capacità di diffusione e di coordinazione, di creare nuove istituzioni, generano un campo di forza che si intreccia e spesso collide con il campo di forza del capitale. Le modalità e qualità di questa collisione nel prossimo futuro farà emergere il tipo di trasformazione che ci aspetta, la nuova “normalità”.
Back to Neoliberalism?
Credo dunque che a grandi linee si possano tracciare tre possibili traiettorie per il futuro, e questo dipenderà dalle potenzialità del comune di attualizzarsi, dipenderà da come il rapporto tra forze in campo si dispiegherà.
La prima traiettoria è la continuazione dello status quo neoliberale e alla suo nozione di normalità, il ritorno alle solite routines alienate, inquinate, stressate e marginalizzate, di sovra o sottoconsumo, e di arricchimento per pochi. A meno che questa crisi abbia veramente permesso di acquisire una nuova consapevolezza di massa sul fatto che siano più importanti le ragioni e le pratiche di valore della (ri)produzione della vita (e quindi la cura, l’ambiente, la socialità costruttiva, il comune, la dignità) di quelli del capitale e del suo conato di auto-preservazione, della sua pulsione per la ricerca della crescita continua a fronte di tutto il resto, sarà possibile che il neoliberismo si aggrappi ancora un po’ al timone della governance. Ciò si può realizzare con il perpetrarsi dell’inerzia da parte della politica se questa mantiene e raffina i parametri di gestione socio-economica allineati a quelli degli ultimi quarant’anni, con politiche di austerità dopo l’emergenza e il “socialismo” per le grandi imprese e per i ricchi, con il mantenimento multiscalare della forbice tra redditi e ricchezza, il dominio incontrastato dei mercati sulla vita e la sua (ri)produzione e la persistenza catastrofica della crisi ambientale. È chiaro, che tale scenario ci porterebbe presto a una nuova rottura critica del sistema in tempi brevi, sia per cause prettamente interne al sistema economico, sia per quelle che nascono nella società o dall’ambiente. Se lo status quo di governance neoliberale riesce a trascinare i piedi nelle varie pieghe e negli strati molteplici della politica ufficiale e delle sue burocrazie, la reazione della Natura e quelle della Società, sul trend positivo delle lotte degli ultimi anni, non si faranno attendere troppo. Credo che questo sia diventato ovvio anche a tanti esponenti dei poteri forti.
La governance che seleziona
La seconda traiettoria è quindi un riallineamento delle classi dominanti sotto la direzione di uno stato che deve rispondere alle necessità di rinnovata crescita dell’economia che gli viene posta dal capitale e dalle nuove lotte e resistenze plurali sul tema della sanità, del welfare, e dell’ecologia. Un nuovo patto sociale fondato attorno a un green deal, ma portato avanti con una modalità tecnicista che si fonda sulla grande illusione della possibile coabitazione tra crescita e profitto capitalista, ecologia e welfare, e che vedrà adottare sempre più politiche elaborate di controllo e sorveglianza sociale.
È questo uno scenario che viene declinato in molti modi, ma che comunque vede un senso comune emergere e che articola prospettive di diversa matrice culturale e politica. L’ex governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi sostiene che la pandemia corrente giustificherebbe «un cambiamento di mentalità» tra gli economisti per focalizzarsi su problemi della ricostruzione magari con forme di intervento di ispirazione Keynesiana. Il Financial Times, ci ricorda come “riforme radicali — che invertono la direzione delle politiche nelle ultime quattro decadi — dovranno esser emesse sul tavolo. I governi dovranno accettare un ruolo più attivo nell’economia. Devono vedere i servizi pubblici come investimenti invece che come costi, e cercare modi per rendere i mercati meno insicuri. La redistribuzione sarà ancora nell’agenda e i privilegi degli anziani e dei ricchi messi in discussione. Politiche fino ad oggi considerate eccentriche, come il reddito di base e le tasse sulla ricchezza, dovranno essere nel miscuglio”. Un recentissimo saggio scritto da, tra altri, Nicolas Stern e Joseph Stiglitz, due pesi massimi del pensiero economico convenzionale, si basa su un sondaggio a 231 funzionari di banche centrali in tutto il mondo, a funzionari dei vari ministeri delle finanze, e a altri esperti economici dai paesi del G20, e conclude che politiche fiscali verdi possono “dissociare la crescita economica dalle emissioni di gas a effetto serra e ridurre le disparità sociali esistenti che saranno aggravate dalla pandemia a breve termine e dai cambiamenti climatici a lungo termine”. Gli autori identificano quindi cinque politiche con alto potenziale sia sulla crescita che sul clima, e queste sono infrastrutture fisiche verdi, interventi strutturali di efficienza energetica, investimenti in istruzione e formazione, investimenti in “capitale naturale” e ricerca e sviluppo su tecnologia verde.

La profonda crisi economica se non depressione nella post-pandemia può offrire il terreno affinché il ciclo di lotte degli ultimi dieci anni trovi nuovo vigore ed acceleri in una esplosione di istanze, come ha già fatto a partire dalle lotte sulla salute in senso lato al tempo della pandemia, dalle infermiere che rivendicano protezioni sufficienti per compiere il loro lavoro, agli operai che protestano perché non vogliono essere carne da macello sacrificati sull’altare della competitività. La minaccia di un’intensificazione di queste lotte già da ora, e in una fase post-pandemica può spingere il capitale e lo stato a riconfigurarsi attorno a un’altra modalità di governance, diversa dal neoliberismo, una che, come diceva un testo classico del 1848 di Marx e Engels
“affronti le rimostranze sociali in modo da assicurare l’esistenza continua della società borghese”.
Questo è possibile farlo con una governance selettiva che usi un po’ più di cooptazione delle lotte in modo da accogliere alcune delle istanze ad esclusione di altre, una selezione politica di soggetti, significati, parametri e discorsi da includere dentro a un nuovo regime di verità del capitale (senza che questo abbandoni i suoi fondamenti).
Ora, tale fiducia nella possibilità di stimolare la crescita capitalistica e allo stesso tempo ridurre le emissioni e introdurre efficaci politiche redistributive si basa su una miopia sociale ed ecologica.
Dal punto di vista sociale, la miopia è dovuta al fatto che politiche redistributive all’interno del paradigma della crescita capitalistica dipendono da come si articolano l’andamento del salario sociale e della produttività, andamento dal quale dipende la profittabilità generale del sistema, e quindi le prospettive di crescita. Per esempio, nel secondo dopoguerra negli Stati uniti, e in misure analoghe in diversi paesi occidentali, il principio generale di questa governance si fondava su un patto sociale che includeva welfare e patto di produttività. Quest’ultimo in primo luogo riconosceva i diritti dei lavoratori di lottare per aumenti di salari (un diritto acquisito durante la stagione degli scioperi a “gatto selvaggio” degli anni ’30 del novecento), aumenti che comunque dovevano essere in linea con l’aumento della produttività. Ciò garantiva anche l’aumento dei profitti in un regime di forte crescita economica, e di mantenimento di una distribuzione più o meno costante tra reddito da lavoro e reddito da capitale. Questo patto, implementato in diverse maniere nei vari paesi occidentali, racchiudeva in se delle forti linee escludenti. Esso era infatti incentrato sul settore industriale più forte dell’epoca, il settore automobilistico, e a ogni scadenza contrattuale, sindacati e padroni stabilivano le linee di programmazione di salari e produttività per i prossimi anni. L’aumento della produttività significava anche una perdita di controllo sulle condizioni di lavoro da parte dei lavoratori degli strati più bassi per favorire la riorganizzazione aziendale e quindi la crescita della produttività. Un tale accordo nell’industria automobilista si riproduceva poi come standard negli altri settori attraverso la pratica del wage round. Chi veniva escluso erano, negli Stati uniti, i lavoratori pubblici al quale era vietato riunirsi in organizzazioni sindacali, e poi tutti quei lavoratori marginali dell’economia più o meno sommersa demarcato da linee razziali, e le donne nel lavoro non salariato di riproduzione domestico demarcato da rinnovate linee patriarcali. Come ho argomentato in un mio vecchio lavoro (Keynesianism, Social conflict and Politcal Economy), è sulla base di questo modello di governance del conflitto sociale per renderlo più stabile che la politica economica poteva cercare di appiattire il ciclo economico, attraverso il tamponamento dei picchi per mezzo di riduzione della spesa pubblica, e della crescita della spesa in periodi di minaccia recessiva. Non appena la lotta degli esclusi è emersa dirompente tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, il rapporto tra produttività e salario sociale è saltato, e quindi la possibilità di una governance Keynesiana del capitalismo. La crisi degli anni ’70, e la svolta neoliberista consolidata nei primissimi anni ’80 del secolo scorso, con la conseguente ristrutturazione e formazione della moderna economia globalizzata, ha segnato dunque la fase di riorganizzazione del capitale a fronte di tutte queste lotte. Oggi, quali siano le condizioni di un rinnovato patto generale della produttività non è ancora chiaro. Ciò che è invece lampante, è che il perseguimento della crescita capitalista in regime di aumento del welfare richiede la selezione politica di chi sta dentro il patto e chi ne sta fuori, e quindi una politica che si basa sul comune non può farsi nessuna illusione, solo stare all’erta e continuare a spingere.
Dal punto di vista ecologico, la miopia del progetto del green deal è nei confronti di quei fenomeni che l’economia ecologica ha più volte sottolineato, tra gli altri in particolare l’effetto rimbalzo (rebound effect) per il quale un aumento dell’efficienza energetica di un prodotto porta a una riduzione dei prezzi unitari di costo e quindi conduce a un aumento della produzione e del consumo con il conseguente aumento delle emissioni. C’è poi l’effetto boomerang, per il quale gli obiettivi di riduzione delle emissioni in una regione — come l’Ue — può portare ad aggiustamenti della filiera globale in modo tale da spostare le produzioni più inquinanti in altri paesi, con la conseguenza che le emissioni totali non sono state ridotte. La realtà di questi fenomeni sono sotto gli occhi di tutti se si vuol guardare. Se poi andiamo a vedere il cuore del programma di transizione dell’Ue, esso si fonda sulla promozione della “sostenibilità competitiva” (un ossimoro annunciato da Ursula von der Leyen in un discorso al Parlamento europeo il 27 Novembre 2019) e sull’idea di economia circolare. Quest’ultima, una grande idea se fatta all’interno del modo di produzione del comune, all’interno del paradigma della crescita capitalista è solo un palliativo per continuare come prima (leggi anche Rompere con il mercato, ndr): gli esperti di economia circolare ci dicono che il massimo che si può riusare teoricamente nei cicli produttivi correnti è intorno al 30% delle materie prime inizialmente usate. Tutto il resto (il 70%) dovrà essere estratto dalla terra finendo in emissioni ed “esternalità”. In un regime di mercato teso alla crescita come lo vuole l’idea di capitalismo verde, non si smetterebbe quindi di impattare negativamente sui sistemi ecologici e quindi continuando a creare le condizioni per l’emergere di nuove pandemie. Per non parlare poi del crescente fabbisogno energetico totale necessario per la crescita economica, che se anche coincide con la sostituzione dei combustibili fossili da parte delle rinnovabili, la produzione di queste ultime richiede un estrattivismo crescente. Si pensi a quello che vuol dire dal punto di vista materiale in termini di estrazione di metalli e di terre rare necessarie per tutta la produzione sia di high tech che di impianti per energie rinnovabili (come smartphones, turbine eoliche, lenti di fotocamere, batterie per auto elettriche e pannelli fotovoltaici, magneti e sistemi missilistici).
Per esempio, in un articolo del the Guardian, impariamo che la Cina produce più del 70% dell’offerta mondiale di terre rare, metà della quale viene da Baotou, una città di 2.5 milioni di abitanti nella Regione autonoma della Mongolia Interna cinese, 650 km a nord ovest da Pechino. Il minerale è spesso mischiato con materiale radioattivo come il torio, la quale separazione richiede ammontare enorme di altre sostanze tossiche: solfati, ammonia e acido cloridrico. Una tonnellata di terre rare richiede 2000 tonnellate to detrito tossico. La città di Baotou, forse la città più inquinata della Cina, produce 10 milioni di tonnellate di acqua di scarico tossica ogni giorno. Quest’acqua viene pompata fuori dalla città verso delle dighe come quella del villaggio Weng 12 km a occidente dal centro della città di Baotou dove la popolazione locale beve acqua dall’odore putrescente. La diga non ha un rivestimento appropriato e negli ultimi venti anni il suo contenuto tossico si è infiltrato nelle falde acquifere, incrementando casi di tumore, causando la morte ai greggi dei pastori locali, e forzando molti abitanti ad abbandonare le loro case. L’inquinamento si sta portando verso il Fiume Giallo a un ritmo di 20 o 30 metri all’anno, minacciando una fonte fondamentale di acqua potabile per tutta la Cina del nord. L’estensione dell’economia verde all’interno del paradigma della crescita capitalistica dipende dall’estensione di impianti minerari di terre rare e il riversamento delle conseguenti esternalità sulle popolazioni locali. Le quali però non hanno tardato a mobilitandosi per fermare la costruzione di nuove miniere (latimes.com).
La questione del risparmio energetico e della tecnologia verde all’interno di un paradigma di crescita capitalistica non nasconde solo conseguenze socio-ambientali dovute all’estrazione e dei minerali necessari. L’enfasi su una trasformazione puramente tecnologica della nostra quotidianità si riveleranno non solo fallimentari, ma anche ulteriormente dannose. Prendete l’idea che per ridurre le emissioni occorrono automobili di nuovo tipo, per esempio, auto elettriche, pensando che il cambiamento tecnologico, senza modificare le relazioni sociali e l’organizzazione della società stessa, siano sufficienti. Per un’immagine impressionistica di questa questione, si prenda il caso della Gran Bretagna. Nel giugno del 2019 il direttore delle scienze della terra del Natural History Museum, Prof Richard Herrington, accompagnato da uno stuolo di esperti ha mandato una lettera al comitato sul cambio climatico (il comitato che consiglia al governo Britannico sugli obiettivi di emissioni e rapporta al parlamento i progressi fatti nella riduzione dei gas serra e per la preparazione per combattere il cambio climatico). La lettera spiega che se si vuole permettere agli automobilisti britannici di percorrere con auto elettriche le 252 miliardi di miglia che percorrono già oggi in un anno, bisognerebbe produrre quasi due volte la produzione mondiale di cobalto, quasi tutta la produzione mondiale di neodymium, tre quarti la produzione mondiale di litio e almeno metà della produzione mondiale di rame. Ci vorrebbe anche un aumento del 20% della produzione britannica di energia. (www.nhm.ac.uk, 5 giugno 2019) È stato anche recentemente calcolato che un Modello 3 della Tesla, considerato un modello a zero-emissioni da regolatori governativi, in effetti emette più anidride carbonica che un’auto comparabile a diesel. Questo se si includono le emissioni di CO2 per la produzione di batterie elettriche delle quali hanno bisogno auto elettriche come la Tesla. Quando si includono le batterie, l’auto elettrica produce più emissioni che un’auto a diesel. In Germania per esempio se si guida una Tesla modello 3, si produce da 156 a 181 grammi di CO2 per chilometro, comparato al 141 grammi per chilometro di una Mercedes220d, che include emissioni dai gas di scarico del motore diesel. (https://dailycaller.com)
L’idea dell’efficienza energetica portata con nuova tecnologia, non risolve il problema della massa di Co2 o di sostanza tossica in atmosfera o nei vari cicli e nicchie ecologiche. L’efficienza per definizione non è un numero assoluto, ma un rapporto, ci dice che questa lampadina consuma meno in un ora, o questo motore consuma meno combustibile per chilometro. Non ci dice nulla su quante lampadine sono state prodotte e quanto sistema ecologico è stato distrutto per la loro produzione. Così un motore efficiente dal punto di vista energetico, non ci dice nulla su quante automobili vengono prodotte, o quante nuove strade si vogliono costruire. In un sistema economico che vede la crescita come panacea di tutti i mali, queste quantità prodotte, con il relativo impatto ambientale, sono sempre destinate a crescere prevedendo quindi sia effetti rimbalzo che effetti boomerang. E la minaccia ci viene appunto dalla massa di distruzione ecologica e inquinamento tossico che il sistema economico produce, non dal rapporto di inquinamento per unità di materiale usato. Se il sistema economico e di vita ad esso legato deve ridurre in termini assoluti il suo impatto, è necessario produrre meno cose, e ciò rende necessario la distinzione politica e di valore di cosa sia necessario, e compensare questo con più attenzione alle relazioni, alla cura, al welfare per salvaguardare tutti.
Queste difficoltà conducono molti a concepire il possibile successo della strategia del green deal come dipendente dall’introduzione di un elemento sociale fondamentale, la mobilitazione di alcune pratiche del comune — almeno nel senso più generale del termine — come nella sharing economy, o nel “consumo collaborativo” peer-to-peer, che si basa sulla condivisione, lo scambio, il baratto, il commercio o il leasing di prodotti e altri beni come terra o tempo. Da una dimensione locale, queste pratiche negli ultimi anni hanno raggiunto dimensioni assai più ampie anche grazie alla rete, e sono da molti viste come necessarie al raggiungimento degli obiettivi del green deal e dell’economia circolare poiché, a parità di altre condizioni, avere più consumo collaborativo riduce le emissioni.
Il comune da costruire
Ma le condizioni non sono paritarie, e non saranno gli Airbnb dei nostri tempi a compensare per le carenze del green deal all’interno di una prospettiva di crescita capitalistica. Sarà invece il processo di disaccoppiamento del comune dal capitale che può aprire un nuovo orizzonte. Un processo di crescita dell’autonomia del comune e della sua consapevolezza che il suo sapere plurale non ha nulla a che fare con quello verticistico dello stato e del capitale, e che le sue pratiche di partecipazione orizzontale, fondate sul riconoscimento reciproco, il mutuo aiuto, la cura e la lotta, possono trasformarsi sempre più in istituzioni dotate di grande autonomia e autopoiesi (ri)produttive della vita sociale e quindi economica in una prospettiva ecologica.
E qui si apre il grande terzo scenario all’orlo del caos, se i movimenti sociali sapranno coniugarsi con una prospettiva trasformatrice e costituente del comune, il quale saprà riorganizzarsi in diverse scale in forme nuove, saprà trasformare lo stato e riappropriarsi di sempre più circuiti economici e trasformarli in un orizzonte dove la priorità della vita sociale ed ecologica della produzione al fine della riproduzione sociale ed ecologica è affermata sopra quella del profitto e dell’ossessione della produzione al fine della produzione.
Non ci resta che entrare dentro la storia.

1 Robert G. Wallace, Luke Bergmann, Lenny Hogerwerf, Marius Gilbert, “Are Influenzas in Southern China Byproducts of the Region’s Globalising Historical Present?,” in Influenza and Public Health: Learning from Past Pandemics, ed. Jennifer Gunn, Tamara Giles-Vernick, and Susan Craddock (London: Routledge, 2010); Alessandro Broglia and Christian Kapel, “Changing Dietary Habits in a Changing World: Emerging Drivers for the Transmission of Foodborne Parasitic Zoonoses,” Veterinary Parasitology 182, no. 1 (2011): 2–13.
2 Rob Wallace, Alex Liebman, Luis Fernando Chaves and Rodrick Wallace. (2020). COVID-19 and Circuits of Capital. Monthly Review. April 1, https://monthlyreview.org
3 See Ms, X. W. et al. (2020) Exposure to air pollution and COVID-19 mortality in the United States. Working Paper, Boston. pdf
See also Beth Gardiner, Pollution made COVID-19 worse. Now, lockdowns are clearing the air. National Geographic, April 8, 2020, www.nationalgeographic.com
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