I processi migratori non sollevano solo problemi di diritto, nuove e vecchie forme di razzismo. I migranti nella vita di ogni giorno mostrano prima di tutto come ognuno di noi, se pur con gradualità e in forme differenti, vive un sé plurale e frammentato. Troppo spesso nei ragionamenti intorno alle migrazioni emerge invece un noi e un loro rigido e astratto: in realtà le identità, che non sono altro che rappresentazioni, non sono mai definitive, sono un costante percorso di ricerca e costruzione tra itinerari a cui adeguarsi (spesso vere spoliazioni) e itinerari scelti, un percorso suscettibile di cambiamenti e riposizionamenti. Quello che è certo, spiega Stefano Rota, è che l’identità dei migranti è estremamente eterogenea e che qualsiasi tentativo di approfondire il tema delle migrazioni ha bisogno di essere letto dalle opportune lenti della complessità
di Stefano Rota*, associazione Transglobal
“I’ve nothing to lose, beta day i seek for”. Post su facebook di E. G. F.
Richiedente asilo diniegato, ma ostinatamente presente
In due articoli (Cittadinanza postmigratoria e Demos migrante), ho provato a mettere in evidenza alcuni aspetti dell’attuale fenomeno migratorio sulla base di presupposti che, al netto del limite oggettivo che il mio punto di vista riesca a esprimere, tentano di contribuire, in qualche misura, all’ampliamento della visuale da cui si è soliti trattare il fenomeno stesso nelle sue narrazioni mainstream.
Per fare questo, mi sono avvalso di concetti – alcuni molto autorevolmente dibattuti e articolati, altri forse meno – quali condizione postcoloniale, seconde migrazioni, cittadinanza postmigratoria, articolazione ed equivalenza di significati nella definizione di un’identità migrante, ricollocazione del fenomeno da un piano umanitario a uno più prettamente politico.
Vorrei provare a impostare questo terzo articolo partendo dai limiti che i due precedenti palesano, soprattutto nella definizione delle complesse dinamiche che consentono, ma sarebbe meglio usare il condizionale, di definire una specifica identità del soggetto migrante, un elemento “identificante” la soggettività che esso esprime. Questa, come ci ricorda Sandro Mezzadra (Nei cantieri marxiani, Roma, 2014) riprendendo ed elaborando il lessico marxiano, elude ogni possibilità di usare la lente dell’omogeneità per leggere l’identità, in quanto viene prodotta nella continua tensione che si crea tra pratiche di assoggettamento e pratiche di soggettivazione. Soggettività quindi mai definitive, ma continuamente suscettibili di cambiamenti e ricomposizioni.
I due pilastri portanti di questo articolo sono, come già per gli altri due, la raccolta di testimonianze dirette, da un lato, e la consapevolezza di addentrarmi in un ambito molto vasto e dibattuto, dall’altro.
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Michel Foucault, in uno dei suoi celebri interventi nei primi anni Ottanta all’università di Berkeley, ci ricorda che l’esercizio del potere consiste in una vasta gamma di relazioni, che vanno ben oltre l’imposizione della disciplina. Queste relazioni includono una serie di tecniche razionali, la cui efficacia dipende dall’interazione di tecnologie coercitive e tecnologie del sé. Quello che Foucault rende possibile in una prospettiva di analisi della soggettività è l’applicazione di un elemento macchinico, paragonabile a quello di due ruote di un unico ingranaggio, tra le tecnologie del sé e quelle di strutture che operano in forma costrittiva sull’individuo. Senza le prime, le seconde non avrebbero l’efficacia che invece strutture come carceri, ospedali, CIE, CARA e altre riescono ad avere. L’identità e la soggettività che ne consente temporaneamente la rappresentazione si innerva nell’eccedenza che si produce in quella relazione mai a somma zero e mai a valore fisso, quindi, come già detto, disomogenea e suscettibile di continui cambiamenti.
È in questa relazione che si dipana quella sutura tra pratiche discorsive che ci descrivono, ci costringono e i processi soggettivi che ci mettono in condizione di essere descritti, producendo delle identità che altro non sono che delle rappresentazioni, conseguenti all’obbligatorietà di certe posizioni da prendere, da un lato, e l’attaccamento, l’investimento che l’individuo stesso fa, dall’altro. Se è questo il percorso che produce identità, le stesse non possono essere viste né come prodotte da elementi esterni, ambientali, né come frutto di pratiche discorsive unilaterali che le definiscono dal di fuori, né, infine, come il prodotto “libero” del soggetto sempre in grado di scegliere, come suggerisce Sartre. Sono, al contrario, la conseguenza dell’articolazione tra questi ambiti.
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Mi sembra che questi elementi teorici consentano di fare un passo avanti significativo per provare a definire quali siano i meccanismi che stanno alla base della costruzione delle identità che si collocano nello scenario definito, da un lato, dalla forte mobilità umana di questo secondo decennio degli anni duemila e, dall’altro, da politiche di reclusione, procedure burocratiche classificanti e “moltiplicazione dei confini” (S. Mezzadra, Confini e Frontiere, Bologna, 2014). Consapevole della scivolosità di questo percorso, data dalla molteplicità di attuazioni, actings, come le definisce Engin Isin (Citizens without frontiers, London, 2012), espresse dalla moltitudine migrante, mi limito a leggere attraverso la lente di queste ipotesi teoriche alcuni casi che mi sembrano confermare l’articolazione di cui si è detto sopra e per i quali ho avuto modo di raccogliere delle testimonianze dirette.
Per mia sfortuna e non per scelta, non rientrano in queste testimonianze le pratiche attuative che si sono dispiegate recentemente in alcuni ambiti fronterizi, Ventimiglia in primo luogo, ma non solo. Queste hanno mostrato in modo estremamente chiaro la capacità di mettere in discussione norme nazionali e locali, disposizioni europee, contrapponendo a queste la rivendicazione a muoversi sulla base di un proprio progetto, che prescinde totalmente da qualunque schema normativo lo voglia limitare. Spero di riuscire comunque a dare conto di tali pratiche discutendo il tema che vorrei mettere al centro di questo articolo.
“Quando sono arrivato nel sud della Libia, ho avuto la chiara sensazione di essere entrato in un contesto totalmente diverso da quello del mio paese [il Gambia]. Era come se dovessi spogliarmi di tutto quello che mi ero portato dietro e imparare un nuovo modo di parlare, atteggiarmi, nascondermi. I black Libyans [i libici di origine sub sahariana] capivano subito da come ti comportavi se eri una possibile preda per loro. Se accettavi un lavoro senza contrattare le condizioni, eri spacciato: significava che non avevi capito dov’eri e questo si sarebbe tradotto in una sorta di schiavitù come lavoratore non pagato o, peggio, in un sequestro, con possibile omicidio. Non puoi provare a contrastare certi metodi, ti ci devi relazionare, ne diventi parte, anche se lo odi. Quando sei per la strada e vedi uno che è un po’ spaesato, devi stare molto attento a cosa gli dici e a chi ti sente: metterlo troppo in guardia significa togliere a quei criminali una possibile fonte di guadagno e te la fanno pagare”.
“Sono in questo centro di accoglienza da oltre un anno. Ho fatto l’incontro con la Commissione [Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale] un mese fa, ma non conosco ancora il risultato, anche se credo che mi verrà negato il riconoscimento di rifugiato. Prepararsi per l’incontro richiede molto tempo e molto lavoro: devi costruirti una nuova vita, anche passata, da raccontare a loro, fare volontariato, studiare la lingua. Ci si confronta molto tra di noi, per sentire quelli che hanno già fatto il colloquio cosa ti suggeriscono, anche se poi non serve molto, perché non sembra che ci siano dei principi generali per approvare o negare le richieste. Ognuno devo costruirsi la propria storia, è quello che ci viene chiesto. Sembra che non sia tanto importante quanto sia vera, ma il modo in cui la riesci a raccontare, a farla riconoscere come vera”.
“Il mio modo di presentarmi all’esterno cambia molto, a seconda delle situazioni in cui mi trovo. Quando ho bisogno di qualche euro, vado davanti a un supermercato, saluto gentilmente tutti, aiuto a caricare la spesa sulla macchina, a quelli che mi chiedono cosa faccio, dico subito che sto studiando italiano e che non trovo lavoro. Insomma, mostro a loro quello che vogliono vedere in uno che arriva qui come quelli che hanno visto in televisione sui barconi in mare. In altre situazioni, cerco di apparire il più possibile “normale”, uno che vive qui come tutti gli altri che negli anni passati sono arrivati, che lavorano, hanno magari la famiglia qui, che si veste alla moda, che non ascolta solo la nostra musica. In quei casi, so che devo parlare il meno possibile, per non far vedere che parlo ancora pochissimo l’italiano. Cerco di togliermi l’immagine del “poverino” da addosso. Un giorno mi hai chiesto se sull’autobus preferivo stare da solo, piuttosto che con te e gli altri. Ti rispondo adesso: sì, preferisco stare solo, non mi piace far vedere che siamo in gruppo, con un bianco che ci porta. Se sono solo, la gente non mi guarda neppure, se siamo in gruppo con un bianco, siamo subito visti come i profughi”.
Quello che mi interessa mettere in evidenza dei tre brani d’intervista[1] sopra riportati e utilizzando le categorie analitiche che ho provato prima a tratteggiare, sono le “tecnologie del sé” – come le chiama Foucault – che entrano in gioco ogni qualvolta si renda necessario un discorso sull’identità e sull’uso che si fa di questa nella definizione della soggettività. Partendo dalla lettura di questi tre brevi brani, provo a descrivere questo processo sulla base dei seguenti punti: dimensione plurale e frammentata, rappresentazione, articolazione e natura pattizia dell’identità. Dicendo questo, do per scontato il carattere costantemente mutevole e storicamente determinato, quindi non dotato di una connotazione essenzialista, dell’identità. Dare per scontato questo aspetto non significa banalizzarlo, ma, al contrario, mantenerlo come ago della bussola per una qualunque ipotesi interpretativa dell’identità.
Ervin Goffman in The presentation of self in everyday life (Bologna, 1969, ed. it.) – un testo di quasi sessant’anni fa – descrive queste tecniche di presentazione del sé come la strategia che usiamo abitualmente per rapportarci ai diversi contesti al cui interno ci muoviamo quotidianamente. Per descrivere in modo chiaro come questo avviene, Goffman utilizza la metafora teatrale, fatta di palcoscenico e quinte: passiamo da una realtà rappresentativa a un’altra attraverso la mediazione delle quinte, quello spazio neutro dove recuperiamo postura, abiti, voce e linguaggio per la successiva rappresentazione. In un lavoro di qualche anno dopo, Asylum (Torino, 2003, ed. it.), l’autore canadese tratta lo stesso argomento in condizioni di forti costrizioni per la libertà personale, mettendo in evidenza un aspetto che mi sembra importante in questo intervento. Goffman parla, infatti, di “istituzionalizzazione” degli internati, intendendo con questo “gli adattamenti degli internati alla cultura istituzionale, ovvero la loro lotta di resistenza per mantenere spazi di dignità”, come scrive Alessandro Dal Lago nella prefazione all’edizione italiana del libro.
Il tema della rappresentazione di sé costituisce un ambito di riflessione molto più antico rispetto ai sessant’anni trascorsi dalla pubblicazione del libro di Goffman, ma quello che mi sembra l’autore introduca con i suoi studi è l’evidenziazione di una molteplicità di rappresentazioni, più o meno simultanee, che entrano in scena nella vita quotidiana, a cui corrisponde la definizione di un sé plurale e frammentato. Fare i conti con questa realtà, significa pensare a un sé che si è costituito nel corso della propria storia individuale e collettiva, costantemente presente in tutte le pratiche interattive e solitarie, come conseguenza delle tecnologie che abbiamo fatto nostre. Quindi, “non deve essere considerato come una realtà da scoprire o liberare; deve essere inteso come la correlazione di tecnologie costruite e sviluppate lungo la nostra storia. Il problema, allora, è considerare come sia possibile elaborare nuove forme di relazione con il proprio sé” (M. Foucault, Three Lectures on the Culture of Self, Berkeley Un. 1983, traduzione mia da registrazione audio).
Porsi il problema di nuove forme di relazione con il proprio sé significa, a mio parere, affrontare il tema dell’identità come articolazione (nel senso fisiologico del termine) tra ambiti diversi che favoriscono la rappresentazione, la messa in scena, dell’identità stessa, o di una parte di essa. Questi microprocessi sociali si svolgono all’interno di un “campo di gioco”, dove agiscono pratiche, narrazioni che ci raccontano e ci descrivono e azioni, processi che l’individuo mette in atto e che consentono che l’individuo stesso venga ‘parlato’. L’identità è quindi un “temporaneo attaccamento alle posizioni soggettive che le pratiche discorsive costruiscono per noi” (S. Hall, Politiche del quotidiano, Milano, 2006).
Mi sembra che da queste considerazioni si possa estrapolare, come ultimo elemento connotante l’identità tra quelli che ho indicato sopra, il suo carattere pattizio. Cercare nuove forme di relazione con il proprio sé, rappresentarle in situazioni dove si rendono necessarie, agire nel campo di gioco definito da regole più o meno costrittive, “attaccarsi” temporaneamente e consciamente alle posizioni che ci consentono di stare all’interno di queste pratiche. Tutto questo mi sembra porti a vedere l’identità come un costante percorso di ricerca e costruzione di un patto rappresentativo tra l’individuo, i propri itinerari, da un lato, e il sistema valoriale, culturale, normativo, al cui interno l’individuo stesso si muove, dall’altro. Come tutti i patti, anche questo è costantemente suscettibile di cambiamenti, riposizionamenti, sulla base della mutevolezza della forza degli attori che vi prendono parte, così come della posta in gioco, anch’essa soggettivamente determinata e quindi diversamente interpretabile dai contendenti.
Un esempio che credo abbia riguardato molti di noi: chi, camminando in un mercato di un paese asiatico, africano o latinoamericano, non ha sentito il desiderio di non venire visto immediatamente come un turista o un cooperante oggetto di proposte d’acquisto di tutti i tipi e di adottare, quindi, tutte le strategie in nostro possesso per apparire il più possibile “locale”? Chi non ha sentito almeno una volta il desiderio, sempre in quelle circostanze, di un cambio d’identità temporaneo, che includesse anche la lingua o il colore della pelle, per potersi sentire totalmente e incondizionatamente a proprio agio in quello specifico contesto? Il contesto in cui ci troviamo ci impone la ricerca di un nuovo patto, ma l’incognita resta se gli altri partecipanti accetteranno o meno la nostra proposta di modifica.
Queste logiche sono applicabili anche a realtà molto meno amene di quella descritta, come analizzano Goffman in Asylum e Foucault in tutti i suoi studi sulle istituzioni totali. In quegli ambiti, le forze in gioco presentano una sproporzione enorme: la strategia dell’individuo si concentra quindi sulla preservazione, sul mantenimento di spazi di agibilità anche minimi, ma vitali. L’identità che si esprime al loro interno ne è fortemente condizionata, limitata, ma anche qui pattuita.
“Il primo giorno di lavoro, ti cambiano il nome, ti danno un nome cinese (sono ancora capace di scriverlo); è il nome che ti identifica all’interno dell’azienda e nella tua vita a Taiwan, non essendo in possesso dei nostri documenti, ma unicamente della tessera dell’azienda”.
“Il giorno dell’arrivo, dopo l’ospedale, ci hanno portati al dormitorio. È una struttura grande, di proprietà dell’azienda, con stanze dove dormono minimo quattro persone. Nel dormitorio, non puoi cucinare: l’azienda ti dà la prima colazione e altre poche cose, soprattutto latte, che noi non bevevamo, perché era troppo. Nel dormitorio sono alloggiati i lavoratori provenienti anche da altri paesi: Vietnam, Indonesia, Thailandia. Ci dividono per nazionalità. Ci sono regole precise nei dormitori, che devono essere rispettate. È l’agenzia di recruitment che manda delle persone a controllare di notte”.
“Quando ho deciso di partire ero ancora minorenne e non potevo […], ma io volevo partire subito, quindi ho pensato che l’unico modo era quello di comprare un nuovo nome. Nessuno voleva prestarmi il suo, quindi una persona mi ha aiutato a cambiare la data di nascita. Ho fatto un nuovo certificato di nascita con un anno in più. Ho fatto domanda in molte agenzie di recruitment specializzate per lavoratori che vogliono andare a Taiwan. Ma funzionano anche per altri paesi, soprattutto i paesi del golfo. […] A Taiwan, potevi lavorare solo tre anni, poi te ne dovevi andare e non potevi più tornare. Se volevi tornarci, dovevi cambiarti il nome o prendere in prestito il nome di un’altra persona che non intende andarci. Io l’ho fatto, ho cambiato il nome per tornarci la seconda volta. Ho dovuto pagare di nuovo la persona che mi aveva cambiato la data di nascita”.
Sono propenso a collocare il sistema di fabbrica (e la sua appendice del dormitorio) taiwanese – ma estendibile a quello cinese, così come a tutti gli altri paesi asiatici dove operano grandi multinazionali – all’interno della definizione di istituzioni totali.
Il sistema che descrivono le due giovani donne filippine intervistate[2] mi sembra che sostenga questa ipotesi. Si tratta di un ambiente che induce un significativo cambio identitario: questo avviene attraverso scelte individuali (il cambio della data di nascita e del nome per poter essere reclutata), ma non per questo “libere”, e strategie di controllo e assoggettamento messe in atto da un sistema che ha nella fabbrica il suo elemento forte, ma che si estende al dormitorio e all’istituzione che realmente governa il processo generale: l’agenzia di recruitment.
Quello a cui si assiste è a tutti gli effetti una spoliazione di quanto meno una parte dell’identità precedente, per determinarne una nuova, più funzionale al sistema produttivo e riproduttivo in cui si entra. Tutti gli elementi sopra utilizzati per descrivere l’identità sono presenti anche in questo contesto, ma con una capacità di contrattazione irrisoria da parte delle lavoratrici migranti nella negoziazione, dove le tecnologie messe in gioco sono funzionali a mantenere il massimo livello possibile di dignità e di autoriconoscimento, in un contesto che tende a sostituirli con regole e punizioni, il cui scopo è specificamente la desoggettivazione del lavoratore.
L’identità che emerge dai brani riportati è totalmente frammentata e disomogenea, persino nei nomi: quello d’origine, quello assunto per poter essere reclutata e quello cinese dato dal sistema-fabbrica. A ciascuno di questi nomi si può facilmente intuire corrisponda una rappresentazione di sé differente, l’attaccamento temporaneo a ciascuna di queste consente al lavoratore di sopravvivere.
Le interviste alle quattro persone mi sembra consentano di giungere a una conclusione che rafforza quanto detto all’inizio: l’identità della moltitudine migrante e la soggettività che ne deriva è estremamente eterogenea. La tensione continua all’interno delle pratiche discorsive che la descrivono, il suo carattere rappresentativo e pattizio, le molteplici forme che assume l’elisse che si crea attorno ad assoggettamento e soggettivazione impediscono di ricondurre all’unicità le svariate composizioni che emergono dall’intreccio di variabili che danno vita agli elementi descritti.
In alcune situazioni certamente predominano elementi di rivendicazione molto forti, come nel caso dell’attraversamento delle frontiere, delle lotte contro forme di sfruttamento lavorativo pesantissimo, per il diritto alla casa. Qui emerge un elemento di rottura e contrapposizione che risulta egemone rispetto ad altri. Ma anche all’interno di questi contesti si moltiplicano le varianti e motivazioni che danno vita a comportamenti omogenei, o quanto meno riconducibili a un aspetto dominante, in termini di riconoscibilità.
Forse il valore principale che assume il trattare il tema con queste modalità non consiste tanto nel proporre un metodo di analisi microsociologica tout court, che potrebbe risultare di per sé sterile, quanto nel fermarsi un passo prima di generalizzazioni che, a conti fatti, non trovano pieno riscontro nelle situazioni che chi vi ci opera quotidianamente sa di dover leggere con le opportune lenti della complessità.
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[1] Sono brani estrapolati dalle interviste condotte lo scorso anno a Genova e in parte già riprodotte nell’articolo “Mare di sabbia”, su FrontiereNews e dentro a “Il tempo dei migranti” su Lavoro Culturale
[2] Anche in questo caso, le interviste in questione erano già state riprodotte in un altro articolo su FrontiereNews, “Nel ventre del drago” e su Lavoro Culturale, dentro a “Il tempo dei migranti”
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Pubblicato su Frontiere News
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