Durante il disastroso ritiro da Kabul, le forze armate statunitensi annunciarono lo scorso 29 luglio di avere colpito, in una casa non lontano dall’aeroporto caduto nel caos, un nucleo di pericolosi jihadisti. Due mesi dopo le forze armate Usa hanno fatto sapere che quel giorno in realtà sono morte almeno dieci persone, fra cui sette bambini, e che nella casa non c’erano jihadisti armati, ma persone comuni. La notizia non ha attirato le attenzioni dei grandi media. L’assuefazione agli “effetti collaterali” degli attacchi mirati non conosce barriere. Quei bambini sono solo vite di scarto
Nel bel mezzo del disastroso – e tragico, e sanguinoso, e colpevolmente precipitoso – ritiro da Kabul, le forze armate statunitensi annunciarono lo scorso 29 luglio, con tronfia ufficialità, di avere colpito e annientato, in una casa non lontano dall’aeroporto caduto nel caos, un nucleo di pericolosi jihadisti. La notizia – nelle intenzioni – doveva probabilmente compensare l’immagine di confusione e inettitudine che i militari in fuga stavano trasmettendo al mondo. L’uso mirato dei droni, sulla base delle indicazioni dell’intelligence, è da qualche anno uno dei vanti della forze armate statunitensi: l’amministrazione del premio Nobel per la pace Barack Obama, in modo particolare, ne promosse a suo tempo l’impiego.
La notizia del raid, quel giorno di fine luglio, si fece largo nei notiziari internazionali fra le drammatiche immagini della ressa all’aeroporto, dei corpi precipitati dagli aerei in volo, dei bambini passati dalle madri ai militari occidentali in partenza, degli attentati che seminavano morte fra i fuggiaschi. Gli Stati Uniti – faceva intendere quella notizia – hanno ancora il controllo della situazione, sono ancora in grado di prevenire attentati ed eliminare combattenti nemici prima che possano entrare in azione.
Pochi, sul momento, obiettarono sulla sostanza e la legittimità dell’operazione e sulla veridicità di quanto affermato dal Pentagono, per quanto avere dei dubbi sulla reale natura di quell’attacco era doveroso, più che lecito, visto che le azioni coi droni tendono a provocare quantità enormi di “effetti collaterali”, cioè vittime non previste (o meglio, non desiderate) degli attentati mirati: capita sempre, o quasi sempre, che oltre all’obiettivo dell’omicidio siano coinvolte e uccise altre persone.
Il dubbio stavolta è stato confermato dalle stesse autorità statunitensi, che hanno ammesso, a oltre un mese di distanza, il “tragico errore”: la “chirurgica” operazione antiterrorismo è stata in realtà un’orribile, insensata strage. Sono morte almeno dieci persone, fra cui – è stato precisato – sette bambini. Nella casa presa di mira non c’erano jihadisti armati in procinto di compiere attentati, ma persone comuni.
Un episodio gravissimo, dunque, un misto di inettitudine, arroganza e disprezzo per le vite altrui. Eppure l’ammissione da parte del Pentagono è stata recepita con sostanziale indifferenza, non solo dai media e dall’opinione pubblica, ma dallo stesso Pentagono, visto che non sono stati annunciati provvedimenti di alcun tipo, men che meno le dimissioni dei responsabili, a cominciare dal ministro della Difesa (che probabilmente non si sente responsabile di alcunché).
Tutto ciò naturalmente non sorprende, tale è l’assuefazione generale agli “effetti collaterali” degli attacchi mirati e ai ricorrenti “tragici errori”: dopo tutto una decina di afghani in più o in meno non cambia niente… Sì, perché di questo si tratta: stiamo parlando di persone che non contano nulla – inclusi stavolta i vezzeggiati bambini, che in tante altre occasioni sono citati e stracitati per suscitare commozione –; si tratta di vite di scarto, il cui “peso” politico e mediatico è pressoché nullo.
Il “tragico errore” è stato recepito, digerito e archiviato in un battibaleno, senza conseguenza alcuna, per questa precisa ragione: si trattava di vite di poco conto. Basti dire che i due maggiori quotidiani del nostro paese, che pure hanno dedicato un numero enorme di pagine alla fuga da Kabul delle forze di occupazione, hanno liquidato la notizia fra le brevi o poco più, senza avvertire alcun bisogno di approfondimento, men che mai un moto di indignazione.
Questa noncuranza è invece il cuore di questa e di molte altre vicende del nostro tempo: stiamo praticando, noi occidentali (in questo siamo davvero “tutti statunitensi”), una distinzione sempre più netta e feroce fra noi e loro, fra vite da proteggere a ogni costo e vite sacrificabili senza darsi troppo pensiero. È una distinzione che nega alla radice la ragion d’essere della democrazia: l’habeas corpus, il riconoscimento che ogni vita è un valore in sé; nega quindi la premessa al principio di uguaglianza, più che il principio di uguaglianza stesso.
La divisione fra vite degne e vite meno o poco degne d’essere vissute è uscita dall’ambito critico e filosofico e oggi è praticata su vasta scala e tutto sommato accettata dalla gente che conta (politici, intellettuali, giornalisti) in molti luoghi del mondo: da Kabul al Mediterraneo, da Gaza alla Turchia dei profughi fino al confine fra Messico e Stati Uniti; è praticata in tutti quei luoghi dove crescono muri, a volte immateriali, sempre più spesso anche concreti, a dividere le persone lungo linee dettate dal peso geopolitico del passaporto. Un documento, questo, che non è più una semplice – per quanto odiosa – linea di demarcazione di status economico e sociale (certi passaporti – pochi – danno molte più opportunità di altri – moltissimi); oggi i passaporti, o meglio i passaporti di poco peso, sono come marchi impressi sulla carne di milioni di persone, a segnare identità minori, escluse dal gioco dei diritti (anche del diritto alla dignità e alla vita).
Questo è il mondo che abbiamo costruito; questo insegna la disastrosa guerra in Afghanistan, costata la vita a decine, anzi centinaia di migliaia di persone, tutte vite però di poco conto: insegna che siamo andati oltre le canoniche nozioni di razzismo e discriminazione e ci troviamo su un terreno di ancor più radicali modi di esclusione, siamo alla separazione fra forme di umanità diverse, che si distanziano ogni giorno di più: i meritevoli di vita e protezione da una parte, le vite di scarto dall’altra.
Forse è sempre – o spesso – stato così, ma c’è qualcosa di nuovo: sono via via caduti tutti i veli, i dubbi, le coperture, siamo vicini alla certificazione dell’esistenza di una doppia umanità. Niente più scandalizza, è come se vivessimo una guerra finale non dichiarata: da una parte quelli come noi, l’umanità vincente, con tutte le sfumature e le gerarchie economiche e sociali che ci caratterizzano; dall’altra i meno umani di noi, sacrificabili e sacrificati senza rimorso, nell’indifferenza.
Per onestà bisognerebbe che noi occidentali, umani di serie A, ridefinissimo tutti i concetti che in apparenza ci stanno a cuore – democrazia, diritti umani, benessere, sviluppo, progresso – includendovi la distinzione che pratichiamo rispetto agli umani di serie B, in modo da rendere quei concetti meno ipocriti.
Avremmo bisogno di un bagno di umiltà, di riconoscerci per quel che siamo diventati: una civiltà egoista, violenta e rapace, incapace di concepire e praticare sul serio i princìpi che afferma. A partire da questa ammissione, potremo (forse) ritrovare la via della decenza e da lì risalire la china, o almeno provarci.
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