di Emilia De Rienzo*
Ricordo che un giorno ho trovato dei ragazzi che prendevano a calci nei bagni Luigi. Anche se non erano della mia classe li ho fermati e ho chiesto loro cosa aveva fatto quel compagno. Niente, mi hanno risposto. Allora perché lo picchiate? Così, per divertirci, scherzavamo. Il ragazzo maltrattato si è alzato e ha confermato la versione dei compagni: stavamo solo giocando, mi ha detto con la tristezza negli occhi.
Si fa un gran parlare di ragazzi violenti, di bullismo, ma poco si fa per capirne le cause e per essere più presenti nella soluzione di questi problemi. Si usa violenza quando non si riesce ad articolare la propria voce, quando non si riesce ad affermare in un modo diverso la propria esistenza. Tra di loro i ragazzi non sono abituati, se nessuno glielo insegna, ad ascoltarsi, a soccorrersi. Si giudicano per come vestono, per come riescono nei giochi, per la simpatia o antipatia che suscitano, per l’aspetto fisico, ma non si conoscono veramente.
ARTICOLI CORRELATI
L’aggredire l’altro è normale, prenderlo in giro, insultarlo è uno “scherzo”, non hanno coscienza di far del male. È quotidiano prendere di mira qualcuno, farlo oggetto di scherzo senza accorgersi quando si supera il limite di sopportazione che l’altro può sostenere. Non sanno, soprattutto, dare risposte del loro comportamento, non sanno quindi cosa “vuol dire essere responsabili”.
È compito di noi adulti far comprendere la differenza tra scherzo e offesa, tra divertimento e aggressione dell’altro, far notare che ciò che noi soffriamo è sofferenza anche nell’altro, che la sensibilità può essere diversa, che qualcuno può essere più vulnerabile. Starebbe a noi parlare di sentimenti, di emozioni, ma forse anche noi abbiamo perso questi valori, forse anche noi non ne siamo più capaci.
Sta a noi educarli a “dare risposte”, a essere responsabili dei loro comportamenti non per “punirli”, ma per far loro prendere coscienza di quanto ogni piccolo gesto può far del bene o del male. Per renderli partecipi della vita degli altri, per aiutarli a sentirsi “individui” tra altri “individui” e non parte di un gruppo in cui comanda chi alza più la voce per farsi sentire.
È un lavoro lungo, continuo, attento. Troppo spesso liquidiamo questi comportamenti con un “sono solo ragazzate” o “una sospensione”, due estremi che nulla hanno a che fare con il lavoro di educazione alla responsabilità e all’affettività.
I bambini, i ragazzi oggi, sembrano più adulti, perché hanno i desideri dei grandi, ma in realtà sono sempre più immaturi affettivamente, sempre meno sanno decifrare le loro emozioni, sanno parlare dei loro sentimenti e delle loro paure. Perché sempre meno abbiamo tempo di parlare e stare con loro.
È importante allora creare spazi dove i ragazzi possano parlarsi, rispondere delle loro azioni, raccontare le loro difficoltà, spazi dove si impari l’ascolto, il dialogo, il confronto.
Come dice Jacques Lacan è importante
“Aprire spazi, margini perché abbia luogo quell’apertura che noi siamo, perché l’apertura possa darsi e lì allora darsi la parola”.
Uno spazio in cui si impara “l’alfabeto affettivo delle emozioni”, dove si impara ad ascoltare se stessi e ascoltando se stessi imparare anche ad ascoltare gli altri.
Abituarli a “guardarsi negli occhi”, a fare i conti con quel “volto” dell’altro di cui parla tanto Emmanuel Levinas. In tanti anni posso dire che ha funzionato. I ragazzi, anche se all’inizio hanno delle resistenze, sentono di essere considerati e presi sul serio, il loro punto di vista è importante anche quando non sempre condiviso, ma discusso come molti adulti, troppi non sanno fare.
.
* Insegnante, ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme
Lascia un commento