Il disastro del mondo si fa sempre più percettibile: in questo contesto, come possiamo ripensare la speranza in modo da farne uno strumento di lotta? In giro per il mondo, scrive Stefania Consigliere richiamando l’ultimo libro di John Holloway, ci sono gruppi in lotta perché il plusvalore non distrugga le loro fondamenta, altri che sperimentano nuove forme di autodeterminazione, e perfino nel cuore delle metropoli molti collettivi si stanno organizzando per aprire spazi la cui logica sia diversa da quella del “tutti contro tutti”: luoghi di mutualità, di solidarietà, di festa. “Sembra poca cosa a fronte dello strapotere economico, bellico, comunicativo e di controllo della macchina del capitale: e invece è l’essenziale, perché dimostra che, se il nostro mondo fa schifo, non è perché gli umani sono malvagi e corrotti, ma perché tutto è organizzato, da secoli a questa parte, in vista del profitto”
Nella terrea università neoliberista non si parla granché di speranza. E anzi, non se ne parla proprio, per non rischiare di esser presi per ingenui o di cadere nel cattivo gusto. Il piacere, la festa, i legami, ciò che ci muove e ci tocca, l’estasi, l’intenzionalità non umana, l’intelligenza dei modi di conoscenza non occidentali, la gioia dell’insurrezione, l’efficacia simbolica: tutto questo e molto altro (tutto ciò che, a tratti, riaccende le nostre vite alienate nella produzione e nel consumo) è scientificamente impresentabile e deve quindi essere taciuto e, laddove possibile, rimosso.
Bravo dunque John Holloway a nominare la speranza fin dal titolo del suo ultimo libro, La speranza in un tempo senza speranza (Edizioni Punto Rosso, Milano 2023), uscito in inglese nel 2022, fra la tormenta della gestione pandemica e quella del rilancio bellico. Com’è già capitato con altri scritti di valore, l’ho scoperto grazie a Comune-info e mi sono proposta di scriverne una recensione (un capitolo del libro di Holloway è leggibile qui Imparare a pensare la speranza). Col procedere della lettura, però, mi sono accorta che il punto non era tanto presentare il libro, e peggio che mai riassumerlo, ma metterlo in costellazione con altri testi – alcuni contemporanei, altri più vecchi – che aiutano a configurare la questione.
Baruch Spinoza e Ernst Bloch sono i due grandi nomi della speranza come categoria filosofica e politica: il primo la mette nel novero delle passioni tristi, perché non c’è speranza senza paura o invidia o anticipazione; il secondo ne fa il perno di un marxismo carico di tensione messianica. Poi il caso ha voluto che, in una kermesse primaverile di binge reading, leggessi il libro di Holloway a poca distanza da altri due testi recenti: La maledizione della noce moscata di Amitav Gosh e Taccuini del deserto di Ben Ehrenreich. Per via di una serie di rimandi interni, questo terzetto è entrato in costellazione con le Tesi di filosofia della storia di Benjamin, con Rivolta e malinconia di Löwy & Sayre e con l’intera opera di David Graeber.
La questione può forse riassumersi così: che rapporto abbiamo con l’idea di progresso? Per alcuni, quanto è accaduto dalla “scoperta” delle Americhe a oggi può ancora essere correttamente definito progresso; altri avvertono invece i morsi di una disperazione storica e di una disillusione metafisica ancora difficili da mettere a fuoco, ma laceranti.
L’ideologia borghese, insieme a un’ampia parte del marxismo, ha ritenuto a lungo che il “processo della società capitalistica” avrebbe automaticamente condotto a una società migliore: più ricca, più giusta, più comoda, più pacifica. Bastava procedere nella linea già tracciata (secondo la borghesia) oppure vegliare sul malato e accompagnarlo nel processo di guarigione detto “rivoluzione” (secondo il marxismo). Alcuni, fra cui Giacomo Leopardi, già dubitavano di questa narrazione, ma fu facile, mobilitando quella che oggi chiameremmo “macchina del fango”, dismetterli in blocco come reazionari (una geniale controstoria del romanticismo è raccontata nel libro di Löwy & Sayre). Nella loro malinconia, tuttavia, costoro avevano colto un punto importante. L’ottimismo storico del periodo che va dalla rivoluzione francese fino al 1914 riposava sulla rimozione dei fatti più indigesti della modernità: stermini coloniali, roghi delle streghe, enclosures, sfruttamento capitalistico, schiavismo, riconfigurazione produttivistica di corpi e affetti, disciplina di fabbrica sono le radici storiche di una violenza che il secolo seguente avrebbe declinato come genocidi, guerre mondiali, totalitarismi e catastrofe ambientale.
Sono le generazioni nate dopo il 1870 a teorizzare per prime e in modo consapevole tutta la tristezza di un mondo stregato, le cui ricchezze provengono dall’eccidio, il cui scopo è l’uniformazione del molteplice alla dinamica del capitale e il cui tamburo più profondo batte un ritmo di distruzione. A valle della «guerra dei Trent’anni del Novecento», solo una sorta di gigantesca schizofrenia – che ha preso le forme della guerra fredda e della pax hollywoodiana – poteva permettere di riproporre la civiltà occidentale e il suo “progresso” come unica desiderabile e di procedere come se nulla fosse alla distruzione di quel che restava di non moderno.
Oggi viviamo il momento in cui la cappa epistemologica si solleva e il disastro del mondo si fa percettibile: di questo, appunto, raccontano Gosh e Ehrenreich. Finita la grande illusione, il dolore degli umani deportati, schiavizzati e uccisi, quello degli animali nei mattatoi, quello delle foreste abbattute e delle terre avvelenate, diventa il nostro: difficile, in tanta angoscia, provare speranza. Ma il riaprirsi dei nostri occhi al mondo rivela anche altro: ad esempio, che non è vero che la sola civiltà degna del nome è quella occidentale moderna (il che ci libera dall’orrendo “fardello dell’uomo bianco”); che altri gruppi umani hanno organizzato i loro mondi in maniere diversissime (il che significa che è possibile anche a noi immaginare altro); che la foresta è ancora viva, insieme a tutti i suoi spiriti, e che, a saper fare le giuste domande, potrebbe perfino lottare con noi (il che ci chiede di imparare l’umiltà che serve per stabilire nuove alleanze con umani e non umani).
Il libro di John Holloway si colloca qui: come ripensare la speranza in modo da farne uno strumento di lotta? Cosa tenere, e cosa no, della lunga tradizione marxista? Come tenersi in equilibrio fra un’analisi economica spietata, ma capace di delineare lo sfondo reale delle nostre azioni, e il bisogno di urlare a squarciagola la nostra indignazione e la nostra insopportazione? Ai “vecchi” marxisti questo testo dirà, soprattutto, dell’urgenza di pensare altri mondi possibili; ai giovani inquieti passerà strumenti imprescindibili di analisi economica e strutturale, che né la scuola né l’università si preoccupano, oggi, di trasmettere. Non poco, dunque: e non c’è solo questo.
Un buon numero di testi recenti convergono, da diversi punti di partenza, verso una critica non solo degli effetti, ma dei presupposti stessi della modernità: l’arroganza di pensarsi civiltà superiore, il tempo lineare, l’individuo egoista, il meccanicismo, l’astrazione del denaro e della merce, il bando sulla gioia e sull’incanto, la dismisura e via dicendo. Tremano le fondamenta: è il momento di fare i conti col nostro essere, al contempo, vittime e beneficiari del progresso, col nostro discendere da avi spazzati via dalla tempesta e da avi che l’hanno cavalcata. In giro per il mondo ci sono gruppi in lotta perché il plusvalore non distrugga le loro fondamenta, altri che sperimentano nuove forme di autodeterminazione, e perfino nel cuore delle metropoli molti collettivi si stanno organizzando per aprire spazi la cui logica sia diversa da quella del “tutti contro tutti”: luoghi di solidarietà, di mutualità, di festa, di umana decenza. Questo “comunismo della vita quotidiana”, come lo chiamava Graeber, sembra ben poca cosa a fronte dello strapotere economico, bellico, comunicativo e di controllo della macchina del capitale: e invece è l’essenziale, perché dimostra che, se il nostro mondo fa schifo, non è perché gli umani sono malvagi e corrotti, ma perché tutto è organizzato, da quattro secoli a questa parte, in vista del profitto, dell’egoismo, del cinismo e, in ultima analisi, della disperazione.
La questione della speranza resta aperta. Nei miei momenti bigi, che trascorro in una città il cui passatempo preferito è il mugugno, mi sento più vicina allo spleen di Benjamin e Leopardi che all’intelligente messianesimo di Bloch. Ma sapere che, a partire dalle stesse premesse, un teorico del calibro di John Holloway arriva a un rilancio della speranza mi mette un certo cauto buonumore. Mi mette speranza, insomma.
Stefania Consigliere, antropologa, insegna presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università di Genova. Tra i suoi ultimi libri Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione (DeriveApprodi). Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza non dalla paura, con questa:
Il mondo devastato, inospitale e violento che vediamo intorno a noi è stato costruito da gente sana: individui razionali, nel pieno possesso delle loro facoltà mentali, che agivano in base alla massimizzazione del loro interesse, talmente generosi da costruire manicomi, prigioni e workhouses per chi non sapeva abitare la loro salute. Dicono che oggi anche sperare è folle: quindi grazie Comune di questa nuova chiamata alla follia, alla gioia possibile e a ciò che significa “restare umani”! (Marco: la tua speranza, che è anche la nostra, è viva e parla con la tua voce)
Giovanni Scavazza dice
“[…] Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.”
Quasi inconsciamente, [Winston] scrisse con le dita sul tavolo coperto di polvere: 2+2=5.
“[…] Io so che fallirete. C’e’ qualcosa nell’universo…non so, uno spirito, un principio…che voi non riuscirete mai a dominare.”
“Tu credi in Dio, Winston?”
“No”
“E allora cos’e’ questo principio che ci sconfiggera’?”
“Non lo so. Lo spirito dell’Uomo.”
“E tu ti consideri un uomo, Winston?”
“Si.”
“Se e’ vero che sei un uomo, Winston, tu sei l’ultimo uomo. La tua specie e’ estinta e noi ne siamo gli eredi. Non capisci che sei solo? Tu sei fuori dalla storia, tu non esisti.”
(Winston e O’Brien)
Aldo Zanchetta dice
No, noi siamo nella storia, pur fra mille incongruenze. Grazie a Stefania Consigliere, lucida e essenziale. Ebbi alcuni suoi scritti dall’indimenticabile Piero Coppo. A.Z.
Andrea Mattarollo dice
Mi hanno dato speranza i libri di Stefania, poi L’alba di tutto, che sto finendo, gli incontri a Napoli di Tutta un’altra Storia, un corso avanzato di antropologia medica che ho riascoltato più e più e più volte (e continuo), poi scoprire che tante, moltissime persone stanno guardando in altre direzioni rispetto a quelle che avevano guidato i loro passi fino ad ora…