di Franco Lorenzoni**
Cosa rappresenta il giorno della memoria oggi per bambini e ragazzi, in anni in cui stanno venendo a mancare gli ultimi protagonisti diretti e si chiude l’era dei testimoni? Tranne che per ristrettissime minoranze di alunni di famiglie dedite alla valorizzazione della memoria storica, il senso del giorno della memoria lo si può rintracciare solo a scuola.
Nelle famiglie regna l’afasia riguardo alla storia e il racconto orale di fatti accaduti alle generazioni precedenti si è talmente affievolito da essersi quasi spento. A partire dagli anni Ottanta, che sono stati il momento di maggiore rottura culturale nel nostro paese, la Storia con la esse maiuscola, venerata dalle organizzazioni di massa e dai movimenti collettivi del secolo scorso, si è rapidamente trasformata in oggetto polveroso di cui disfarsi. È normale dunque che genitori vissuti nell’ultimo trentennio non considerino più la narrazione storica un terreno fertile nell’educazione dei figli. Tutto ciò accresce enormemente le responsabilità della scuola.
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Le neuroscienze ci confermano come la memoria non sia un deposito, un archivio, ma una continua ricostruzione che si rinnova. Ricordo un convegno di qualche anno fa in cui Marcello Flores D’Arcais parlava del boom della memoria, che caratterizza da alcuni decenni gli studi storici, sottolineando come nemici della memoria siano la sacralizzazione che mitizza e la banalizzazione che tende a facili comparazioni, come quando si parla con superficialità della nascita di nuovi Hitler.
Il peso dato alle memorie personali delle vittime, così come alle memorie dei carnefici e di coloro che hanno collaborato passivamente, ha contribuito a incrinare le illusioni positivistiche di una storia ricostruita una volta per tutte nella sua oggettività.
C’è tuttavia il rischio – sottolineava Flores – che ciascun gruppo resti intrappolato in una sua memoria settoriale, negando la realtà delle nostre società complesse, in cui la compresenza di identità molteplici è un dato di fatto irreversibile. Queste sue considerazioni mi hanno fatto ricordare l’allarme sofferto e lungimirante lanciato da Alexander Langer trenta anni fa, all’inizio delle guerre nell’ex Jugoslavia, che riportarono la pratica della pulizia etnica in Europa, quando invitava a osservare con estrema attenzione i pericoli di ogni processo di recupero di identità fondato sulla separazione etnica. Aggiungerei oggi, in un paese che non è stato capace di approvare una moderatissima legge sullo ius soli e ius culturae (leggi anche Oltre la sconfitta dello Ius soli), che dovremmo riflettere a fondo sul monito radicale di Primo Levi, allarmato, che in molte occasioni non si stancava di ricordarci che, se accettiamo il fatto che uomini diversi non abbiano gli stessi diritti, dobbiamo sapere che in fondo a quella strada c’è il lager.
Lo studio della Shoah può essere una lente di ingrandimento che ci aiuta a riconoscere tutti gli stermini, ha ricordato più volte Renzo Gattegna. Considerazione sempre attuale, purtroppo, in un mondo in cui continuano a verificarsi stermini e genocidi, come in questi mesi in Birmania contro la minoranza islamica dei rohingya.
L’importanza della comparazione storica tra genocidi mi ha fatto tornare alla mente la testimonianza di due donne africane. Yolande Mukagasana, sopravvissuta tutsi al genocidio del 1994 in Ruanda, percorre da anni instancabilmente diversi paesi europei per narrare la sua storia soprattutto ai giovani, perché ci tiene che la parola genocidatario entri nel linguaggio comune, sostenendo con convinzione che non abbiamo nessuna garanzia che massacri e stermini a sfondo etnico o religioso non si ripetano. Stessi concetti sosteneva, negli anni Novanta, la militante dei diritti delle donne Khalida Messaoudi, esasperata dall’assoluta indifferenza con cui l’Europa guardava ai massacri perpetrati dai fondamentalisti islamisti in Algeria, che costarono al suo paese 200.000 morti.
Ciò che accade contro scuole e ragazzi cristiani in Nigeria risponde alla stessa logica che separava ebrei e rom da tutti gli altri, per condurli nei campi di sterminio.
Negli anni scorsi più volte mi è capitato di ascoltare insegnanti che raccontavano di ragazzi e soprattutto ragazze scoppiate in lacrime per la paura che arrivasse anche da noi l’ISIS. C’è un ulteriore motivo, allora, per tornare nelle scuole a proporre un confronto serrato con la storia, trovando strumenti e documenti che permettano a ciascuna ragazza o ragazzo di fare i conti individualmente, personalmente, con eventi storici che non possiamo dimenticare.
Credo sarebbe particolarmente importante narrare e fare incontrare ai giovani i percorsi di vita e le scelte dei giusti, dei persuasi, di coloro che si sono ribellati al male con puntuali ed efficaci scelte concrete di protezione e sostegno portato alle vittime innocenti.
Dobbiamo infatti cercare dei punti di appoggio, per tentare difficili processi di immedesimazione, senza i quali è difficile accendere nei più giovani la voglia di imparare dal passato.
È importante che anche in Italia si costruisca un museo, così come sono stati di grandissimo valore i viaggi ad Auschwitz organizzati da molte scuole negli ultimi decenni, ma altrettanto importante è pensare che se il calendario è costellato di feste civili, la scuola deve fare ogni sforzo per rinnovarne il senso non con frasi e cerimonie che rischiano di apparire retoriche, ma con la scelta di dedicare tempo e attenzione e cura a materiali capaci di fare avvicinare i ragazzi alla grande storia, attraverso approcci molteplici capaci di scavare in profondità, a cui dedicare tutto il tempo che necessitano. Si può partire magari proprio da alcune storie esemplari di giusti che non sono santi od eroi, ma donne e uomini che in date circostanze hanno ritenuto di dover pensare con la propria testa e hanno sentito la necessità di assumersi la responsabilità di opporsi al male. Una ribellione, la loro, che sono certo può ancora parlare ai ragazzi di oggi.
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