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Clandestini, migranti o rifugiati?

Lorenzo Guadagnucci
14 Novembre 2020

Il lessico della politica istituzionale e dei media nasconde e manipola. Parlano di clandestini invece di rifugiati, oppure di “guardia costiera libica” invece di gruppi armati (dal governo italiano) e l’uno contro l’altro, di “sindaci libici” invece di signori della guerra, di “campi libici” invece di campi di detenzione arbitraria e tortura… È stato il ministro dell’interno Marco Minniti, al tempo dei primi accordi con i potentati libici e della prima guerra aperta alle navi delle Ong, a fare proprio questo lessico falso e fazioso. La linea Minniti-Gentiloni è stata rafforzata dal duo Salvini-Conte e confermata dall’attuale gestione Lamorgese-Conte. Un lindore linguistico che cela l’orrore

Lampedusa. Foto tratta da unsplash.com

“Un’altra strage di rifugiati. Due naufragi davanti alla Libia”: questo titolo del quotidiano Avvenire è un’eccezione. Non si è (quasi) mai visto nel giornalismo italiano un linguaggio del genere: così vicino alla realtà, così utile alla comprensione di fatti drammatici.

Per anni tutti i giornali hanno scritto – e molti continuano a scrivere: clandestini. Clandestini per dire: gente che si nasconde, che ha qualcosa da nascondere, gente che non rispetta la legge, da cui prendere le distanze e trattare di conseguenza. Alcuni, da quale tempo e dopo avere opposto una lunga resistenza al cambiamento, hanno abbandonato questo epiteto (almeno nei titoli), ma raramente nelle redazioni dei quotidiani – lo stesso vale per i tele e radiogiornali – si trova il coraggio (in realtà è solo onestà intellettuale e professionale) di definire le persone in viaggio a rischio della vita nel Mediterraneo per quello che sono: rifugiati, appunto.

Qualcuno eccepirà, in punta di diritto, che il termine è impreciso, perché nessuno dei passeggeri dei barconi – tanto meno gli affogati – ha in realtà ricevuto, per ovvie ragioni, risposta positiva alla propria domanda di asilo; giusto, la definizione precisa sarebbe richiedenti asilo politico o protezione umanitaria; anzi, ancora più precisamente, potenziali richiedenti asilo o protezione: e tuttavia, poiché i titoli impongono una sintesi, rifugiati è il termine giusto. Quello che fa capire la realtà delle cose, la vera condizione delle persone.

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Si fugge dalla Libia e dai suoi campi di prigionia e tortura – tappa intermedia di viaggi più lunghi – per rifugiarsi in Europa e lì trovare riparo e un’occasione di vita. Né più né meno. Tecnicamente, una volta sbarcati, i fuggiaschi (spesso naufraghi) presentano domanda d’asilo e diventano, appunto, richiedenti asilo. Molti vedranno respinta la loro domanda ed entreranno in un tragico limbo – né rifugiati, né altro, magari formalmente espulsi, in qualche caso materialmente rimpatriati a forza – e solo alcuni otterranno l’ambita qualifica di rifugiato.

Quindi, sì, le persone che affrontano i viaggi della morte nel Mediterraneo sono, dal nostro punto di vista, dei rifugiati: tutti o quasi tutti, per quanto ne sappiamo, chiederanno asilo e una parte di loro lo otterrà. Sono tutti potenzialmente dei rifugiati ed è bene definirli così, in modo che sia ben chiaro quanto è ingiusta la sorte che viene loro inflitta – la morte invece dell’asilo – e quanta ipocrisia c’è nelle nostre parole.

A chiamarli rifugiati – figura nobile, alla quale sono appartenuti molti grandi della storia, presente nella nostra Costituzione all’articolo 12 – ci si capisce meglio. Si capisce che la nostra indifferenza è una forma di collaborazione al genocidio in corso nel Mediterraneo. Stanno affogando persone umiliate e violate nel corpo e nello spirito, persone che cercano da noi l’aria per respirare. Noi li ignoriamo, li respingiamo, fingiamo di non vederli e da anni li chiamiamo clandestini – o migranti, termine che ormai ha il crisma dell’eufemismo e non aiuta alla comprensione di quel che avviene – in modo da lenire il senso di colpa. Il lessico del cattivismo è la cifra dell’ipocrisia, il lubrificante dell’indifferenza. È il linguaggio della colpa.

C’è un vocabolario della politica e del giornalismo che nasconde la realtà e ne manipola la comprensione. Le cronache dal Mediterraneo, quasi immancabilmente (non succede però nell’articolo citato, a firma Nello Scavo), parlano con tranquillità di “guardia costiera libica”, in realtà varie polizie armate (da noi) e l’una contro l’altra, con un ruolo più che ambiguo nel traffico di esseri umani; di “sindaci libici”, ossia capiclan e signori della guerra coi quali si scende a patti per fermare i rifugiati; di “campi libici”, espressione che pudicamente dissimula l’esistenza di campi di detenzione arbitraria e tortura ampiamente descritti da reportage giornalistici e rapporti ufficiali; di “governo libico”, un modo per giocare a nascondino e lasciar intendere ciò che non è: la Libia è uno stato fallito e non ha un vero governo.

Fu il ministro dell’interno Marco Minniti, al tempo dei primi accordi con i potentati libici e della prima guerra aperta alle navi delle Ong, a fare proprio questo lessico falso e fazioso: l’accordo era con il “governo libico” per rafforzare la “guardia costiera” e riportare nei “campi” i “migranti”, persone che non avevano il “diritto” di entrare in Italia. Tutto pulito, tutto legale: un lindore linguistico che celava e cela l’orrore e precise responsabilità politiche, che la storia sta già giudicando e ancor meglio giudicherà in futuro.

La linea Minniti-Gentiloni è stata prima rafforzata dal duo Salvini-Conte e poi confermata dall’attuale gestione Lamorgese-Conte; il lessico, sui media, è rimasto nel frattempo più o meno lo stesso e questo la dice lunga sulla natura e l’indipendenza del giornalismo italiano. Con le dovute eccezioni, naturalmente: da una di queste siamo partiti, ma difficilmente farà scuola.

Aspettiamo con ansia di essere smentiti.


Comments

  1. Bernardo Severgnini says

    19 Novembre 2020 at 10:53

    Capisco e apprezzo il tentativo di fare chiarezza dal punto di vista lessicale. Ma a questo punto sarebbe corretto allargare ulteriormente il campo. Forse è improprio persino usare il termine migranti, nel senso che stiamo parlando di persone da tempo intrappolate in Libia, la maggior parte delle quali ha esplicitamente chiesto di essere rimpatriata nel proprio paese di origine, e si mette in mare perchè non trova altra possibilità. E’ allora il caso di parlare di ostaggi, piuttosto, e soprattutto di riconoscerli come soggetto politico che avanza istanze precise, non necessariamente legate all’asilo politico in Europa come la maggior parte dell’opinione pubblica italiana (da destra a sinistra) crede. Forse è il caso di ascoltare le voci dei diretti interessati, che dalla Libia parlano e lanciano appelli perlopiù inascoltati da chi è impegnato a coltivare le proprie condizioni.

    Rispondi
    • Bernardo Severgnini says

      19 Novembre 2020 at 10:54

      convinzioni*

      Rispondi

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