Se nel terzo millennio oltre due terzi della popolazione che abita il pianeta ha ancora drammatici problemi per l’accesso all’acqua, abbiamo il dovere e la responsabilità di pensare un modo diverso per concepirla. E’ più che mai necessario impedirne la mercificazione, dobbiamo renderne impossibile l’appropriazione da parte di gruppi e imprese speculativi e garantire sistemi di approvvigionamento non ispirati da logiche capitaliste e predatorie. Sedici anni dopo la “Guerra” che abbiamo vinto a Cochabamba, dice Oscar Olivera, il suo protagonista più autorevole, possiamo ricordare quella resistenza come una grande lotta che sembrava impossibile e che invece ha saputo unire le campagne e la città, ricostruire un tessuto sociale lacerato, recuperare la dignità, la reciprocità, la fiducia, l’armonia con la natura e la terra e tutti gli altri valori che i nostri padri ci avevano insegnato. L’autogoverno, l’autodeterminazione e una nuova forma “comunale” della politica sono le sole vie che possiamo seguire per difenderci
di Oscar Olivera
“Ci hanno derubato
ci vogliono vendere
se continuiamo a dormire
perderemo la nostra anima”
Panchi Maldonado da “Mai più”
Se la volontà politica collettiva dei popoli andini, e in particolare degli aymara, ha ancora validità nel nostro tempo, è perché il suo esercizio comunitario si basa su pratiche ancestrali che rompono, dal punto di vista logico e storico, con la produzione del capitale: l’individualismo, la cosiddetta etica protestante e la mercificazione delle relazioni sociali. In altre parole, è la nuova antichità delle tradizioni sociali e politiche andine ciò che più ha permesso che la resistenza si trasformasse in offensiva durante gli ultimi anni in Bolivia. In questo modo, al di là dell’offrire “il corpo alle pallottole” in modo collettivo, la forma “comunale” della politica si è trasformata in uno dei più efficaci strumenti contro il cosiddetto capitalismo selvaggio, il neoliberismo, e costituisce una possibile alternativa per la convivenza e la riproduzione della gente semplice e dei lavoratori rurali e urbani: nelle strade e nei sentieri, nei cabildos e nelle assemblee generali.
In questi sforzi collettivi titanici la gente della nostra terra ha dimostrato nel modo più concreto che “Sí, se puede!”. Che la definizione delle questioni che ci riguardano passa attraverso accordi e consensi non escludenti, come è successo in Bolivia nella Guerra dell’Acqua di Cochabamba nel 2000 e a El Alto nell’ottobre del 2003. Ci avevano tolto tutto, perfino il nostro naturale diritto alla vita, con la privatizzazione e il saccheggio del nostro patrimonio, abbiamo risposto recuperando la voce e dignità. Abbiamo gridato il nostro “Ya Basta!” all’avanzata del denaro.
Per gli aymara e per le comunità con tradizioni più solide, il tema dell’acqua è un patrimonio particolare: non è una proprietà che appartiene all’insieme degli esseri umani, è “una risorsa per la vita in sé”. L’acqua, cioè, in quanto fonte di vita, è sì una risorsa per gli esseri umani, ma lo è anche per le piante, gli animali e la terra. Come molti altri elementi del mondo, per gli aymara l’acqua è un regalo della Pachamama (la madre terra, ndt) e non può essere “proprietà” di nessuno (senza che questo metta a rischio la vita) perché non è stata donata a nessuno in particolare.
Se più di due terzi della popolazione attuale del pianeta ha problemi di approvvigionamento idrico, perché non è in grado di pagare il costo che implica il consumo dell’acqua, dobbiamo pensare a un modo diverso di concepirla. Un modo che ne impedisca in modo radicale la mercificazione, l’appropriazione da parte di un gruppo o di una impresa, e che invece consideri meccanismi più orizzontali di approvvigionamento non capitalista. Speriamo così che in futuro la responsabilità sull’acqua sia davvero collettiva.
Un dirigente del quartiere 24 giugno nella zona sud di Cochabamba diceva che la gente che non ha accesso all’acqua è incapace di “gestire le basi della propria vita”. E tanto nel sud di Cochabamba come nei quartieri di El Alto o in molte altre zone del mondo, l’emarginazione e il disinteresse da parte dello stato hanno fatto sì che le persone riscattassero le proprie tradizioni organizzative per risolvere i propri problemi. Le strutture già presenti nella quotidianità hanno permesso di trovare una soluzione.
In questa prospettiva, la Guerra dell’Acqua del 2000 non è stata altro che la risposta a un’aggressione contro la vita, dove il vecchio e il nuovo si sono incarnati in un No deciso, che ha rafforzato la capacità di fare le cose noi stessi e alla nostra maniera.
Sappiamo anche che il concetto di “commons” ha significati diversi nell’attualità. Alcuni sono relativi all’ambiente, altri alla produzione intellettuale (come pubblicazioni o software). Sappiamo che molte tradizioni vedono l’acqua e i semi come beni comuni, patrimonio umano, come ha recentemente spiegato Vandana Shiva riferendosi alle lotte contadine in India.
Il nostro contributo, se può essere di una qualche utilità assieme alle idee e proposte che ci hanno preceduto, va diretto a stabilire una distinzione che ci pare imperativa nella lotta globale di resistenza. Non solo di fronte alle posizioni delle istituzioni finanziarie internazionali che da tempo cercano di fare del nostro patrimonio un prodotto di mercato ma anche rispetto a un atteggiamento che ci pare decisivo: come ci pensiamo in questa lotta? E, soprattutto, da dove possiamo difendere ciò che vogliono rubarci? Attenzione, non stiamo parlando solo delle grandi imprese, ma anche degli stati e delle classi politiche.
Compagni e fratelli, compagne e sorelle, vogliamo raccontarvi un episodio che ci è accaduto una volta, camminando tra le comunità. Avevamo molta sete, chiedemmo dell’acqua a una donna anziana, lei ci diede un bicchiere bello grande, noi dicemmo “grazie” ma lei disse che non dovevamo ringraziarla perché lei non era la padrona dell’acqua. E’ così, l’acqua è una risorsa per la vita.
Nel 2000, noi – uomini e donne, giovani, bambini e bambine, anziani e anziane delle campagne e delle città, senza distinzioni di razza, etnia, classe sociale, posizione economica-, abbiamo difeso fino alla morte l’acqua e la vita. Abbiamo affrontato i poteri transnazionali che, in accordo con le élite reazionarie del paese, volevano impadronirsi dell’acqua. Convinti che l’acqua sia di tutti e di nessuno – per alcuni un dono di dio, per altri il sangue della Pachamama, un regalo generoso della nostra madre terra e quindi qualcosa di cui non ci si può impadronire -, siamo scesi in strada per lottare. Siamo usciti dalle nostre comunità, case e quartieri per sconfiggere una politica di deprivazione disumana, mercantilista e codarda, dove le multinazionali come Bechtel, Edison e Avengoa pretendevano di venderci l’acqua ottenuta raccogliendo la pioggia.
Oggi, 16 anni dopo, ci rivolgiamo a voi per ricordare ai popoli del mondo che quella Guerra dell’Acqua ha unito campagne e città e ha reso possibile la ricostruzione del tessuto sociale che 15 anni di neoliberismo avevano distrutto. In quei momenti di dignità, resistenza e lotta, abbiamo recuperato i valori che i nostri padri e i nostri nonni ci avevano insegnato. Valori come reciprocità, solidarietà, fiducia, complementarietà, rispetto e trasparenza. E’ stata ricostruita la convivenza sociale e soprattutto – a partire dall’acqua – si è ristabilita una relazione di rispetto e armonia con la natura, con la nostra madre terra.
Oggi, grazie alla forza accumulata e alle dolorose vittorie dei primi anni di questo secolo, stiamo imparando a rafforzare e consolidare la nostra alternativa. Nel conflitto in corso, sappiamo che quello che ci appartiene non può essere venduto, espropriato, e non può servire al bene esclusivo di alcuni. Ciò che ci hanno lasciato i nostri padri e i nonni è per i nostri figli. Noi boliviani umili abbiamo cominciato a considerare questo come il nostro dovere di fronte alla storia.
Il modello di sviluppo imposto dall’occidente ha collocato il pianeta in una condizione di estrema vulnerabilità, al punto di mettere a rischio la vita di tutte le specie che lo abitano, ad esempio con il buco nell’ozono, l’inquinamento dell’aria, l’arsenale nucleare e le armi chimico-batteriologiche. Con l’estrattivismo la situazione tende ad aggravarsi sempre più e diviene incontrollabile. I politici sanno che questo modello porterà benefici soltanto ai grandi gruppi industriali. Questi operano al di sopra degli stati, imponendo le proprie leggi e arrivando ad essere una nuova forma di colonialismo, tanto crudele e spietato per i popoli come lo fu l’invasione spagnola. Oggi non sono più l’oro e l’argento ad attrarre interessi, sono le terre amazzoniche e andine, le risorse naturali e la nostra cultura. Per quello l’acqua gli è indispensabile.
Il valore che l’acqua possiede nelle comunità andine, che se ne prendono cura, rispettano le leggi della madre terra e ne fanno un uso armonico, non ha alcuna importanza per l’occidente. Non ha importanza nemmeno se la flora e la fauna sono condannate allo sterminio. La società occidentale è antropocentrica, l’uomo occidentale si sente il re della creazione, sente che tutto è stato messo al suo servizio e che può fare e disfare secondo i suoi desideri. Non capisce che la madre terra ci dona le sue risorse per soddisfare le necessità di tutti i suoi figli e figlie.
Nel corso di migliaia di anni abbiamo saputo coltivare la vita, abbiamo forgiato la nostra cultura in modo conforme al nostro pensiero, allo spazio territoriale, ai principi di reciprocità, scambio, complementarità delle economie e in accordo con la nostra spiritualità per il beneficio di tutti e tutte.
L’acqua non è una risorsa minerale che serve alla vita, come crede l’occidente. L’acqua è più di questo. E’ un essere vivente, che ci dà anche la vita. Sono le vene che scorrono nel corpo della madre terra e danno vita all’universo. Ha la stessa funzione del sangue che ci scorre nelle vene. Se l’acqua scarseggia, ci ammaliamo. Se la perdiamo, moriamo.
Lei sa qual è il cammino che deve seguire e determina il suo letto. Se abbiamo bisogno che scorra per un altro cammino, con i nostri rituali le chiediamo scusa e la invitiamo a passare da un’altra parte. Fu così che nell’antichità si costruirono le opere di ingegneria idraulica che vediamo nei siti archeologici. Questo modo di pensare è stato fondamentale per la conservazione e riproduzione delle risorse idriche.
La visione dell’occidente rispetto alle culture andine è di totale ignoranza, si conosce solo quello che antropologi e sociologi, formati nelle loro università, hanno creduto di interpretare rispetto alle nostre culture. Hanno costruito una nostra presunta storia, totalmente errata e umiliante per gli indigeni.
Oggi vogliono insegnarci a gestire l’acqua e la terra, con una visione che non è la nostra, quando sono stati loro a danneggiare gravemente l’ambiente e le nostre risorse naturali. Lo stato parla del suo interesse ad integrarci nella società e a renderci parte attiva all’interno della nazione. Ma di quale nazione stanno parlando, dato che la loro nazione esiste solo sulla carta. Noi conviviamo con molte nazioni indigene non riconosciute come tali dallo stato, anche se abbiamo dato un’identità culturale ai vari paesi.
L’aspetto più paradossale è che gli stati che pretendono di integrarci si comportano seguendo una doppia morale: da una parte dicono di essere orgogliosi della biodiversità del paese e della nostra diversità culturale e si vanagloriano di questo davanti al mondo, ma allo stesso tempo reprimono, criminalizzano e incarcerano, quando gli indigeni, i contadini, i popoli, grazie alle loro culture ancestrali, si oppongono alle loro politiche difendendo territori e delle comunità.
Per l’agronomo l’importante è ottenere la maggiore produzione nel minimo spazio possibile, gli interessa solo quello che semina e non le altre specie che vivono nello stesso luogo. Per essere esperto dovrà conoscere le caratteristiche del suolo, la qualità dell’acqua, il clima e le caratteristiche dei semi da utilizzare. Tutte le sue conoscenze sono state apprese all’università e sui libri. E’ quindi una conoscenza standard, che pretende di essere applicata indistintamente a qualunque terreno.
Noi, gli uomini e donne delle Ande, pensiamo in un altro modo. Per noi la natura è un tutto. Non è un mezzo inerte, ma la somma di tutto ciò che esiste in un luogo, di quello che si vede e quello che non si vede. Lavorando correttamente e seguendo i rituali adeguati, possiamo assicurare il successo della semina. In questo lavoro non siamo solo noi che ci prendiamo cura di quello che seminiamo, ma ci sono anche altre specie ed entità della natura, che ci aiutano e meritano rispetto.
A questi governi interessa conservare il nostro ambiente per loro, senza gli indigeni, senza i popoli e le comunità. Non si tratta di un’esagerazione, basti vedere ciò che accade in Amazzonia, nei territori mapuche di Cile e Argentina, in Patagonia, o con gli indigeni del TIPNIS in Bolivia. Cercano di impossessarsi delle nostre risorse, dell’acqua e della biodiversità, appoggiandosi a una base legale che consenta l’usurpazione.
L’acqua è essenziale alla vita ed è un bene pubblico. Non può essere trattata come una merce, non può avere un valore commerciale ed essere sottomessa alle leggi del mercato. Se glielo consentissimo, farebbero il passo successivo con l’aria che respiriamo.
L’acqua è di tutti e di nessuno. Appartiene alla terra e agli esseri viventi, tra i quali ci sono gli esseri umani. La madre natura la distribuisce secondo le nostre necessità e le caratteristiche di ogni ecosistema. L’acqua non è un patrimonio dello stato. E’ patrimonio della terra. Affermare il contrario è un’aberrazione.
Da quanto tempo esiste lo stato attuale? E quanto tempo gli resta da vivere? Gli stati attuali non arrivano neanche a 200 anni di esistenza. Sulle Ande, invece, è da 20 mila anni che stiamo sviluppando una società in armonia con la natura. Questa società fu violentata dall’invasione europea, ma le nostre comunità, guardiane del passato, hanno conservato parte della scienza che i nostri antenati erano riusciti a sviluppare.
Lo stato, nel periodo di tempo in cui esiste, ha diritto solamente a vegliare sulla conservazione e il corretto uso delle risorse naturali, dei nostri beni comuni. Non può ipotecare o vendere quello che la terra ci dà gratuitamente e di cui si sono presi cura i nostri antenati. Lo stato non è eterno, mentre la natura è con noi da sempre.
E’ tale la fragilità degli stati che ci si sta già prospettando un cambiamento nella mappa dell’America andina per il 2020, e gli Stati Uniti cercano di creare una situazione geopolitica che consenta loro di continuare ad essere una potenza mondiale.
Dal Dipartimento della difesa nordamericano è filtrata l’informazione secondo cui paesi come Perú, Bolivia ed Ecuador sono condannati a scomparire perché non sono funzionali al progetto di globalizzazione. Ma è proprio in questi territori che ci sono gas, petrolio, acqua ed ingenti risorse naturali. Da questo punto di vista, gli indigeni sono un ostacolo che impedisce l’appropriazione di questi territori.
Abbiamo già detto che la scarsità dell’acqua è grave e preoccupa tutti. Per questo c’è stata una proposta che, secondo la prospettiva occidentale, sarebbe una soluzione efficace ai problemi di scarsità idrica. Tale proposta è stata resa pubblica in vari eventi internazionali e prevede che:
- in agricoltura si utilizzi l’acqua soprattutto per le coltivazioni ed alimenti transgenici, affinché l’uso sia più razionale e controllato. L’accettazione di questa politica sarebbe un attentato contro la biodiversità delle coltivazioni andine e amazzoniche, oltre che l’introduzione di coltivazioni estranee a questi ecosistemi che verrebbero così danneggiati.
- si dia priorità all’utilizzo dell’acqua per le coltivazioni di più alto valore commerciale. Cosa che porterebbe alla distruzione della produzione familiare nelle Ande, la base della sussistenza e della cultura dei popoli andini.
- gli investimenti privati siano il perno per risolvere il problema della scarsità idrica e che lo stato privatizzi il servizio.
- l’acqua sia trattata come una merce, soggetta alle leggi dell’offerta e della domanda, per attrarre così gli investimenti privati. Ciò si convertirebbe in arma di sterminio delle comunità andine e amazzoniche, che sarebbero obbligate ad emigrare in città e a vivere in condizioni di maggior miseria.
- venga data priorità all’uso dell’acqua da parte dell’industria estrattiva, anziché all’utilizzo che ne fanno le persone e la natura.
Il panorama che si presenta è allarmante e questo modello basato sull’estrattivismo e sul saccheggio dei popoli indigeni sta generando una serie di conflitti, che si stanno acutizzando sempre di più. Questo ci porta a dover accettare il fatto che l’acqua, il suo possesso e utilizzo, costituirà la base di uno dei nuovi conflitti che il mondo globalizzato dovrà affrontare.
In poche parole e per continuare a vivere, noi diciamo autodeterminazione e autogoverno. In Bolivia, dove la “piena delle acque” ha reso attuale tutto questo, pensiamo che questa sia non soltanto un’alternativa, ma una responsabilità.
Questo testo è stato elaborato con l’aiuto di Luis Gómez de México e Juan Rivera Tosi de los Andes Peruanos, sebbene non abbia il loro permesso, e naturalmnte con il pensiero, la parola e l’azione dei nostri popoli
Fonte: Desinformemonos
Traduzione per Comune-info: Michela Giovannini
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