
di Gerardo Marletto e Cécile Sillig*
L’articolo di Paolo Cacciari del 7 marzo (Sottrarsi al dominio del mercato) è molto interessante e merita una discussione. Lo vogliamo fare partendo dai risultati di una ricerca sulle cosiddette grassroot innovations che abbiamo condotto nell’ultimo anno. Ci pare infatti che la nostra ricerca possa aiutare a fare qualche riflessione ulteriore proprio sulla possibilità che l’economia alternativa (comunque la si voglia etichettare) occupi quello “spazio d’azione tra insignificanza e cooptazione” che Cacciari segnala.
Che cosa sono le grassroot innovations? In sintesi: sono innovazioni realizzate da gruppi di cittadini, associazioni, movimenti, i quali sono motivati principalmente dal perseguimento di valori e ideali diversi o contrari al sistema dominante. Con la nostra ricerca abbiamo studiato la storia di sei di queste innovazioni. Cinque sono ben note a tutti: il biologico, il faitrade, il vegan, il carsharing, la bicicletta (non la bici in quanto tale, ma l’uso politico che se ne è fatto in nord Europa a partire dagli anni Sessanta). La sesta non ha una definizione ben chiara – e non ha trovato terreno particolarmente fertile in Italia; noi l’abbiamo etichettata shared space. Si tratta di tutte quelle iniziativa “dal basso” (aree pedonali e piste ciclabili “fai da te”, orti urbani, ecc.) che puntano a recuperare lo spazio urbano ad un uso comune e condiviso. Nei casi più estremi c’è chi parla di guerrilla urbanism.
Una nota generale, prima di entrare nel merito di queste sei esperienze. Le grassroot innovations sono la dimostrazione tangibile che nuove pratiche, nuovi prodotti e nuovi servizi, nascono direttamente dalla società, con finalità ideali e secondo modalità cooperative e solidali. Questo con buona pace dei mai domi economisti neoclassici che ritengono che le innovazioni nascano invece nei mercati, in particolare quando è massima la competizione tra soggetti orientati al profitto. Invece, come vedremo, i cosiddetti imprenditori sanno fare bene un altro mestiere, non innovare, ma fregarsi le innovazioni prodotte da altri e fare con queste lauti profitti. Fine della nota generale.
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Storie del possibile
Pratiche e ricerche a confronto, Roma 21 e 22 aprile
Che cosa ci dicono le sei grassroot innovations che abbiamo studiato? Ci sono tre punti importanti che ci pare meritino una riflessione.
Primo punto: rifiutare il “mainstreaming” non vuol dire essere insignificanti, ma serve una struttura associativa.
Prima o poi in tutte le esperienze di grassroot innovation, c’è qualcuno che tenta di raggiungere una platea più vasta di cittadini o di consumatori facendo alleanze con soggetti esterni alla comunità originaria degli innovatori “dal basso”. Queste operazioni producono però una frattura, perché c’è sempre una parte del movimento che si rifiuta di aderire a questo tipo di alleanze. E così se abbiamo il bio e il fairtrade nei supermercati (e ora anche su Amazon), abbiamo anche tante esperienze solide e durature di bio ed equosolidale che continuano ad esprimersi al di fuori delle filiere del big business agroalimentare. Tutte le esperienze che rifiutano il mainstreaming riescono ovviamente a mantenere alta la coerenza coi valori e con le idee che all’origine erano alla base dell’innovazione. Ma vale la pena di sottolineare che mentre alcune di queste esperienze si frammentano e hanno una rilevanza marginale (come ad esempio nei movimenti di ciclismo antagonistico), altre sono riuscite a costituire una vera e propria alternativa al sistema dominante: è questo il caso della rete delle botteghe (o worldshops) del fairtrade. La chiave di questo risultato? Essersi dati una struttura associativa solida, addirittura su scala globale.
Secondo punto: meglio il mainstreaming con le istituzioni che con il big business.
Quella del mainstreaming è un’etichetta talmente generale che forse varrebbe la pena di abbandonarla. In ogni operazione di mainstreaming c’è un “con chi” e un “come” da valutare. Ci sono ad esempio casi – sostanzialmente virtuosi – di accordi con le istituzioni. Come la diffusione dei prodotti biologici a chilometro zero nelle mense scolastiche; o come le politiche per le città ciclabili in alcune città europee; o, ancora, come Autolib e Velib, i due sistemi parigini di condivisione di auto e bici. Al contrario, i casi di accordo con le grandi imprese funzionano molto peggio. Il fallimento totale si ha quando le imprese usano le grassroot innovation per darsi una verniciata di ecosolidale: si pensi alle campagne della fondazione Lavazza per le comunità dei produttori di caffè; alle biciclette elettriche di Enel; ma anche ad Enjoy, il carsharing di Eni. Ma bisogna anche chiedersi che cosa è rimasto dei valori etici originari in: car2go, carsharing di Mercedes; nei prodotti vegani che finiscono nel carrello della spesa (insieme a un paio di fettine da fare ai ferri…); nelle banane fairtrade (?) prodotte nelle grandi piantagioni.
Punto terzo: attenzione! Anche le istituzioni possono fare cooptazione.
Il movimento per lo spazio urbano condiviso (shared space) è interessante perché qui convivono esperienze molto diverse tra loro. Continuano ad esistere e proliferare le esperienze piccole e piccolissime di auto-organizzazione di quartiere, di strada, di condominio. Allo stesso tempo, in molti casi sono stati i Comuni e i Municipi a fare proprie queste azioni, integrandole nei propri strumenti urbanistici; spesso in una logica più dall’alto che dal basso, ma comunque rispettando in larga misura le motivazioni originarie. Ma ci sono anche casi di vera e propria cooptazione istituzionale: le esperienze di spazio condiviso diventano uno dei tanti fiori all’occhiello per operazione di vera e propria gentrificazione urbana, con le quali alcune città stanno dentro il modello liberista della competizione tra città “creative”.
Ci pare che il nostro lavoro di ricerca – di cui qui abbiamo provato a sintetizzare i risultati – dia una risposta affermativa alla domanda che pone Paolo Cacciari: sì, l’economia alternativa può occupare uno spazio tra l’irrilevanza e la cooptazione. Noi siamo d’accordo con quanto – e certo non da oggi – argomenta Cacciari in proposito. Ma ci pare importante alimentare la discussione, anche forzando un po’ la questione. La nostra ricerca indica che esiste uno spazio oltre la mera “testimonianza” dell’alternativa al capitalismo di mercato; uno spazio che può essere occupato e allargato, senza dover aspettare il “momento buono”. Ci sono infatti due “consigli” che vengono dalla nostra ricerca. Il primo: darsi una struttura associativa, anche su base nazionale e internazionale. Il secondo: provare – con cautela – a costruire alleanze con le istituzioni. Che sia meglio lasciare perdere le grandi imprese lo sanno già tutti (forse solo Legambiente ancora non l’ha capito…), non vale quindi la pena neanche di ripeterlo.
*Università di Sassari
inserisco un elemento nella discussione: c’è da sfatare un mito, almeno a roma
le botteghe di commercio equo, forse anche a causa di scelte come quella del consorzio ctm di “sposare“ amazon piuttosto che spingere sui punti vendita al dettaglio, sono in profonda crisi
e per sopravvivere, delegando l’originaria mission di essere sul territorio proposta concreta di un’economia alternativa, si contaminano alle mode imperanti, divenendo punti vegan, bio, e chissà che altro
a roma, quindici anni fa le botteghe del comes erano una ventina: oggi ne sopravvivono (è questo il termine corretto) meno della metà, più per testardaggine di chi ancora ci crede che per reale capacità di essere sostenibili
è il mercato, bellezza!