Abbiamo bisogno non solo di rifiutare la metafora della guerra utilizzata per contrastare il virus, ma di cercare e affinare linguaggi che ci permettano di vivere con intensità e pensare con profondità questo tempo. Scrive Franco Lorenzoni: “Nessuno avrebbe immaginato, solo due anni fa, che la cocciuta coerenza di una ragazza quindicenne avrebbe potuto scatenare una protesta giovanile mondiale per il clima, che non ha ancora prodotto risultati ma ha scosso le coscienze, ricordandoci quanto sia necessario rivedere la categoria dell’impossibile. Solo allargando il nostro immaginario e cimentandoci in un cambio radicale di paradigma possiamo ritrovare le radici della speranza”

Trovo profondamente errato e fuorviante il continuo riferimento alla guerra che si fa in queste settimane. Contrastare una pandemia e combattere una guerra sono due azioni che non hanno nulla a che vedere. La guerra, qualsiasi guerra, si fonda sull’assassinio e la soppressione del nemico, il contrasto a un virus letale può contare solo sulla cura, la ricerca scientifica, comportamenti coerenti che fermino il contagio. Inoltre, come ha giustamente notato un ragazzo, “ai nostri nonni e bisnonni, un secolo fa, veniva imposto di partire per il fronte e finire carne da macello in trincea, a noi si chiede solo di stare chiusi in casa su un divano: c’è una bella differenza”.
Di comune c’è solo la presenza di donne e uomini che rischiano la vita, anche se in guerra affrontano il pericolo per uccidere nemici e bombardare innocenti, mentre in ospedale o visitando pazienti, infermieri e medici rischiano prendendosi cura e cercando di salvare più vite possibili.
Questa metafora, sbagliata e abusata, non la dobbiamo tuttavia dimenticare. Quando si dovrà decidere come e cosa ricostruire per uscire da una crisi economica che si annuncia devastante, dovremo ricordare con lucidità che per difenderci da possibili e probabili nuove pandemie, per affrontare le gravissime conseguenze del surriscaldamento globale che provoca già oggi milioni di profughi e vittime per siccità, inondazioni e fame, sarà necessario mettere al centro di ogni rinascita futura la necessità e il valore della cura reciproca, della ricerca scientifica, dell’arte e della cultura intese nel senso più ampio. Dovremo ricordare che le spese militari e i soldi per acquistare armi sono del tutto inutili per affrontare le enormi sfide che abbiamo di fronte, perché delle forze armate abbiamo constatato che le uniche armi utili sono gli ospedali da campo montati dagli alpini e da altri reparti militari.
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Ancora una volta è parso evidente che dell’esercito può essere utile solo ciò che non è esercito: infermieri e medici militari che, invece di addestrarsi a usare armi per ferire, si sono formati per curare ferite. È tempo di ripensare con radicalità a ciò che davvero ci può difendere, riprendendo le intuizioni di Alexander Langer riguardo alla formazione in Europa di corpi civili di pace. Un solo sommergibile costa più di 5.000 posti letto di terapia intensiva, ha giustamente ricordato Gino Strada, che di guerre e ospedali ne sa qualcosa.
Abbiamo sicuramente bisogno di più posti letto e ospedali migliori in ogni regione del nostro paese, dunque non potremo più tollerare tagli alla sanità pubblica. Abbiamo bisogno di più scienza e ricerca, quindi migliori università e ricercatori pagati degnamente, abolendo ogni numero chiuso per l’accesso alle facoltà. Abbiamo bisogno di una scuola più ricca, aperta e di qualità, con insegnanti in continua ricerca e formazione per riuscire finalmente a dare a tutte le ragazze e ragazzi la possibilità di terminare con successo i loro studi. Dovremo cercare di aumentare considerevolmente il numero dei laureati, che ha percentuali ridicole nel nostro paese, e affrontare di petto la ferita sociale della dispersione scolastica perché la povertà educativa, che è drammatica fonte di discriminazione sociale, va contrastata con politiche coerenti e l’impegno di ciascuno in ogni campo – dall’educazione alla formazione, all’arte e alla cultura diffusa nel territorio – perché la scuola da sola non ce la può fare (leggi anche il Manifesto dell’educazione diffusa, ndr).
Lo sconcerto planetario di fronte a una tragedia della pandemia, che sta coinvolgendo miliardi di esseri umani, offre una straordinaria lezione a tutti noi e ci ricorda che l’alternativa è, davvero, tra istruzione e distruzione, tra scienza, conoscenza lungimirante, capacità di cura reciproca e passiva rassegnazione a modi di produrre, accumulare ricchezze, costruire e abitare che portano alla distruzione del territorio e dei fragili equilibri del pianeta che abitiamo. Naomi Klein sostiene che
“solo una crisi reale o percepita produce un vero cambiamento”. A una condizione, tuttavia: “Quando una crisi si verifica, le azioni che vengono intraprese dipendono dalle idee che circolano”.
E allora è alle idee che circolano che dobbiamo prestare tanta attenzione quanta ne stiamo prestando al virus letale che attenta alle nostre vite. Ciascuno di noi – in particolare chi insegna – dovrebbe fare ogni sforzo per mantenere viva l’attenzione al linguaggio. Possedere un linguaggio per narrare questo tempo straordinario, tanti linguaggi per ragionare e provare a capire ciò che sta accadendo, è il più grande dono che la scuola deve tentare di offrire (anche a distanza) a bambine e bambini, a ragazze e ragazzi che stanno vivendo momenti che ricorderanno tutta la vita. Questo tempo straordinario non sarà dimenticato, ma non lo si può comprendere davvero senza matematica e statistica, senza intendere qualcosa di biologia e di chimica.
Stiamo assistendo a eventi inimmaginabili e spaventosi e, come tutto ciò che è spaventoso, porta in sé elementi sconcertanti ed eccitanti. Chi ha mai visto le strade di New York deserte? Chi ha mai visto la propria città vuota e silenziosa? E allora cercare e affinare linguaggi che ci permettano di vivere con intensità e pensare con coscienza e profondità questo tempo che stiamo vivendo è più che mai necessario per nutrire la nostra memoria. E la memoria è tutto. Noi siamo la nostra memoria.
Guardarci dalle metafore che informano il nostro sentire ci aiuta non solo a fare esperienza con maggiore consapevolezza, ma anche a provare a immaginare una società capace di contrastare le malattie e catastrofi che ci attendono.
Nessuno avrebbe immaginato, solo due anni fa, che la cocciuta coerenza di una ragazza quindicenne avrebbe potuto scatenare una protesta giovanile mondiale per il clima, che non ha ancora prodotto risultati ma ha scosso le coscienze, ricordandoci quanto sia necessario rivedere la categoria dell’impossibile. Solo allargando il nostro immaginario e cimentandoci in un cambio radicale di paradigma possiamo ritrovare le radici della speranza.
La diffusione della metafora della guerra amplifica la conflittualità sociale, connaturata ai periodi di crisi. Perciò bisogna impegnarsi a divulgare una cultura della pace e bisogna imparare a negoziare col prossimo, altrimenti la “guerra” sarà davvero l’unica alternativa.
Molti
aspetti condivisibili in un contesto educativo come quello vigente (quel recinto di cui spesso ho parlato che mira a migliorare le cose ma non a oltrepassarle) e certamente nel filone del “repetita iuvant” di concetti come l’esperienza, la conoscenza del mondo, la libertà in educazione, la matafora della guerra, le ricette pedagogiche in tempi di crisi, il pensare, seppure timidamente, a luoghi diversi dall’edilizia scolastica per fare degli esempi. Una riflessione che tanti stanno facendo anche per contrastare l’iperattività culturale e mediatica non sempre disinteressata e di una specie di mercato nero delle idee più disparate dei tempi difficili. C’è qualche spunto in linea con il mio pensiero in fatto di “scuola” (non a caso tra le virgole) e di luoghi dell’educazione. A volte ho l’impressione, e non appaia come una banalità, che chi non abbia vissuto personalmente, anche per uno scarto anagrafico di qualche anno, le scuole prima delle riforme dei primi anni ‘60 abbia perduto tanti dati esistenziali utili per riflettere sulla scuola oggi e che non si
possono recuperare dalle storie di altri. Questa mancanza di fondo la percepisco in molti “addetti ai lavori”, a volte perfino nei miei attuali amici di scrittura e lettura. È come se mancasse l’aver vissuto una parte essenziale di un racconto. E allora spesso non ci si capisce e si danno per scontate cose che non lo sono poi tanto. Ma forse è la mia esperienza eclettica (I maestri-genitori
praticanti Freinet, l’architettura, la scuola, l’estetica, il fare arte..) che mi porta ad essere un po’ divergente. Comunque mi piace “l’immaginario
radicale” ma quando prelude ad un reale radicale. Approfondirò
Continua, grazie a Comune info, la riflessione sull’ingiustificata metafora della guerra, che necessita la nostra voce per una contro-narrazione efficace e onesta. Dice bene Franco Lorenzoni “dell’esercito è utile solo ciò che non lo è”, quei medici e infermieri che dentro l’esercito si fanno agenti di cura. Richiama Calvino che ci invita a cercare nell’inferno ciò che inferno non sia, per cambiare serve immaginare, per piantare nuove idee serve dissodare il terreno dell’immaginario, a partire da quello di ognuno di noi.
La pubblicitaria Annamaria Testa ha scritto giorni fa, nel suo blog NeU, una nota interessante sulla quale ho riflettuto a lungo.
La metafora della guerra riferita all’epidemia mondiale, scrive, è pericolosa, muscolare e fuorviante. Sappiamo tutti quanto sia potente, ma potremmo fare uno sforzo creativo, come ha fatto il Papa che la chiama tempesta.
Questa tragica esperienza che noi, nati dopo la guerra, stiamo vivendo increduli, dovrebbe farci riflettere anche sull’uso delle parole, spesso usate per stupire.
Questa esperienza se non genera cambiamenti ci farà si arretrare in una epoca buia. La mia generazione ha realizzato esperienze eccellenti nella scuola: sperimentazioni, laboratori, creatività, saperi agiti e, se non li recuperiamo nelle analisi e nei fatti, perdiamo e sarà per sempre: “andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia”.
Questa epidemia è una opportunità per rivedere:
– la struttura del comunicazione che non può essere sempre e solo verticale
– il numero di studenti per classe: siamo passati da 20 a 35 mortificando l’apprendimento agito
Poi c’è la Sanità che è stata altrettanto mortificata a vantaggio delle strutture private e inefficienti. Si chiamano eroi i medici e gli infermieri e, come scrive una infermiera dell’Ospedale Maggiore di Bologna “Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché chi ti chiama eroe in tempo di guerra è lo stesso che in tempo di pace ha svilito, mortificato, dissacrato la professione.
Non permettere a nessuno di chiamarti eroe. Perché chi lo fa ha la passione per gli “slogan”…isterici e riduttivi.” ?