di Emilia de Rienzo*
Un bambino non si definisce. I bambini non possono essere definiti. Ognuno ha una sua storia. Ognuno ha un suo bagaglio di vissuti, ognuno sa qualcosa e non sa qualcosa d’altro, ognuno ha il suo carattere. Qualcuno sa relazionarsi agli altri, qualcun altro è timido, scontroso, impaurito. Qualcuno piace, qualcun altro non sa come piacere.
Ogni bambino è unico.
Un bambino non si definisce. È qualcosa, ma è anche qualcos’altro e altro ancora…
Un bambino non ama sentirsi dire: sei il solito disordinato, non concludi mai niente, sei maleducato…
Ma non ama neanche sentirsi dire: sei è bello, intelligente… Ogni definizione imprigiona dentro un “personaggio” buono o cattivo che sia. E il bambino non vuole che lo si rinchiuda in una gabbia. Lui è in movimento, sta esplorando il mondo, e in questo mondo sta sperimentando se stesso.
Se di un bambino si dice che è bugiardo, perché allora dire la verità che esigiamo da lui? Se è svogliato, inconcludente e distratto, come può pensare di riuscire a concentrarsi su qualcosa troppo difficile per lui? Se è, invece, un bambino intelligente, capace, cosa succederà il giorno che sbaglierà, che non sarà all’altezza di quello che pensano di lui?
Le parole sono importanti per chi le ascolta e per chi le pronuncia, forgiano il nostro pensiero, ci abituano ad essere aperti o a chiuderci in una gabbia le cui sbarre sono i pregiudizi, le parole ci mettono in movimento e ci abituano a credere che il cambiamento è possibile oppure ci raccontano che tutto è già stato scritto, che uno è fatto così e non può cambiare.
Ed allora, se proprio lo vogliamo, forse è meglio dire che quel bambino, quel ragazzo ha avuto un comportamento antipatico e non che è antipatico, o che ha fatto un bel lavoro, non che è proprio bravo e che ci aspettiamo che non sbagli mai.
E noi adulti forse faremmo meglio ad ammettere che non sappiamo cosa fare, piuttosto che dire che non c’è nulla da fare. Forse faremmo meglio ad ammettere le sconfitte, e provare e riprovare ancora.
E noi adulti forse sarebbe meglio che imparassimo a parlarci, ad ascoltarci e a non giudicarci, a creare un mondo dove la domanda ha più valore della risposta e dove chiedere aiuto non vuol dire sentirsi dei falliti.
La fragilità non è una malattia, ci costituisce, ci rende unici e veri, ci rende umili e attenti, ci aiuta a creare una realtà dove “prendersi cura” dell’altro e di sé, diventa il nostro modo di essere e di stare al mondo, un mondo che abbiamo voglia di esplorare, senza fretta, senza secondi fini, solo con l’intenzione di conoscerlo, di scoprirlo, di ampliare i nostri orizzonti, un mondo in cui i nostri bambini possano diventare quello che sono e non quello che noi vorremmo che fossero.
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Claudia Michelesi dice
Bellissimo articolo
maomao comune dice
Emilia De Rienzo, una delle poche grandi certezze, in una stazione web piena di domande
Fiorella Palomba dice
Ciao, Emilia. Le bambine e i bambini non si “definiscono” (ho usato il plurale, ma il concetto non cambia) è un titolo perfetto, un monito che gli adulti dovrebbero ricordare spesso.
Perché incasellare sempre? Perché DIRE sempre e ASCOLTARE di rado? Loro hanno bisogno di ascolto anche quando dicono le bugie. Queste bugie sono il loro mondo fatto anche di esagerazioni, di invenzioni. Bisogna attrezzarsi per decodificare *_*