Ci sono cose che non si possono non vedere ma non si devono guardare. Per dirla con Mbembe: “Ciò che costituisce la razza è prima di tutto un certo potere dello sguardo”. Scrive Gian Andrea Franchi: “L’apparato visivo culturale provvede automaticamente a chiudere le fessure dei muri che tengono insieme lo spazio sociale, muri dell’abitudine, dell’indifferenza, della paura”. Eppure è possibile in qualsiasi momento imparare a guardare, creare reciprocità, trasformare un luogo in una polis

“Ciò che costituisce la razza è prima di tutto un certo potere dello sguardo”
(Achille Mbembe, Critica della ragion negra, p. 187).
Lo sguardo che vede e non guarda. Lo sguardo educato a vedere e a non guardare. Ci sono cose che non si possono non vedere, ma non si devono guardare o che comunque non si guardano. Un povero si vede e non si guarda, anche se gli si fa la carità; un barbone si vede con fastidio e non si può guardare.
C’è un tizio qui a Trieste, un uomo alto con radi capelli rossicci che gli ricadono lungo il cranio. Cammina a fatica su grossi piedi informi. Spesso lo vedo seduto su un gradino, sempre nello stesso posto che guarda la gente fra l’irato, l’ironico e il disperato, così mi sembra. Non si può non vederlo, ma certamente non lo si guarda. È inquietante.
Tutte le situazioni inquietanti che cadono sotto gli occhi non si guardano. L’apparato visivo culturale provvede automaticamente a chiudere le fessure dei muri che tengono insieme lo spazio sociale, muri dell’abitudine, dell’indifferenza, della paura… A ciò provvedono anche i media, anche quando mostrano cose inquietanti: cadono però dentro il meccanismo di distacco della rappresentazione. Ciò che è rappresentato in un telegiornale, in un dibattito, in un documentario, viene per ciò stesso neutralizzato, ridotto a notizia, da cancellare con un sospiro, nel migliore dei casi…
Tutto ciò si vede molto bene con i migranti. In questo caso, però, ci sono della situazioni in cui il vedere diventa sguardo. Una di queste è la piazza della Stazione di Trieste, un luogo in cui il vedere diventa sguardo e, se è sguardo, diventa atto: relazione, socialità, polis, politica (leggi anche La lavanda dei piedi).

Lo sguardo che trasforma il bisogno in relazione è uno sguardo politico: l’accoglienza crea una polis. Questo sguardo non è soltanto quello rivolto verso il migrante ma anche quello che il migrante rivolge a noi: è uno sguardo reciproco. Noi trasformiamo il migrante in essere umano portatore di diritti che sono un’emanazione del suo corpo in quanto centro di relazioni. E il migrante trasforma noi, che rinunciamo all’indifferenza tipica della nostra condizione privilegiata di cittadini “normali”, cioè normalizzati, in esseri veramente sociali, nasce un frammento di polis: noi-e-loro diventiamo politici.
Certo questo è solo un piccolissimo inizio. Piccolo come un seme. Bisogna andare oltre il momento, l’incontro in piazza, andare verso una socialità e società alternative. È importante però cominciare.
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Insegnante di filosofia, Gian Andrea Franchi da alcuni anni con Lorenza Fornasir promuove periodiche azioni lungo la rotta balcanica con cui portare medicinali e scarpe ai migranti in Bosnia e creare relazioni. Ha aderito alla campagna 2019 di Comune Ricominciamo da tre: “Reti di relazioni come Comune sono strumenti importanti, anzi essenziali, come contributo alla costruzione di pezzi di quella società solidale di cui c’è un bisogno vitale”.
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