
di Carlo Ridolfi*
Il 6 maggio 1848 a Santa Lucia, alle porte di Verona, l’esercito del regno di Sardegna, comandato da Carlo Alberto di Savoia, e quello austriaco, che aveva a capo il generale Josef Radetzky, si fronteggiarono in una battaglia della Prima guerra di indipendenza italiana. Il bilancio finale fu di 110 morti e 776 feriti nelle fila piemontesi, 72 morti e 190 feriti in quelle austriache, che risultarono, almeno in quella giornata, essere dalla parte dei vincitori. Più di cent’anni dopo, quando i miei compagni ed io frequentavamo le scuole elementari, era costume dell’istituto che frequentavamo di accompagnarci in uscita nel luogo in cui fu eretto il monumento a ricordo della battaglia e di ascoltare un insegnante – sempre quello: un maestro con la barbetta che ricordava quella di Napoleone III – che rievocava l’evento con toni abbastanza aulici, o almeno così stanno nel ricordo.
Per me, per noi, il 1848 corrispondeva ad un passato dai contorni indistinti, che stava più o meno tra gli assirobabilonesi e Garibaldi. Né le lezioni di storia a scuola né le commemorazioni ufficiali riuscivano a darci il senso e lo spirito di condivisione necessari a interpretare e far proprio un avvenimento che si era svolto a due passi da casa nostra e nel quale decine di esseri umani avevano perso la vita. Erano maggiori l’empatia e la commozione che ci pervadevano quando vedevamo sugli schermi del cinema parrocchiale Burt Lancaster cadere per mano di Gary Cooper in Vera Cruz (1954) di Robert Aldrich o Giuliano Gemma prigioniero in Arrivano i Titani! (1962) di Duccio Tessari.
Non so se accade esattamente la stessa cosa. Sarebbe necessario interrogare bambini e ragazzi. Tuttavia, ad una disamina anche solo epidermica, l’impressione che le tante giornate che sono state definite in termini istituzionali come dedicate alla commemorazione di qualche particolare evento o epoca di eventi abbiano su studenti e studentesse il medesimo effetto è davvero forte.
In un suo libro molto importante Giovanni De Luna[1], ne stende un elenco che è quasi impressionante:
…la legge 20 luglio 2000 che dichiara il 27 maggio “giorno della memoria” legandolo alla Shoah e alla deportazione “dei militari e politici italiani” nei campi nazisti; la legge 30 marzo 2004 che indica il 10 febbraio “giorno del ricordo” in memoria della vittima delle foibe; la legge 15 aprile 2005 he istituisce il “giorno della libertà” in data 9 novembre, in ricordo dell’abbattimento del muro di Berlino; la legge 4 maggio 2007 che dichiara il 9 maggio “giorno della memoria” dedicato alle vittime del terrorismo; la legge 12 novembre 2009 che introduce quella data come “giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace”.
E ancora, proseguendo in un elenco che è quasi impressionante, il 4 ottobre come “Giornata della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse”; il 2 ottobre per la Festa dei nonni; e proposte di legge per giorni della memoria dedicati alle vittime africane durante l’occupazione coloniale, alle vittime dell’odio politico, della criminalità, del comunismo, dei gulag sovietici, di tragedie causate dall’incuria dell’uomo e delle calamità naturali, dei disastri ambientali e industriali, del dovere, del lavoro, dell’emigrazione italiana all’estero, della persecuzione religiosa.
Questo per rimanere nei confini nazionali. Se poi aggiungessimo anche le giornate internazionali, potrebbe essere plausibile la composizione di un calendario annuale nel quale praticamente quasi ogni giorno è dedicato a qualcosa o qualcuno, come una specie di agenda laica che ai santi del calendario cattolico aggiunge o sovrappone ricorrenze e personalità di altro tipo.
Nell’epoca in cui si usa e si spreca il termine “evento”, la “evenientizzazione” quotidiana cancella le specificità. Se tutto è evenemenziale, nulla e-viene più, più si distacca dalle cose e dalle persone di ogni giorno.
La domanda, tuttavia, è un’altra. Quali sono i modi per riuscire non solo a trasmettere le nozioni della storia, che pure è materia irrinunciabile sia nella scuola che nella vita dei singoli, ma anche e soprattutto a comunicare la memoria viva e vitale di passati anche molto recenti[2]?
Una modalità opportuna, da maneggiare tuttavia con la massima cura, è l’uso di testi cinematografici. Trattandoli con superficialità e pigrizia intellettuale, si corre il rischio di produrre indifferenza o, peggio, effetti controproducenti. Cito solo qualche esempio negativo al quale ho potuto assistere in molti anni di azione formativa sul cinema svolta nelle scuole di ogni ordine e grado. Possiamo ottenere ripulsa e disgusto (Il nome della rosa di Jean Jacques Annaud usato nella scuola elementare per ‘documentare’ cinematograficamente il Medioevo); ilarità e cinismo (Schindler’s List di Steven Spielberg in prima media per la Giornata della memoria); noia e chiusura (Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman in un liceo).
È necessario, dunque, trovare modi e forme di comunicazione efficace. Un solo esempio alternativo, credo sufficiente e illuminante. La mitridatizzazione perversa a causa della quale rischiamo di considerare ormai scontate e non più implicanti emotivamente immagini e filmati sconvolgenti su naufragi e morti di donne uomini e bambini nel Mediterraneo, potrebbe essere forse almeno posta in discussione se si percepisse, si sapesse, si considerasse che anche solo pochi decenni fa numeri imponenti di nostri connazionali, di nostri parenti, a volte anche molto stretti, hanno affrontato analoghe traversate, spesso insieme alle medesime fatiche e umiliazioni, dall’Italia verso l’Europa o altri continenti o dal Sud al Nord del paese.
Mettere in relazione, quando possibile anche diretta e fisica, l’esperienza di italiane e italiani che hanno attraversato la ventura di una migrazione (non necessariamente negativa o drammatica, ci sono state e possono esserci anche storie positive), con quella di migranti provenienti dalla Siria o dall’Est Europa o dal Corno d’Africa, potrebbe essere uno dei tentativi non solo per superare resistenze e pregiudizi, ma anche e soprattutto per guardare in faccia donne e uomini in quanto tali e non più come categorie astratte di tipo sociologistico o statistico[3].
Mio nonno, nato nel 1896, a otto anni, era l’inizio del secolo scorso, stava in Svizzera con suo padre a lavorare come muratore. Mio figlio Lorenzo, che otto anni li fa quest’anno, non lo ha mai conosciuto. Il racconto – testi, registrazioni audio-video, fotografie, filmati etc. – delle esperienze vissute dal suo bisnonno potrebbe essere utile, molto più che molta retorica spesa in commemorazioni che durano, anche nel senso, lo spazio di un mattino, a proporgli riflessioni e sollecitazioni all’approfondimento anche emotivo.
Questo quando, per il corso naturale della vita umana, non si abbiano vicino i testimoni diretti. Ma altre occasioni si potrebbero cogliere e costruire, andando in cerca di microstorie prossime a noi nel tempo e nello spazio.
Oppure continuiamo a portare i nostri figli e nipoti in processione coatta e a scadenze fisse davanti a monumenti che rischiano di non trasmettere più nulla di significativo per la loro vita presente e futura?
[1] Giovanni De Luna: LA REPUBBLICA DEL DOLORE. Le memorie di un’Italia divisa. Feltrinelli. Milano, 2011.
[2] Un’ottima “categorizzazione dei rischi”, riferita alla Shoah, ma che si potrebbe estendere per analogia a molti altri esempi storici, si trova in: Valentina Pisanty: ABUSI DI MEMORIA. NEGARE, BANALIZZARE, SACRALIZZARE LA SHOAH. Bruno Mondadori Editore. Torino, 2012.
[3] Nelle prossime settimane, con un progetto che metterà in relazione Rete di Cooperazione Educativa, centro “E. Balducci” di Zugliano (UD), Radio Magica e alcune Università, si cercherà di porre in azione una strategia comunicativa intergenerazionale. Proveremo, tra le altre attività, anche qui a usare il cinema, facendo riferimento in particolare a due opere di epoca diversa, cercandone costanti e variabili sia linguistiche che narrative: Il cammino della speranza (1951) di Pietro Germi e Io sto con la sposa (2014) di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry.
* Rete di Cooperazione educativa C’è speranza se accade@
L’adesione di Carlo Ridolfi alla campagna Facciamo Comune insieme:
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