Nella melassa comunicativa di un linguaggio solo in apparenza “comune”, dove tutto si semplifica e quel che è essenziale si confonde, su alcuni concetti fondanti dell’esistenza del nostro tempo diventa sempre più indispensabile fare chiarezza. La minaccia di restringere l’ambito in cui si annida il razzismo alle preferenze sul colore della pelle, così come quella di avvalorare fraintendimenti concettuali tutt’altro che ingenui – ad esempio quelli che riducono un sistema complesso istituzionale, politico, sociale, ideologico, simbolico, mediatico ai sentimenti di odio e paura o, ancora, di associarlo frettolosamente alle “guerre tra poveri” – in Italia e in Europa è ormai radicata da tempo. In questo breve articolo, Annamaria Rivera, impegnata da una vita intera a contrastare le rappresentazioni politiche e mediatiche infondate e ingannevoli sull’argomento, sintetizza con la consueta esemplare cura gli elementi essenziali che ci aiutano a far luce sulle pratiche e sull’insieme delle manifestazioni espressive che possiamo riconoscere come razziste
Come premessa, conviene rimarcare che il termine “razzismo”, al singolare, è preferibile a “razzismi”, se si vuole cogliere il carattere unitario del concetto, al di là delle variazioni storiche ed empiriche del fenomeno. Paradossalmente, per nominare un tale sistema, siamo costretti/e a usare un lemma la cui etimologia rimanda alla credenza nell’esistenza delle “razze”, criticata e poi abbandonata da una buona parte delle stesse scienze sociali e biologiche che avevano contribuito a elaborarla. “Razza” è, infatti, una pseudo–categoria tanto infondata quanto paradossale, essendo basata sul postulato che istituisce un rapporto deterministico fra caratteri somatici, fisici, genetici e caratteri psicologici, intellettivi, culturali, sociali.
In sintesi, il razzismo è definibile come un sistema di credenze, rappresentazioni, norme, discorsi, comportamenti, pratiche, atti politici e sociali, volti a svalorizzare, stigmatizzare, discriminare, inferiorizzare, subordinare, segregare, perseguitare categorie di persone alterizzate, e ciò fino alla strage e allo sterminio.
Scrivo alterizzate poiché nella realtà fattuale, il “colore” o l’effettiva distanza culturale e/o sociale dal noi sono alquanto irrilevanti nella scelta delle vittime, come comprova la tragica storia dell’antisemitismo. Lo stigma applicato a certe categorie di persone può prescindere da qualsiasi differenza somatica, fenotipica, culturale o relativa alla provenienza, essendo l’esito di un processo di costruzione sociale, simbolica, politica.
Basta dire che nella geometria variabile del razzismo italiano dei decenni più recenti, il ruolo di capri espiatori e di bersagli di campagne allarmistiche è stato attribuito, di volta in volta e fra gli altri e le altre, a persone migranti albanesi, “slave”, romene, delle quali, fino a prova contraria, non si può dire che siano “negri/e”, oppure che siano estranei/e alla storia e alla cultura europee.
Il razzismo diviene sistemico quando è direttamente o indirettamente incoraggiato o legittimato da istituzioni, nazionali e sovranazionali, nonché da mezzi di comunicazione. Quando l’intolleranza “spontanea” verso determinati gruppi o minoranze, diffusa nella società, è avallata e legittimata da istituzioni, anche europee, e da apparati dello Stato, nonché dalla propaganda e da una parte del sistema dell’informazione, è allora che s’innesca il circolo vizioso del razzismo.
Il sistema-razzismo è il più delle volte sorretto da dispositivi simbolici, comunicativi, linguistici, che sono in grado di agire sul sociale, producendo e riproducendo discriminazioni e ineguaglianze. Soprattutto esso è riprodotto, avvalorato, legittimato da un complesso di leggi, norme, procedure e pratiche routinarie: ciò che viene detto razzismo istituzionale, il quale finisce per generare non solo discriminazione, ma anche stratificazione di disuguaglianze in termini di accesso a risorse sociali, materiali, simboliche (status, cittadinanza, lavoro, servizi sociali, istruzione, conoscenza, informazione…).
A tal proposito, esemplare è il caso della delegittimazione istituzionale, se non della criminalizzazione, non solo delle ONG che praticano ricerca e soccorso in mare, ma anche di chiunque, fosse pure individualmente, compia gesti di solidarietà verso persone profughe e migranti. Tutto ciò per non dire del contributo delle istituzioni italiane alla strage di persone profughe e migranti, del quale uno dei pilastri è costituito dal Memorandum d’intesa fra la Libia e l’Italia, la quale in tal modo legittima non solo le stragi nel Mediterraneo, ma anche gli orrori compiuti dalla cosiddetta Guardia costiera libica e quelli che si consumano nei “centri di accoglienza per migranti”, in realtà degli autentici lager.
È indubbio che un tale esempio dall’alto non faccia che incoraggiare e legittimare intolleranza e razzismo “dal basso”. Per limitarci all’Italia, si potrebbero citare i numerosi episodi di barricate (reali o simboliche) contro l’arrivo di richiedenti-asilo; ma anche le sempre più numerose rivolte, dette spontanee, in quartieri popolari, contro l’assegnazione di alloggi a famiglie di origine immigrata. E’ ben noto: più che mai in tempi di crisi, ma anche allorché le rivendicazioni sociali e il conflitto di classe (come si diceva un tempo) non hanno più lingua e forme in cui esprimersi, accade che il disagio economico e sociale e il senso di abbandono da parte delle istituzioni alimentino risentimento e ricerca del capro espiatorio.
Tuttavia, in questi casi non potrebbe essere più impropria e ingannevole la formula “guerra tra poveri”, che, solo in apparenza non-razzista, finisce per rappresentare aggressori e aggrediti/e quali vittime simmetriche; e per fare delle persone indigenti “in guerra tra loro” gli attori unici o principali della scena razzista. In realtà, a socializzare, manipolare, deviare il rancore collettivo, istigando e talvolta perfino guidando tali rivolte, sono spesso militanti di gruppi di estrema destra. In tal caso, il circolo vizioso del razzismo non fa che produrre, se non il rafforzamento, comunque la legittimazione, per quanto possa essere implicita o involontaria, della destra neofascista.
Lo schema ideologico e narrativo che fa perno sulla locuzione “guerra tra poveri” è, in fondo, simmetrico o contiguo a quello che s’incentra sulle antitesi-chiave sicurezza/insicurezza, decoro/degrado. E a proposito di circolo vizioso del razzismo, non è casuale che tali antitesi abbondino, in particolare, nel testo della legge Minniti del 18 aprile 2017, n. 48 («Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città»).
In fondo, tale legge non fa che tradurre e legittimare la percezione comune per la quale migranti, rifugiati/e, rom, senzatetto, marginali sarebbero importatori di degrado, insicurezza, disordine sociale. In definitiva, essa tematizza in termini di pericolosità sociale lo stile e le pratiche di vita, spesso imposte, di coloro che sono considerati/e “fuori norma”.
Per tentare di spezzare o almeno incrinare il circolo vizioso del razzismo occorrerebbe costruire un ampio movimento di massa antirazzista, degno di un’impresa così ardua. Attualmente siamo alquanto lontani/e da una simile prospettiva.
Toni Maraini dice
Cara Annamaria, brava, bravissima per tutti i tuoi articoli, per continuare a denunciare, riflettere, indignarti… esprimendo quanto va detto con forza e ragione, e quanto condivido, e in tante/tanti condividiamo con te e in cui ci impegniamo nonostante il silenzio e marasma che ci attornia… Grazie per dare voce allo scandaloso e ingiusto stato di cose.
Gabriella Gagliardo dice
Cara Annamaria, grazie per la lucidità e la chiarezza del tuo articolo. Come altre volte accaduto con altri tuoi testi, lo utilizzerò a scuola con gli studenti. Va fatto un lavoro paziente e sistematico per abituare i giovani a pensare e confrontarsi, e questo è un ottimo strumento.
Romina Pennisi dice
Molto istruttivo e chiaro nel ricostruire le dinamiche che generano comportamenti aberranti. Purtroppo la strumentalizzazione dell’estrema destra trova terreno fertile in un sentimento ostile nei confronti di chi è percepito di volta in volta “altro” che è diffuso nella società italiana. Serve allora una vasta e profonda campagna antirazzista, come hai detto tu, che vada a sradicare dai cuori delle persone questi convincimenti che a volte sono persino inconsapevoli.
Cristiana Scoppa dice
Minniti dovrebbe vergognarsi. E la sinistra correggere le sue aberrazioni, con urgenza.
teresa lapis dice
grazie Annamaria imparo sempr ascoltandoti per la condivisione del senso delle parole, cosa così rara ormai
ter 3356024651
Enrico Calamai dice
Grazie, cara Annamaria, per avere ancora una volta messo a nudo il carattere svalutativo e violento dei termini razza ed etnia.
E’ possibile a mio avviso ipotizzare un momento nel passaggio da bestia a uomo in cui il padre-padrone dell’orda primordiale riconosce una somiglianza con il nemico che giace nel sangue ai suoi piedi e si appresta a divorare. E possibile che quella ipotetica creatura astuta, selvaggia ed premorale, intuisca che la rinuncia ad incorporare il nemico ucciso – se generalizzata e fatta da tutti rispettare come tabù – potrebbe arginare a suo favore la violenza che altrimenti prima o poi lo travolgerà. La scoperta di una comunanza umana comporta in altre parole quella di un altro, bestiale, di cui è lecito nutrirsi, mentre, inversamente, ridurre il nemico ad altro, consente di ucciderlo pur senza cibarsene. L’alternativa a mio avviso può venire da un antispecismo che neghi l’esistenza di un diritto umano sulla vita animale e ambientale, in tal modo superando il dualismo io-non io, che è alla base della mostruosa forma di etnicismo, in primis culturale, in cui viviamo.
Nicoletta Pirotta / IFE Italia dice
Grazie Annamaria, diffondo pubblicandolo sul sito della mia associazione.
Isabella peretti dice
Grazie Annamaria chiara come sempre