Guardando il mare. ViviCecioni e i semi dell’autogestione. Le voci e i volti del giardino del Liceo. L’educazione dell’Orto in condotta. L’ascolto dei ragazzi fa crescere insieme. Mai trascurare il respiro della società. Il protagonismo dei giovani cura la città. Nessuno deve perdersi a Shangai. Passo dopo passo, avanza la scuola di tutti. Una scuola che cammina. La partecipazione che sorprende. L’inchiesta di Territori Educativi sulle scuole aperte e partecipate a Livorno racconta la gioventù “bruciata” che inchioda e ramazza, discute e progetta come vuole essere educata. È perfino meglio del baccalà alla livornese
Vogliamo dirci la verità? Per quanto si vada indietro nelle tracce di pensiero scritto e argomentato nei secoli, non è mai successo che a quindici, sedici anni si potesse immaginare questo pianeta come un sasso. Un corpo che orbita nello spazio quasi privo d’acqua, avvolto da esalazioni velenose e senza vite umane. Poi, sull’autobus, capita di ascoltare che si dica: il futuro è nelle mani di una generazione bruciata dalle dipendenze tecnologiche e dalla pigrizia. Colpa della scuola, lo sa? E dunque della società, che concede troppe libertà, non educa alla fatica e non insegna niente, nemmeno il rispetto.
Al di là dell’evidenza degli stereotipi e dell’utilizzo impenitente dei luoghi comuni, la cui portata sarebbe però letale sottovalutare, quando proviamo ad allungare gli orizzonti del tempo perdiamo di vista il fatto che non c’è futuro che non derivi da un presente che sappia immaginare, e che si doti degli strumenti e della capacità per farlo bene. Per questo sarebbe più imperdonabile che mai non cambiare in profondità la prospettiva e la direzione dello sguardo con cui generalmente ascoltiamo e osserviamo quella gioventù bruciata. In modo particolare, sarebbe indispensabile farlo laddove le pratiche educative si collocano, anche a scala molto ridotta, in un presente capace di tessere e ritessere la trama dei tempi di vita quotidiana e le dimensioni comunitarie a partire dalle esperienze e dalle pratiche concrete.
Anche il solo vivere è, a suo modo, scuola
Questa nostra inchiesta è dedicata alle scuole aperte e partecipate di Livorno, una città un po’ indolente che, come recita un altro luogo comune, molto irritante ma quantomai radicato nella scuola, ha straordinarie potenzialità ma non si applica. Lo dice, in apertura, Claudio Marmugi, insegnante e genitore di una studentessa del liceo Francesco Cecioni, ma anche autore, attore, regista di teatro e cabaret. Uno che, tra le altre cose, esprime al meglio la cifra inimitabile della comicità livornese e qui disegna un bel ritratto cittadino che si conclude, in modo illuminante, spiegando che Livorno, a volte, sa essere metafora della vita e anche il solo vivere è, a suo modo, scuola.
A differenza di quel che sostiene la logora citazione rassegnata (almeno dal nostro punti di vista) di una splendida commedia del Novecento, non sono gli esami ma è, o dovrebbe essere, il processo dell’apprendere a non finire mai. A patto, però, che l’apprendimento, anche a vivere, sia vera attività di relazione. Sia imparare ad apprendere e a stare bene gli uni con gli altri. Quel che oggi si riduce sovente al verbo convivere e che, men che mai, andrebbe ridotto, umiliandolo, alla semplice azione dell’accumulare, possedere o ingurgitare conoscenze al fine di acquisire meriti.
Nelle immagini che illustrano quest’introduzione, poco più di un indice ragionato, e in molte di quelle che sono disseminate lungo tutto il dossier, si vedono ragazze e ragazzi che spazzano, aggiustano sedie, sistemano aiuole. Stanno dando vita a un progetto di rigenerazione del giardino esterno al Liceo Francesco Cecioni in corso da due anni. Un progetto piccolo, modesto quanto esemplare, che nasce da una battuta d’arresto, da una perdita e, per certi versi, da una sconfitta, seppur momentanea, si spera.
Nell’estate del 2018, grazie a una convenzione con l’associazione ViviCecioni, si decise di mettere a disposizione del progetto che voleva aprire la scuola alla partecipazione alcune aule. “Erano in un’ala un po’separata, nascosta, ma era stata una vittoria perché potevamo gestirle in autonomia”, racconta la professoressa Laura Gambone, docente e presidente dell’associazione. “Quindi abbiamo preso le chiavi e iniziato con le attività pomeridiane autogestite dai ragazzi o dai genitori coinvolti nel progetto”. Fino al 2020 si facevano esperienze importanti e diverse, dai corsi di cinese e arabo a quelli di tai-chi e filosofia. Poi è arrivato il Covid e tutto è scivolato in un vuoto irreale, sospeso ma fermo, chiuso. Altro che scuole aperte. Intanto, alla guida della scuola, si alternavano ben quattro direzioni diverse in tre anni. Le aule dentro la scuola non sono più state concesse.
Quel fare che non erano costretti a fare
Tutto finito? Macché, quelle e quelli di ViviCecioni, alcuni docenti, qualche genitore generoso con il suo tempo e soprattutto gli studenti e le studentesse si sono guardati intorno e hanno immaginato. Si poteva reinventare uno spazio bellissimo, grande, ampio, con tante potenzialità e del tutto inutilizzato. Così è nato il gazebo dentro e fuori al quale vediamo nelle immagini affaccendarsi la fatica, l’entusiasmo e la voglia di imparare a far da sé di tanti esemplari della gioventù “pigra” che inchioda e ramazza, discute e progetta. È bello sentirsi utili all’ambiente e alla comunità, raccontano nel video girato da Lorenzo e Margherita.
Non hanno mica fatto una rivoluzione, e certo si sono pure divertiti, quei ragazzi, ma guardarli deve aver fatto bene al cuore di molte persone. In fondo, si tratta solo di mettere su un gazebo e ripulire un giardino, certo, ma nemmeno le rivoluzioni si giudicano solo dai risultati ottenuti. C’è dell’altro, spesso più importante. E a noi della redazione di Territori Educativi, generalmente piuttosto attenti a tenerci lontani dalla retorica, hanno fatto venire in mente “No te rindas”, poesia di Mario Benedetti, una delle stelle più luminose della grande letteratura latinoamericana del Novecento, che ci piacerebbe molto quei ragazzi leggessero. “Non ti arrendere, che la vita è quello/continuare il viaggio/perseguire i tuoi sogni/ liberare il tempo/togliere le macerie e scoperchiare il cielo”, dicono i suoi versi più belli.
Molto spesso, per costruire e rendere bello come loro quello spazio, i liceali del Cecioni hanno scelto di dedicare a quel fare che non erano costretti a fare interi pomeriggi del sabato. Magari per prendersi cura della compostiera, messa su con la sapiente collaborazione di Slow Food della condotta di Livorno. Valentina Gucciardo, che l’ha fondata con altri, racconta qui la lunga, straordinaria storia della associazione, ispirata alla lentezza e alla consapevolezza di quel che si mangia. E poi spiega la genesi di un titolo, “L’orto in condotta”, nato da un gioco di parole non solo efficace ma di grande attualità.
Saper ascoltare i ragazzi
Nelle attività svolte intorno al gazebo del Progetto delle scuole aperte “ho visto dei lavori stupendi”, dice Manuela Mariani, attuale Dirigente di un Liceo che conta duemila studenti e ne sta per accogliere, garantendo a tutti il diritto di scegliere dove studiare, quasi altri cinquecento. Poi, però, precisa che “quando si attivano progettualità aggiuntive rispetto alla didattica ordinaria, le scuole devono avere anche personale a disposizione in grado di vigilare e garantire sicurezza”. È il grande tema della responsabilità che, almeno in apparenza, fronteggia quello dell’autonomia dell’apertura delle scuole e del diritto all’autogestione. Un tema aperto, complesso, che va affrontato con pazienza reciproca e che potrebbe sciogliere le sue inevitabili asperità – tutti i diritti vanno conquistati – nell’idea di una partecipazione vera. Anche perché la professoressa che dirige il Liceo è convinta che le scuole “non dovrebbero essere relegate al canonico mandato con percorsi scolastici tradizionali”, ma si deve partire dai bisogni dei ragazzi e dei loro genitori, aggiunge, altrimenti si rischia di diventare una scuola autoreferenziale, che immagina o crea dei bisogni nei ragazzi che magari sono appannaggio degli adulti. I ragazzi vanno ascoltati sempre, conclude, più li si ascolta e più si cresce insieme: la relazione educativa è questa.
La collega Cristina Grieco, che l’ha preceduta alla guida del Cecioni, oggi ha assunto un incarico diverso e molto autorevole. Presiede l’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa, Indire, tutt’altro che estraneo, dunque, ai temi della partecipazione e di una nuova relazione tra scuola e territorio, soprattutto tenendo in conto, come spiega, che la scuola è respiro della società. Il respiro non è solo essenziale alla vita, ça va sans dire, ma rivela anche lo stato di salute interiore, profondo di un corpo, dunque della società stessa. Perché segnala inquietudini, ansie, passioni di ragazze e ragazzi che chiedono di trasformare un “modello” tutt’ora ben ancorato a una concezione di tipo trasmissivo che prevede, appunto, una rigida separazione tra discipline curricolari ed extrascuola, tra il mondo e le aule.
Completa il versante più istituzionale della nostra inchiesta l’intervista alla vicesindaca Libera Camici, che considera preziose le sinergie tra scuola e quartiere e non nasconde che si fa fatica a favorire la partecipazione dei più giovani. Per questo il Comune ha istituito un organo democratico elettivo specifico, il Consiglio Comunale dei Giovani, e ha favorito l’ingresso dei sedicenni nei Consigli di Zona, strutture chiave della partecipazione decentrata. Ma è del tutto evidente che resta ancora molto da fare.
Sorprese, partecipazione e porte da aprire
A Livorno ci sono naturalmente altre scuole ed altre Dirigenti scolastiche che si sono distinte per l’attenzione e l’impegno nell’apertura alla relazione con il territorio. Qui segnaliamo due esperienze originali e rilevanti che la nostra inchiesta ha preso in esame anche per la qualità e la diversa età di coloro che le frequentano. La prima è quella dell’Istituto comprensivo Micheli-Bolognesi del quartiere Shangai, una zona molto popolare che prende il nome da una geografia assai lontana, ma soprattutto dalla notevole distanza dal centro cittadino: la proverbiale ironia livornese. La Dirigente Cecilia Semplici ne racconta le difficoltà culturali, sociali ed economiche, il problema maggiore non poteva che essere la dispersione scolastica. Per questo, da tre anni, è stato promosso un accordo di rete con 36 partner di tutta la città, che serve a incoraggiare anche un’educazione alla cura dei beni comuni, alla cittadinanza attiva, alla pace e al rispetto delle differenze. La scuola è aperta anche d’estate e sta promuovendo iniziative assai belle e importanti (leggete le didascalie delle foto). Nessuno deve più perdersi per strada, a Shangai.
La seconda esperienza è quella dell’Istituto Comprensivo Benci-Borsi, dove c’è una forte pluralità delle culture di provenienza e le famiglie delle bambine e dei bambini vengono da una decina di Paesi differenti, un tratto consolidato del tessuto urbano del centro di Livorno. Qui la prima domanda a cui rispondere, una domanda che abbiamo visto formulare tante e tante volte nel Progetto nazionale delle scuole aperte e partecipate in rete, è semplice: come includere tutti gli studenti e tutte le famiglie in una comunità unita e legata al territorio senza lasciar nessuno indietro? La risposta, spesso, è un po’ meno semplice. Però, magari ci vuole un po’ di fatica e immaginazione in più, poi la ricchezza della buona convivenza tra la diversità di tutti, il sale dell’intercultura, fa presto a diventare valore aggiunto. Anche per questo è tanto utile l’outdoor learning. E per questo, racconta la Dirigente Simona Michel, è nato il progetto “La scuola che cammina“, che unisce trenta soggetti cittadini e fornisce un sostegno alle problematiche causate dal disagio che può emergere qua e là dall’incontro di mondi diversi che vogliono star bene insieme.
Abbiamo lasciato per ultimo uno degli articoli senz’altro più importanti di questa inchiesta. Mica fessi, noi. È quello di Claudia Casini, la prima laureata in Ingegneria Edile Architettura presso l’Università di Pisa, dove insegna Recupero e riqualificazione ambientale, urbana e territoriale. È intitolato “La partecipazione che sorprende” perché racconta, con grande precisione e freschezza, un progetto di democrazia, a scala di quartiere, in cui tra l’attenzione, l’impegno, la fatica, soprattutto nella ricerca del consenso di tutti, a un certo punto fa capolino la necessità di prendersi anche il diritto di lasciarsi sorprendere. Ed è proprio attraverso quel piccolo uscio o quel grande portone del “non previsto” che passano soprattutto l’esercizio faticoso dell’ascolto e l’apprendimento dal fare. Leggete quel che scrive Claudia, è un racconto vero.
A Claudia, a Margherita, a ViviCecioni, a tutti i gruppi di ragazze e ragazzi della gioventù bruciata che si gettano con tenacia ed entusiasmo nell’avventura di aprire le scuole, i quartieri e le città – ma anche a chi ha avuto la pazienza di leggerci fin qui – vogliamo regalare in conclusione delle parole di Fernando Pessoa che ci sembrano all’altezza del compito di chi, malgrado tutto, ha nelle mani ancora il presente e il futuro di questo pianeta: “Sarò sempre quello che aspettava che gli aprissero la porta, accanto a una parete senza porta”.
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