Un mese fa Confindustria e sindacati confederali hanno firmato a Palazzo Chigi l’accordo per porre fine al blocco dei licenziamenti introdotto all’inizio della pandemia. Il sindacato sosteneva che l’accordo conteneva un impegno a utilizzare tutti gli ammortizzatori sociali evitando il licenziamento immediato. Dopo un mese la valenza di quel presunto impegno è sotto gli occhi di tutti, Confindustria arraffa il denaro pubblico e poi fa il suo mestiere: nel migliore dei casi prova a ridurre i costi e ad aumentare i profitti. Come sempre. La Cgil non è cieca. E allora cosa aspetta a togliere la sua firma da un accordo che consente nei fatti una sola interpretazione, purtroppo più che prevedibile?
Il 29 giugno scorso, Confindustria e i sindacati confederali hanno siglato un accordo a Palazzo Chigi, con il quale si poneva fine, a partire dal 1 luglio, al blocco dei licenziamenti introdotto all’inizio della pandemia per evitare che migliaia di persone e famiglie rimanessero senza lavoro e reddito a causa della crisi economica, sanitaria e sociale.
I sindacati confederali hanno allora gridato vittoria, affermando che nell’accordo vi era un impegno da parte di Confindustria a non ricorrere al licenziamento immediato, ma ad usufruire di tutti gli ammortizzatori sociali (cig, contratti di solidarietà etc.). Peraltro tutti a costo zero per gli imprenditori.
Confindustria ha subito corretto il tiro, affermando che non di impegno si trattasse, bensì di una raccomandazione ai propri associati.
E’ passato un solo mese e i risultati di quella vittoria sindacale sono evidenti a tutti: già il 2 luglio, finito il turno di lavoro, i dipendenti della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, in Brianza hanno ricevuto senza preavviso una mail con oggetto “chiusura dello stabilimento” e l’annuncio dell’avvio della procedura di licenziamento collettivo per tutti i 152 dipendenti, con effetto immediato.
Il 9 luglio è toccato agli oltre 500 lavoratori della Gkn Driveline di Campi Bisenzio, a Firenze, che da allora hanno intrapreso una lotta che li ha portati non solo ad avere una grande solidarietà nel territorio, bensì a fare della loro situazione un caso nazionale.
Mentre il licenziamento di altri 400 lavoratori dell’ex Embraco di Riva di Chieri in Piemonte è stato rimandato all’ultimo momento, è arrivata la notizia che Whirlpool, multinazionale specializzata nella produzione di elettrodomestici, ha confermato l’avvio della procedura di licenziamento collettivo per i 327 lavoratori della stabilimento di Napoli.
Sono tutte multinazionali aderenti a Confindustria e se le loro situazioni sono giunte alla ribalta per la capacità di insorgenza operaia, molti altri licenziamenti stanno avvenendo in sordina e senza alcuna risonanza nelle piccole e piccolissime imprese.
Diciamolo chiaro: Confindustria sta facendo il suo mestiere, ovvero utilizza la pandemia per ottenere cifre enormi di denaro pubblico (siamo intorno ai 100 miliardi) e per ristrutturare il mondo del lavoro, riducendone i costi per aumentare i profitti.
Lo ha sempre dichiarato e fa quasi sorridere l’indignazione del mondo politico sulle modalità con cui attua i licenziamenti, quasi che il problema risieda nel ristabilire un bon ton per ammorbidire il Far West.
Di fronte a questa situazione, che dire prevedibile è dire un eufemismo, i sindacati, viste le mobilitazioni e i presidi permanenti messi in campo dai lavoratori e dalle lavoratrici coinvolte, si stanno mobilitando e chiedono che il Governo intervenga.
Ma cosa permette a Confindustria di proseguire e al Governo di tergiversare se non il fatto che l’avviso comune siglato il 29 luglio è ancora valido e continua ad essere il telaio normativo dentro il quali i diversi attori possono muoversi?
“La fabbrica è casa nostra, se cadiamo noi cadono tutti” hanno scritto e ribadito i lavoratori e le lavoratrici della Gkn.
Cosa aspetta la Cgil a ritirare la firma? Se non ora, quando?
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