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GALLERIA FOTOGRAFICA DELL’INCONTRO NAZIONALE
DELLA RETE DI COOPERAZIONE EDUCATIVA
di Carlo Francesco Ridolfi*
“Non si può fare, con un nodo, un altro nodo. Si può invece, con un filo qualsiasi, fare un nodo. Ogni nodo, di conseguenza, è unico”
(Il libro della sovversione non sospetta, Edmond Jabès)
Qualche mese fa, durante un bellissimo incontro all’Università di Padova tra Franco Lorenzoni e le studentesse (diciamo così perché di maschi ce n’erano davvero pochi) di Scienze della Formazione Primaria, una delle ragazze pose una domanda che da allora non mi abbandona. Chiedeva (mia rielaborazione, ovviamente): «Il maestro Lorenzoni, con il suo film Elementare e con le cose che ci ha detto stamattina, ci ha mostrato una scuola che non è basata sui voti, sulla competizione, sull’individualismo, ma si orienta alla valorizzazione di ogni singolo bambino e bambina, alla cooperazione, alla solidarietà. Chiedo: non è che così corriamo il rischio di produrre dei disadattati che non riusciranno a inserirsi in una società che, invece, è sempre più competitiva e discriminante?».
La domanda è di enorme interesse e, a ben pensarci, è quella che ci siamo posti, in altre forme, quando abbiamo iniziato con Mario Lodi il percorso della Rete di Cooperazione Educativa, proprio come risposta ad una domanda del genere. Negli ultimi minuti del bellissimo e fondamentale documentario che gli dedicò Vittorio De Seta (Quando la scuola cambia. Mario Lodi: partire dal bambino. 1978), Mario Lodi dice (e qui la trascrizione è letterale):
«Nella scuola tradizionale le attività sono legate al voto, alla motivazione del voto. Nella pedagogia moderna, che parte dalla scienza, si dice che il bambino, e anche l’uomo, ha bisogno di soddisfare un suo interesse, dei bisogni profondi. La scuola non deve privare il bambino di questa essenziale richiesta. Dovrebbe proprio mettere in condizione il bambino di vivere lo studio, l’esperienza scolastica più che come gioco, che è una parola ambigua, come impegno interessato, che soddisfi la sua esigenza di conoscenza, la sua esigenza sociale, la sua esigenza motoria. La scuola dovrebbe far continuare al bambino questa esperienza, metterlo nelle condizioni di usare la fantasia, l’immaginazione, l’esperienza e produrre cultura. Questo non avviene. La sua esperienza, la sua cultura personale non viene portata, con un salto di qualità, sul piano della socialità, viene rifiutata. E gli si dà invece il contenuto preordinato e trasmesso. Perché l’obiettivo, non dichiarato, ma reale, è quello di non formare uomini che hanno fantasia, che hanno capacità operativa, che producano, perché sarebbero pericolosi. (…) Una società è civile quando cerca di adattare se stessa, perciò le istituzioni, e tra queste mettiamo anche la scuola, alla crescita umana e sociale dell’uomo. Questo è il cuore del problema. Il ribaltamento deve avvenire proprio su questa base. Non di inserire, come si dice, l’uomo nel sistema sociale, qualunque esso sia, un sistema di tipo autoritario, di adattarlo, diciamo, al sistema. Ma quello di sviluppare al massimo le sue capacità, di intelligenza, di elaborazione, di inventiva. Perché in questo modo lui può contribuire alla crescita della società. Certo che questo pensiero fa paura. Tutti i sistemi autoritari lo temono. Lo temono perché un uomo libero, normale, e perciò libero, non può non considerare in che mondo vive, quali sono i problemi e le cause di questi problemi e non può non contestarle, non metterle in discussione, di trovarne le cause e di proporne le soluzioni. Ecco perché diventa un uomo pericoloso. Pericoloso per chi lo vuole mantenere soggetto. In un certo senso si potrebbe dire insomma che l’uomo non è proprietà di nessuno. Questo è il principio. Non è proprietà né della madre né del padre né della scuola né della fabbrica né dello Stato, che ha il diritto di vivere una vita felice e che per nessuna ragione una società gli può impedire questo».
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Questa è dunque la risposta, che va applicata non soltanto al contesto scolastico, per quanto periodo ovviamente decisivo nella formazione di donne e uomini, ma all’intero contesto sociale: l’educazione non dev’essere funzionale all’adattamento ad un sistema dato, ma deve fornire strumenti ed opportunità per metterlo in discussione e trasformarlo.
Se dovessimo proporre, ad esempio, una tassonomia non prescrittiva di ciò che dovrebbe fare la scuola, dal nido all’università, potremmo dire che il suo compito è quello di fornire gli elementi per leggere, scrivere, far di conto, conoscere, capire e criticare lo stato di cose esistente.
Ecco quindi che il percorso della Rete di Cooperazione Educativa si è orientato, fin dalle origini, come detto, e nei successivi sviluppi, a proporre non soluzioni preconfezionate, ricette buone per tutte le stagioni, pacchetti già infiocchettati da esperti in grado di risolvere qualsiasi soluzione, ma interrogativi, inviti alla discussione, spunti di riflessione e di analisi, qualche dubbio e molta, moltissima buona volontà.
Ne fanno fede i titoli, e anche i programmi e ancor di più l’esperienza diretta, della quale è difficile qui dar conto, dei nostri incontri nazionali.
Il primo – 2011, Soave – non aveva titolo, ma metteva già in circolo esperienze assai significative, come la scuola di via Anelli a Padova, o il progetto Mammut a Scampia.
Nel 2012, a Sestri Levante, il titolo era Il tempo dell’educazione e la riflessione generale che ne scaturiva, a partire da Gianfranco Zavalloni, che avrebbe dovuto essere con noi in quei due giorni, ma che un perfido male aveva portato via qualche settimana prima, era duplice: quel tempo dev’essere lento e quel tempo è quello che viviamo qui ed ora, in ogni momento della nostra esistenza, non il tempo astratto nel quale sia necessario svolgere programmi e compiti predeterminati, ma il tempo concreto del vivere ogni momento con attenzione e partecipazione.
Nel 2013, sulle rive del Brenta vicino Padova, il titolo fu I passi dell’educazione. Per un’armonia tra arte e scienza, a dire quanto risulti stantìo e improponibile il dibattito se siano più elevate ed elevanti le discipline scientifiche o quelle umanistiche e come invece sia necessario un dialogo continuo e fecondo fra tecnica e creazione.
Nel 2014, nella Romagna di Gianfranco, scegliemmo come titolo Lo spazio dell’educazione. Stanze aule piazze giardini città, per raccontarci e raccontare come l’ambiente e gli ambienti che abitiamo e che costruiamo siano fondamentali, in negativo o in positivo, nella costruzione del nostro essere.
Nel 2015, a Bastia Umbra, il titolo era L’educazione prende corpo. Imparare in tutti i sensi, anche qui per dare un congedo si spera definitivo a separazioni astruse e controproducenti tra spirito e carne e per considerare le donne e gli uomini nella loro integrale e appassionante unità psicofisica.
Quest’anno, nella Valpolicella che produce vini di splendida qualità e anche la parola “negrarizzazione”, entrata nella letteratura scientifica a definire ciò che non si deve fare nei confronti di un territorio, il titolo è La Terra dell’educazione: seminare il futuro, per allargare il percorso educativo a quel necessario equilibrio tra esseri viventi e natura senza il quale la nostra stessa esistenza sarebbe messa in discussione.
Ma la Rete non è stata e non vuole essere solo i due, pur entusiasmanti, giorni di un incontro nazionale.
Altri progetti si sono costruiti e sviluppati in questi anni, come quello della Carovana dei Pacifici, nato da una grande intuizione di Roberto Papetti presentata proprio ad un anno dalla scomparsa di Mario Lodi, il 2 marzo 2015 alla Casa delle Arti e del Gioco di Drizzona, e poi ripreso e arricchito e coordinato da Luciana Bertinato ed Emanuela Bussolati. La Carovana ha percorso innumerevoli tappe e prodotto ormai migliaia di piccoli Pacifici che hanno riempito scuole, centri parrocchiali, biblioteche, piazze di ogni parte d’Italia. E non solo, se è vero che Pacifici sono partiti da Gaza o sono arrivati in Giappone ed in Nepal e che, qui lo possiamo annunciare, nell’aprile del 2017 arriveranno nella piazza davanti al Museo de la Paz di Gernika-Lumo. L’anno prossimo segnerà infatti l’ottantesimo anniversario del bombardamento della cittadina basca, 26 aprile 1937, e in preparazione di quella occasione alcune scuole basche lavoreranno sul percorso di riflessione sui conflitti che porta alla costruzione dei Pacifici. Non solo. Forse non a tutti è noto che Gernika fu bombardata su richiesta di Francisco Franco da squadre di aerei tedeschi e italiani e che mentre il Parlamento tedesco dieci anni fa fece un passo ufficiale di riconoscimento di responsabilità nei confronti del popolo basco, il Parlamento italiano quel passo non l’ha ancora fatto. Partirà proprio dall’incontro di Negrar la richiesta di avviare una discussione con i parlamentari di buona volontà che volessero orientare verso una decisione che consideriamo necessaria e doverosa.
La tappa dei Pacifici a Gernika è inserita in un progetto più ampio, quello della Pedagogia della Memoria, che produrrà anche I Cammini della Speranza, una ricostruzione e ricognizione delle migrazioni dei nostri parenti anche prossimi, magari risalenti a solo qualche anno fa, messe a confronto con le migrazioni che arrivano in Italia e in Europa oggi.
Così come proseguiranno le nostre attività in collaborazione con amici come il Movimento di Cooperazione Educativa (in particolare con un appuntamento dedicato a Célestin Freinet), con la onlus Ventoditerra, con Lofacciobene-Cinefest.
Di tutto questo e di molto altro ancora dovremmo poter discutere con chiunque ne abbia voglia e passione con una sezione del rinnovato sito della Rete che sarà dedicata a forum di discussione e che sarà disponibile prestissimo.
Abbiamo un nome e un cognome nei quali ogni riferimento a persone o fatti realmente esistiti è assolutamente non casuale e intenzionalmente voluto. Ci chiamiamo Rete di Cooperazione Educativa, considerando un grande valore esperienze come quelle degli insegnanti che hanno costruito e continuano a portare avanti il MCE in Italia, e, al contempo, ribadendo che anche molti altri soggetti, come genitori, gruppi di pari, associazioni sportive o scout e così via, sono inseriti nel processo educativo che coinvolge bambini e bambine e ragazze e ragazzi e uomini e donne.
Ci chiamiamo anche C’è speranza se accade @, con ovvio e appassionato riferimento ad un libro di Mario Lodi, perché verifichiamo, giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, che il ben agire sull’educazione è diffuso ben più e ben oltre di quanto non voglia farci intendere molta pubblicistica volutamente depressiva.
Siamo un’associazione, quindi con un (piccolo ma noi significativo) impegno di tesseramento e di partecipazione, che a Negrar rilanceremo com’è necessario, data la scelta che abbiamo fatto e alla quale non rinunciamo di vivere esclusivamente con le nostre forze, senza avere né padroni né tantomeno padrini.
Un progetto sovversivo? Certamente sì, nello spirito di quella sovversione non sospetta cantata da un grande poeta come Edmond Jabès. Così come stati provvidenzialmente sovversivi, tutti in assoluta pratica nonviolenta, i maestri ai quali facciamo riferimento, da Francisco Ferrer a don Lorenzo Milani, da Maria Montessori a Loris Malaguzzi, da Alberto Manzi a Gianni Rodari, da Mario Lodi a Gianfranco Zavalloni.
Perché, come appunto canta Jabès:
«Che cos’è la sovversione?».
«Forse, della rosa che t’incanta, la spina più discreta».
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Stefano dice
Non conoscevo Edmond Jabès, ma ho colto in questi pochi versi, l’essenza della carenza emozionale che le relazioni umane si portano dietro ormai da qualche anno. Nel camminare può succedere che una spina o un nodo che si sta sciogliendo ci facciano perdere il filo del discorso, facendoci fare una sosta, ma non ci faranno mai arrestare. La ricognizione, come nella formula uno, è fisiologica.
Non accontentiamoci di arrivare, a differenza della formula uno, il circuito lo stabiliamo noi.