Non è facile metter da parte la cultura della diffidenza ma anche l’idea che i migranti siano riducibili a problemi organizzativi, a numeri. Non è facile neanche riconoscere le ferite invisibili che accompagnano molti viaggi migratori: le categorie psichiche, ad esempio, si rivelano insufficienti se non fuorvianti per ricostruire le tappe “del viaggio interno”. Sarebbe necessario prima di tutto un approccio transculturale, dice Alfredo Ancora, psichiatra e psicoterapeuta, con una lunga esperienza dei servizi territoriali e ospedalieri della periferia romana. Sorgono nuove domande. Si può procedere nell’attuale mondo scientifico, disegnando direzioni verso le quali incrociarsi invece di delineare campi d’azione ben definiti nei loro confini che ripropongono egemonie culturali? Come favorire processi conoscenza reciproca? Cosa significa oggi passare dalla cultura del pregiudizio a quella dell’ascolto?
È difficile non ammettere che il migrante, icona dei nostri tempi, rappresenti una figura inquietante perché smaschera in realtà le falsificazione che la presenza dell’altro produce. Umberto Eco diceva che esso “non bussa alla porta ma irrompe”, anche nei nostri pensieri oltre che nelle nostre coste!. Esso viene spesso costruito come un nemico da cui difendersi, alimentando panico e paura per possibili invasioni – regolarmente smentite poi dai dati reali – o per presunte trasmissioni di malattie puntualmente sconfessate dagli ordini dei medici.
L’idea che i migranti siano riducibili a problemi “organizzativi” o di “regolarizzazione” di numeri è sicuramente superficiale e approssimativa. Si dimentica che il loro drammatico viaggio può provocare danni e ferite invisibili che il susseguirsi degli eventi non ha dato il tempo ed il modo di elaborare. Il “trauma migratorio” se non si creano le condizioni per poterlo rivivere in appositi spazi di ascolto, rimane un “fantasma“ che blocca ogni possibile evoluzione.
Dalla nostra esperienza clinica nei servizi psichiatrici pubblici abbiamo avuto modo di sperimentare quanto le categorie psichiche siano insufficienti, se non fuorvianti, per ri-costruire le tappe “del viaggio interno”. Spesso la rappresentazione fisica del “ho male qui” nasconde in realtà sofferenze più profonde e non è sufficiente definirli problemi psicosomatici. Infatti il corpo in molte culture è un veicolo di trasmissione con cui viene fisicizzato ogni evento. Nell’affrontare queste tematiche siamo più inclini a ”fabbricare” sempre più categorie (migrante economico, forzato, invisibile, clandestino, irregolare, per ultimo ecoprofugo…) staccate dal contesto culturale, sociale, religioso che munirsi di un atteggiamento mentale aperto a costruire insieme la storia della sofferenza psichica. Basti pensare ai continui dibattiti, simposi centrati su un’idea “mitica” del migrante più simile all’’invenzione del diverso di turno, sempre più lontana da quella reale. Per “capirlo di più” si stanno improntando derive scientifiche, tecniche super specialistiche, con tanto di scuole “ad hoc” dimenticando, come dice Foucault, che conoscere, ben oltre il comprendere, è prendere posizione.
Ma chi è poi costui che ci turba tanto, che tracima tutte le difese possibili? Innanzitutto è una persona, “una categoria dello spirito” secondo Marcel Mauss, continuamente sospesa fra di un di qua e un di là, fra due diversi tic-tac di orologi, fra una cultura che lascia e una che trova, non sempre disponibile ad accoglierlo. Sarebbe necessario per avvicinarsi ad esso un approccio transculturale, sensibile a costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione, passando attraverso (trans) e non sopra i modi di pensare e le loro manifestazioni culturali. In questo passaggio qualcosa si perde e qualcosa si apprende. A questo proposito, l’antropologo cubano Ferdinado Ortiz negli anni Quaranta coniò il termine “transculturation” per dare equità a tutte le culture che nell’isola caraibica si incrociavano influenzandosi vicendevolmente senza pretese egemoniche.
In questo quadro assume particolare significato conoscere l’importanza dei rapporti dell’’individuo con la sua comunità, quell’io/gruppo fondamentale porta d’accesso a possibili incontri insieme, momenti di condivisione che rappresentano soprattutto uno strumento culturale e poi anche di cura.
Il mondo scientifico in seguito al diffondersi sempre più di problematiche psichiche procurate da fenomeni come l’emigrazione e popoli in fuga, comincia a interrogarsi su quali direzioni ci si debba muovere nell’affrontare il modo (i modi) di conoscenza di culture, popoli, pensieri e scienze «altre». Non è facile intercettare il nuovo che avanza e il «movimento» che produce nei nostri atteggiamenti mentali. C’è il rischio di riproporre sempre rigide griglie conoscitive all’interno di un pensiero “nostalgico” duro a morire e volto ancora alla ricerca di «un oggetto» sempre più lontano e sempre più «da studiare», tanto caro a teorie “eurocentriche. Sorge la domanda: si può procedere nell’attuale mondo scientifico, disegnando direzioni verso le quali incrociarsi e inter-correlarsi, invece di delineare campi d’azione ben definiti nei loro confini che ripropongono egemonie culturali mai messe in discussione?
Se si vuol comprendere meglio la sofferenza psichica e quale possibile aiuto dare, si deve con-dividere la storia di chi la racconta, viverla in prima persona, iniziando insieme un viaggio diverso, di conoscenza reciproca, un punto di riferimento necessario per “esserci”. Il rischio “della presenza”, di de martiniana memoria, è quello psichicamente più dannoso perché mina esistenze già lacerate, cancellando fra l’altro quell’orizzonte culturale che può garantire l’esistere nel mondo e la possibile partecipazione alla costruzione di un altro (che si spera) migliore. Sarà meno difficile sentirsi a casa nel mondo, se contribuisce a trasformare la cultura della diffidenza in quella dell’accoglienza, quella del pregiudizio in quella dell’ascolto.
Catello masullo dice
Complimentissimi
Paola Dei dice
Molto interessante e circostanziato.
Un grande esempio di competenza e professionalità
Luciana Burlin dice
Complimenti professore, riflessioni davvero interessanti e da diffondere
Alessandro Fischetti dice
Ottimo!
Finalmente una corretta prospettiva per capire il fenomeno!!
Umanità e grande competenza!