Sono contro ogni forma di violenza evitabile (per me, quasi tutte, ma è un concetto soggetto, come è ovvio, alle valutazioni di ciascuno): dalle guerre combattute con le armi a quelle tra tifoserie calcistiche, le più inutili di tutte. Sono vere incubatrici, queste, di razzismo e spirito bellicista, cosa resa evidente dagli insulti, dagli slogan e dagli striscioni periodicamente esposti in quasi tutte le curve degli stadi italiani. La loro minaccia è ancora più chiara se si ricorda il ruolo delle tifoserie nella formazione delle “Tigri” di Arkan nell’ex Jugoslavia, o della strage dei tutsi in Ruanda e chissà in quanti altri casi del mondo. Nel nostro piccolo, anche in Italia: gran parte della gioventù ideologicamente legata a Giorgia Meloni e alla sua “storia” ha ricevuto la sua iniziazione in quelle sedi.
Ora sarebbe pretestuoso ricondurre a un semplice scontro tra tifoserie i “fatti” che hanno contrassegnato la trasferta in Olanda dei sostenitori della Maccabi Tel Aviv giovedì 7 novembre, ma in contrasto con l’interpretazione di quei fatti che corre su quasi tutti i media alcune cose vanno rilevate.
Innanzitutto, non si è trattato nemmeno alla lontana di un pogrom, di una caccia all’ebreo, ma dell’aggressione contro una delegazione di israeliani. E non israeliani qualunque, ma tifosi che per sostenere la loro squadra di calcio hanno intrapreso un viaggio d 2.000 chilometri partendo da un Paese impegnato da più di un anno in una guerra di sterminio a Gaza e non solo. Persone per cui, evidentemente, uno sterminio in corso non può e non deve sospendere il tifo per la propria squadra. E non una squadra qualunque, ma quella che si caratterizza di più per il sostegno offerto dalla sua tifoseria (i Maccabi Fanatics) alla guerra a oltranza contro i palestinesi, alle colonie della Cisgiordania, alla politica di Netanyahu e del suo governo. Tanto razzista da aver imposto alla squadra persino l’espulsione di un giocatore perché arabo-israeliano. Una tifoseria arrivata ad Amsterdam non per sostenere i giocatori della propria squadra, ma per vantare le stragi perpetrate dalle Forze Armate di Israele, compreso il massacro dei bambini e la distruzione di scuole e ospedali, accompagnando il tutto con pestaggi di cittadini olandesi dall’aspetto arabo, o che indossavano una kefiah, con l’incendio di alcune bandiere palestinesi esposte lungo la strada e con i fischi rivolti agli alluvionati di Valencia durante il minuto di silenzio a loro dedicato. Azioni che alcuni gruppi di giovani ebrei del posto avevano cercato di prevenire, cercando di fare da argine ai cortei della tifoseria israeliana. Il tutto prima che cominciasse l’aggressione ai tifosi israeliani che uscivano dallo stadio.
Ora, è del tutto probabile che quell’aggressione fosse stata preparata in anticipo ed è ovvio che avesse motivazioni politiche e non sportive, come è certo che anche le manifestazioni scomposte della tifoseria israeliana non avessero niente di sportivo e fossero state anch’esse programmate. Ma se non ci fossero state le seconde, quelle venute dopo, chi mai avrebbe stigmatizzato le prime, dedicando loro addirittura aperture e prime pagine?
La cosa peggiore è far passare all’unanimità quell’aggressione come una manifestazione di antisemitismo, anziché di contestazione di Israele e dei suoi sostenitori. La distinzione tra antisionismo e antisemitismo dovrebbe rimanere un cardine della lotta contro il razzismo e le pulsioni razziste. E anche se è possibile, e in determinate circostanze facile, scivolare dall’uno all’altro, ci sono politiche e modi di dire che fomentano quel passaggio e altre che cercano di impedirlo. Tra le prime, c’è senza dubbio la definizione di antisemitismo elaborata dall’Ihra (Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto) e fatta propria dalle dirigenze di quasi tutte le comunità ebraiche della diaspora, schierate senza molte esitazioni a sostegno di Israele. Tale definizione è però contestata da numerose minoranze di quelle stesse comunità, (soprattutto di giovani contrari al massacro in atto), oltre che da tutte le persone di buon senso che certo condannano l’evento feroce che ha dato inizio a quella guerra, ma che sono alla ricerca di una strada per ricondurre al dialogo e al confronto – e non alla demonizzazione – le contrapposte posizioni su quella come su tutte le altre guerre in corso in questo periodo. Trascinati da un conformismo di ordinanza, scivolano su quella distinzione anche molti acuti – o presunti tali – commentatori dei grandi mezzi di comunicazione: “I fatti di Amsterdam – scrive Corrado Augias sulla prima pagina di Repubblica, solo per fare un esempio – l’assurda caccia all’israeliano, cioè all’ebreo”. E il seguito è la notte dei cristalli…
Di forme di antisemitismo ce ne sono tante come ce ne sono tante di antisionismo e bisognerebbe imparare a distinguerle, o per lo meno cercare di farlo. C’è un antisemitismo – più recente, e indubbiamente crescente – suscitato dall’identificazione del popolo ebraico con Israele e le sue efferatezze, che i vertici di molte comunità ebraiche della diaspora non fanno che promuovere, e c’è un antisemitismo “storico” erede del cattolicesimo tradizionalista e dal razzismo europeo – fascista, nazista e non solo – che permane come sottofondo in molti adepti del partito oggi al governo, messo in parte in sordina dal fatto che oggi Israele e la sua politica sono diventate un punto di riferimento per le destre di tutto il mondo, da Orban a Meloni e Salvini, da Trump all’Afd tedesca.
E c’è un antisionismo che imputa a Israele il rifiuto della formula sempre più aleatoria di due popoli e due Stati e un antisionismo che mette invece in discussione l’esistenza stessa di Israele come Stato etnico. Per alcuni, che non mettono in discussione la presenza di una vasta comunità ebraica in Palestina, l’essersi fatta Stato la condanna a una guerra perenne e senza vie di uscita con i popoli che la circondano. Sono posizioni condivise anche da molti ebrei della diaspora e ora anche da alcuni che vivono in Israele. E c’è un antisionismo che vorrebbe liberare dalla presenza degli ebrei tutto il territorio della Palestina, “dal fiume al mare”, ed è quello professato dai dirigenti della resistenza palestinese che non nascondono il loro antisemitismo. Ma mentre loro lo proclamano, la liberazione di Israele dalla presenza “residua” dei palestinesi, “dal fiume al mare”, è anche quello che molti dirigenti di Israele non solo stanno da tempo portando avanti nei fatti, ma che ora proclamano anche apertamente. O no?
Inviata anche all’agenzia Pressenza
Guido Viale ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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