Autonomia è una parola preziosa, pensiamo ad esempio a quanto sia rilevante rispetto all’azione e al pensiero critico dei movimenti sociali. La sua ascendenza etimologica, ricorda Renata Puleo, piega il nomos, il corpo delle norme, verso il soggetto quale autore o co-autore delle stesse: ma seguire la propria regola è in realtà un processo più che un obiettivo da raggiungere una volta per tutte, “come è evidente nella lunga fase evolutiva di ogni nato da donna, la cui uscita dalla minorità è un accidentato percorso di affrancamento e di accettazione dei limiti”. Un processo “sempre iscritto nella rete dei rapporti che vincolano ciascuno ad una legge a cui diversamente aderisce”. In quanto tale l’autonomia è una facoltà sempre potenziale e sempre a rischio. Se c’è un ambito in cui questa parola è stata usurata e intrecciata con l’ossessione delle valutazioni, come dimostrano le recenti vicende sulla regionalizzazione dell’istruzione, è nel sistema scolastico
di Renata Puleo*
Nell’ultima bozza dell’intesa sottoscritta dai presidenti di Regione del Veneto e della Lombardia con il presidente del consiglio Giuseppe Conte, all’articolo 10 si chiede la potestà legislativa in materia di istruzione, prerogativa che non compare nel testo dell’Emilia Romagna. La scuola viene indicata da tutti i commentatori, favorevoli, contrari, prudenti e possibilisti, come uno dei nodi centrali in tutto questo processo avviato da alcuni anni e divenuto urgente con la Lega al governo. Per inciso, il fatto che Stefano Bonaccini, Governatore dell’Emilia Romagna, non abbia chiesto il trasferimento di questa materia, non denota scarsa attenzione o fiducia verso lo stato centrale, quanto la consapevolezza che la rete delle scuole della regione funziona bene così come si è andata configurando con i precedenti governi locali, inclusiva delle istituzioni scolastiche private e paritarie, con un efficiente sistema 0/6 a carattere misto.
Molto e bene su questo tema è stato detto, pertanto mi limito a sottolineare due aspetti a cui da anni dedico attenzione: il concetto di autonomia e il problema della valutazione del sistema scuola. Entrambi sottaciuti nell’appello “#RestiamoUniti” firmato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, dall’associazionismo e dalle organizzazioni di base, tra cui No-Invalsi, ma ben presenti nel testo della richiesta di competenza sull’istruzione.
Autonomia è parola nobile, la sua ascendenza etimologica piega il nomos, il corpo delle norme, verso il soggetto quale autore o co-autore delle stesse. Seguire la propria regola in realtà è un processo più che un obiettivo da raggiungere una volta per tutte, come è evidente nella lunga fase evolutiva di ogni nato da donna, la cui uscita dalla minorità è un accidentato percorso di affrancamento e di accettazione dei limiti. Mai davvero singolare, sempre iscritto nella rete dei rapporti che vincolano ciascuno ad una legge a cui diversamente aderisce. In questa diversità si disegnano i bordi dell’autonomia del soggetto, anche istituzionale: una facoltà, sempre potenziale, sempre a rischio. Non mi dilungo visto che filosofia e politica hanno nei secoli e nelle diverse realtà culturali cesellato questo concetto, lavorio che evidenzio solo come allerta all’abuso che di questo termine si è fatto. Parola usurata dai troppi strappi e ricuciture ideologiche, le cui accezioni in uso nel sistema scolastico costituiscono un esempio eclatante di ambivalenza e degrado. Introdotta come insieme di dispositivi e di pratiche con il DM 275/99, sul dettato della Legge 59/1999, volta a superare la stretta borbonica che incardinava le scuole nel superiore ministero, vista come inedita occasione per ancorare le istituzioni al loro contesto territoriale nel buon uso locale delle risorse umane ed economiche (su cui oggi si gioca la partita ideologica del regionalismo), si rivelò presto un importante anello nella catena della valorizzazione liberista del capitale umano. Il soggetto, ogni cittadino fin dalla nascita, è fonte di accumulazione, la sua formazione favorisce il consolidamento della società della conoscenza mediante la cattura, la sussunzione dei suoi saperi operata dal capitalismo di nuovo rango, secondo una maniera più efficace di “conciare la pelle del lavoratore” (Karl Marx). Modalità ancora solo formale, in progressiva realizzazione, ma nel cui processo la scuola occupa un posto molto importante come luogo di formazione e di elaborazione della conoscenza, da trasferire poi ad ambiti già produttivi come implementazione del General Intellect (Christian Marazzi).
A proposito di mosse autonome incrociate fra territorio e scuola, trovo sul sito della Cisl-Scuola un interessante commento sulle intese Governo-Regioni di Giuseppe Cosentino, già alto funzionario del Miur. Nel corpo del testo si argomenta contro le pretese di creare un organico regionale del personale scolastico, e si cita la sentenza della Corte Costituzionale (n. 76/2013) che rigettò una iniziativa in tal senso da parte della Lombardia (“Misure per la crescita e l’occupazione” legge regionale n. 7/2012 art. 8). Si trattava di bandire da parte della regione, sperimentalmente ma con un impianto volto a consolidare la pratica, concorsi per il reclutamento di docenti iscritti nelle graduatorie a esaurimento. Le motivazioni addotte a sostegno dell’articolo 8, dando per scontata l’intesa in tal senso con il ministero e la “leale collaborazione” (sic) con lo stesso, si basavano sull’argomento per cui l’autonomo reclutamento locale avrebbe dato maggior valore all’autonomia delle scuole, alla naturale esigenza dei dirigenti di poter scegliere i docenti, nell’incontro virtuoso fra domanda e offerta di servizio da parte di soggetti già presenti nelle graduatorie. Insomma la bontà della chiamata diretta ante litteram. Il relatore costituzionale designato a esporre i termini della causa, Sergio Mattarella, metteva in narrativa alcune sentenze precedenti (2005, 2009, 2012) nelle quali si ribadiva che lo stato giuridico dei docenti è di impiegati pubblici, dunque incardinati negli organici del ministero. Mattarella smontava soprattutto l’argomento basato sull’incontro fra le due forme di autonoma iniziativa, regionale nel dettare le coordinate, e dell’istituzione scolastica nell’adesione al modello di reclutamento realizzata dal bando locale: il DPR 275 non prevedeva forme di “valorizzazione dell’autonomia scolastica” spinte così oltre il significato del mandato legislativo. Argomentazione molto circospetta da parte di Mattarella, certamente non contrario al dettato del DPR 275, considerate le sue iniziative di promozione della scuola autonoma durante la sua breve stagione come ministro dell’Istruzione. Infatti, la Corte respinse per vizio l’art 8.
Come ebbe a dire il ministro Luigi Berlinguer a ridosso dell’approvazione del decreto 275, non poteva esserci autonomia senza valutazione dei risultati e dei percorsi per raggiungerli, quelle prestazioni di cui oggi si ragiona in termini di livelli minimi e di standard. La creazione dell’asse azienda-cliente, del nesso fra portatori di interesse e prestatore di servizio, sostituì con la forma di un apparato agile di mercato l’organizzazione funzionale all’esercizio del diritto-dovere all’istruzione e portò con sé l’ossessione della misurazione. La libertà di insegnamento sancita costituzionalmente diventa un impedimento, la didattica e la valutazione degli apprendimenti viene sottratta ai docenti e affidata a un presunto soggetto terzo: l’Invalsi si fa tutore e artefice unico del Servizio Nazionale di Valutazione. La corretta lettura riformista della relazione fra autonomia e valutazione, nel percorso segnato da possibilità e vincoli, vira presto verso una stretta dei vincoli e verso la mortificazione della ricerca dal basso condotta fra pratica ed elaborazione teorica. Oggi, un anno scolastico è ritmato dalla didattica di addestramento ai test, dalla loro somministrazione censuaria, dalla campionatura per le prove TIMSS e PIRLS (acronimi delle prove internazionali per i domini di matematica e scienze), da esercizi su libri di testo corredati dalla rubrica delle competenze. Le otto key skills europee per essere valutate dai docenti (in abbinamento fra la certificazione delle competenze e quella dei livelli raggiunti nei test rilasciata dall’Invalsi) abbisognano di una didattica organizzata per compiti reali e per obiettivi transdisciplinari, sotto l’acronimo UdA (unità di apprendimento).
Le trappole tese sono così due. La prima: l’esercizio di tipo pratico, praticità che nulla ha a che fare con la praxis gramsciana, nella circolarità fra mano e mente, si presenta come orientamento convergente al compito, come manipolazione di artefatti per eseguirlo, il tutto volto alla realizzazione di un prodotto valutabile. La seconda: la transdisciplinarità/interdisciplinarità non si gioca nell’incrocio di valore euristico fra i paradigmi dei saperi, ma ogni insegnante è chiamato a dare un contributo su un argomento, cogliendone qualche effetto contenutistico che richiami le materie oggetto di insegnamento.
Nell’avviare il percorso ideologico e legislativo regionalista i leghisti hanno recepito la lezione neoliberista al di là delle ipocrite grida rivolte al centro di comando ideologico-politico della Troika. La funzione di indirizzo e di controllo è essenziale per governare la catena di valorizzazione del capitale umano e, soprattutto a livello locale, garantisce al ceto politico la curatela del potere, dell’interesse dei propri accoliti sugli investimenti produttivi, sul gettito fiscale, sulla distribuzione della ricchezza tra profitto e salari (Massimo Villone; Gianfranco Viesti). La formazione di soggetti obbedienti, disponibili alla passiva accettazione di quel che il mercato del lavoro, nelle nuove modalità di domanda-offerta di forza lavoro, richiede una scuola altrettanto obbediente. Una scuola autonoma ben dentro cornici definite dagli interessi produttivi, e se il centro che definisce la cornice è la Regione, la catena del valore si fa ancora più corta, il nodo più stringente. Lo si è visto con l’adesione entusiasta alle forme di alternanza scuola-lavoro della piccola e media impresa veneta, soprattutto quella poco innovativa, del settore alberghiero e della ristorazione, legati alla produttività garantita dal lavoro vivo, dallo sfruttamento tout court.
Nel nesso fra pratiche di alternanza e didattica si rivelano funzionali le UdA di cui su e le relative griglie di valutazione. Trovo nel numero monografico di una rivista edita a cura delle Regione Veneto, già nel 2008, un percorso didattico per istituti tecnico-professionali organizzato per UdA, proposta redatta in base a un protocollo di intesa fra Veneto, Lombardia, Miur e Università Cattolica di Brescia. I modelli confermano l’impostazione descritta con la sottolineatura da un lato degli effetti pratici della didattica, dall’altro della necessità del pieno governo delle regioni su questo ordine di scuola. La premessa che presenta il progetto recita: “ Il sistema educativo assume sempre più la configurazione di un servizio di pubblica utilità di valore primario sia per l’equilibrato sviluppo delle potenzialità delle persone sia per lo sviluppo dei territori e del sistema sociale ed economico […] così da conseguire una legittimazione non più dall’alto, ma scaturente dalle relazioni di servizio e quindi dal rapporto fiduciario con l’utenza e il contesto.” (Dario Nicoli, ordinario di sociologia economica del lavoro e dell’organizzazione, Uni Cattolica di Brescia)
Il Tavolo Tecnico Autonomia del Veneto, nel 2017, espone chiaramente i termini della questione: “La possibilità di disciplinare le modalità di valutazione a livello regionale assicura alla Regione uno strumento di intervento diretto sul servizio scolastico utile al rafforzamento della qualità del servizio erogato”. I miei corsivi evidenziano i punti di forza del testo, quelli che servono a definire gli assunti ideologici a cui accennavo. Si prevedeva nel testo citato, e lo si ripete nella bozza ultima di intesa, la “collaborazione” fra enti autonomi di controllo e l’Invalsi. Ma, il fatto che l’istituto oggi sia oggetto di un’ipotesi di ridimensionamento nel tentativo di riportarlo sotto l’egida del Miur fa sì che le piccole patrie potrebbero crearsi propri istituti e propri dispositivi di controllo-qualità, non collaborativi. Una mossa paradossale, dunque, che mette in scacco la catena del controllo al suo livello centrale pur condividendone i presupposti.
Il gioco delle analogie fra le accezioni di autonomia non è dunque meramente linguistico. L’aggettivo differenziata è un accrescitivo su cui da anni Veneto e Lombardia organizzano l’elaborazione del consenso. Se Umberto Bossi ne fece un’espressione di folklore padano, Matteo Salvini e Luca Zaia ne hanno fatto il pilastro di un blocco storico, un sistema interclassista di individualismo proprietario e di rivendicazionismo risentito, pre-politico: passioni tristi e pericolose. Su cui agisce il cinismo degli ideatori “del furto con destrezza delle risorse nazionali, funzionale per passare ‘a nuttata della crisi 2007/2008”, salvando il salvabile. (Eugenio Mazzarella) e, soprattutto atto a far credere a veneti e lombardi che la giustizia distributiva, mediante perequazione del prelievo fiscale fra Regioni, è cosa finalmente realizzabile.
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