Il peggioramento dell’ambiente a scala internazionale è evidente e suffragato da numerosi rapporti scientifici. Non c’è più tempo da perdere. Nessuno può delegare il cambiamento. Imprese, lavoratori e cittadini possono moltiplicare analisi e promuovere subito percorsi di profonda conversione ecologica e sociale. Ecco alcuni esempi. «Quanto segue è una proposta di metodo, sulla cui base potrebbe avviarsi, nel movimento e nelle strutture produttive e sociali, un dibattito molto concreto»
Alberto Castagnola
Ancora una volta a Doha i risultati della Conferenza dell’Onu per il clima sono stati molto limitati, specie se confrontati alle necessità di disporre finalmente di una politica ambientale a scala internazionale. Cosa si è deciso? Si è confermato il secondo periodo di impegni per il taglio delle emissioni di sostanze climalteranti, a partire dal primo gennaio 2013, ma i paesi partecipanti rappresentano solo il 15% delle emissioni mondiali; il resto sarà negoziato nel 2015. Quindi il trattato di Kyoto rimane un accordo non vincolante, il Canada ne è uscito per poter sfruttare senza vincoli le sue sabbie bituminose per estrarne petrolio e la Cina potrà continuare a sfruttare carbone e nucleare senza controlli internazionali. Ciò significa che la quasi totalità dei principali meccanismi di emissione dei “gas serra” non è stata ancora intaccata e non lo sarà nei prossimi due anni.
Cosa avviene intanto in Europa sul piano delle politiche ambientali? Un recente rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente prevede un aumento della temperatura media che varierà da 0,5 a 2,5 gradi centigradi entro il 2050 a seconda delle regioni, inserito in una prospettiva di un pianeta più caldo di3-4 gradi entro il 2100. Le conseguenze sarebbero terribili per molti paesi, ma quasi nessuno ricorda che già nell’estate particolarmente calda le vittime furono 35.000.
Ma il fenomeno che più preoccupa i climatologi e che si è aggiunto solo di recente a tutti gli altri meccanismi climatici è quello dello scioglimento del permafrost nella fascia di paesi del Nord che comprende il Canada, la Groenlandia e la Siberia. La sparizione dei ghiacciai durante i periodi estivi e la limitata ricostituzione che avviene durante i mesi invernali espongono alla luce del sole immense superfici terrestri che contengono delle acque ghiacciate che hanno in passato raccolto e congelato fonti di metano, che oggi sta diffondendosi liberamente nell’atmosfera. Questo gas ha quindi iniziato ad aggiungersi alle emissioni di anidride carbonica e alla fine produrrà un ulteriore effetto serra pari a oltre il doppio di quello finora realizzato dal totale delle emissioni, moltiplicando la velocità complessiva di riscaldamento dell’atmosfera del pianeta. Con una differenza, però: finora avremmo potuto (in teoria) intervenire per ridurre le emissioni prodotte da impianti e fonti create in gran parte dai paesi industrializzati, mentre non disponiamo di alcuna soluzione tecnologica per intervenire sulla propagazione del metano.
Un terzo gruppo di problemi riguarda gli uragani, i tifoni e altri eventi catastrofici “naturali”, ma che negli ultimi anni stanno aumentando di potenza e di frequenza per le modifiche al clima arrecate dalle attività umane che si espandono senza limiti. Dopo Katrina e Sandy negli Stati Uniti,
il recente tifone Bopha nelle Filippine e quello artico del dicembre 2012 che è giunto ad investire l’Europa mediterranea, sono solo gli esempi che più hanno attirato l’attenzione dei mezzi di comunicazione negli ultimi mesi, ma che ancora non hanno indottogli Stati a modificare le loro politiche ambientali.
In sostanza, il peggioramento dell’ambiente a scala internazionale è evidente e suffragato da molteplici rapporti scientifici che analizzano e prevedono i meccanismi in atto, e invece la politiche, sia nelle sedi internazionali, sia per iniziativa di singoli Stati, sono in forte ritardo e richiederanno ancora degli anni per decollare. In questa situazione così divaricata, e che non accenna a modificarsi, forse è utile cominciare a delineare delle azioni non governative che potrebbero essere avviate dalle imprese e dalle organizzazioni sociali più responsabili, nonché da tutti quei cittadini che rifiutano di attendere passivamente che qualcuno si muova. Più in concreto, potrebbero essere elaborati, messi a punto o avviati dei percorsi alternativi, ai quali – terminato il confuso periodo elettorale che ci attende- potrebbero anche porre mano i partiti, specie quelli non più coperti dal cosiddetto “governo tecnico”.
Quanto segue è una proposta di metodo, sulla cui base potrebbe avviarsi, nel movimento e nelle strutture produttive e sociali, un dibattito molto concreto.
Cosa dovrebbero fare le imprese
In questa prospettiva, sarebbe di estrema importanza che le imprese, – tutte, indipendentemente dalle dimensioni e dai loro collegamenti con imprese estere – fossero coscienti del loro contributo, positivo o negativo, ai meccanismi generali di danno ambientale e non continuassero a procedere come se i rapporti con la natura non fossero di loro interesse e fossero invece di esclusiva competenza degli Stati e delle Organizzazioni internazionali.
In questa sede il ragionamento prescinde dal dibattito (peraltro non sufficientemente animato) sul principio “chi inquina paga” e cerca di evidenziare un diverso modo di “fare impresa”, più adeguato alla gravità dei danni già arrecati all’ambiente e più cosciente dei mutamenti in corso nei rapporti tra esseri umani e equilibri del pianeta.
Quali aspetti delle filiere produttive dovrebbero essere presi costantemente in considerazione dalle dirigenze di impresa, in vista soprattutto di una prossima, ben diversa collocazione nei rispettivi contesti territoriali? L’elenco che segue dovrebbe essere ricalibrato a seconda delle caratteristiche produttive di ogni azienda, ma potrebbe costituire un utile strumento per l’impostazione di rapporti tra responsabili delle produzioni e i lavoratori in esse impegnati molto più avanzati in una ottica di correttezza ecologica.
1. Ogni azienda dovrebbe ripercorrere il cammino che le singole materie prime e le fonti di energia da essa impiegate effettuano da quando sono prelevate dalla natura o concepite nei laboratori chimici, valutando per ogni passaggio l’incidenza sull’ambiente, Si dovrebbero individuare le miniere dove vengono estratte e la portata di ogni principio attivo selezionato, tenendo conto dell’ammontare dei materiali residuati dalle prime lavorazioni di una materia prima grezza (la bauxite per l’alluminio e gli organo fosfati per i pesticidi), dei danni arrecati al paesaggio, ai territori coinvolti e all’acqua utilizzata nei processi di lavaggio e purificazione, dei rischi connessi al trattamento e alla lavorazione, dei rischi derivanti da una eventuale dispersione non controllata nell’ambiente, e così via.
2. Ogni azienda dovrebbe verificare se le materie prime che la interessano sono oggetto di operazioni finanziarie a scala internazionale che tendono a far aumentare i prezzi all’origine di tali materie prime; in questo caso o se tali materie prime sono in via di diminuzione ( e loro prezzi tendono quindi ad aumentare sui mercati internazionali specializzati) sarebbe opportuno iniziare a ricercare e a mettere a punto materiali alternativi e meno dannosi per l’ambiente.
3. Ogni azienda dovrebbe verificare e tenere sotto controllo tutti i suoi consumi energetici e di acqua per conseguire sempre il massimo dei risparmi, sia riducendo i consumi, sia modificando le proprie linee di produzione ricercando nuovi impianti e beni strumentali ad alto rendimento energia-prodotto.
4. Ogni azienda dovrebbe concentrare la propria attenzione sulle possibilità di riprogettazione di ciascuno dei suoi prodotti, in modo che consumino sempre meno energia e acqua in ogni fase della realizzazione e contengano il minimo di rifiuti inutilizzabili e il massimo di componenti recuperabili.
5. Ogni azienda dovrebbe applicare modalità di organizzazione e di consumo relative al suo personale che permettano di ridurre al minimo l’uso delle energia e delle acqua e i rifiuti, sia all’interno delle sedi e dei posti di lavoro aziendali, sia presso le famiglie dei propri dipendenti. L’impostazione “verde” di ogni azienda dovrebbe essere irradiata anche sui propri clienti vicini e lontani e sui fornitori, fino a costituire un’area integrata di consumi e rifiuti ridotti al minimo.
6. Tutte le imprese fortemente dipendenti da materie prime dannose per l’ambiente dovrebbero avviare linee di ricerca dirette a ridurre la loro incidenza all’interno dei meccanismi di danno ambientale e favorendo migliori trattamenti salariali e relazionali ai loro dipendenti diretti e indiretti (cioè impiegati in imprese subappaltate o che svolgono servizi collaterali).
7. Le imprese che hanno deciso di impegnarsi in questa linea strategica dovrebbero cercare di coinvolgere altre imprese, appartenenti al loro stesso settore, alla filiera produttiva e commerciale della quale fanno parte, presenti sul loro territorio o facenti parte della stessa associazione imprenditoriale. Ogni risultato ottenuto in base ai punti precedenti potrebbe essere utilizzato da tutti con reciproco interesse e potrebbe poi allargarsi ad altre filiere e comparti.
8. La strategia delineata, ormai urgente e indilazionabile se si comprende che i fenomeni ambientali sono vicini al punto di non ritorno, può anche permettere di acquisire altri vantaggi – forse minori di quelli suscitati nell’ambito aziendale, ma comunque non irrilevanti -, come al momento di chiedere una Valutazione di Impatto Ambientale oppure se si decide di richiedere le ISO offerte dalle istituzioni europee.
9. Naturalmente, tutte le indicazioni precedenti riguardano mutamenti realizzabili all’interno del sistema economico dominante, in quanto è molto difficile immaginare che anche un rapido succedersi di catastrofi possa condurre ad un reale mutamento delle logiche del sistema dominante. Al momento i segnali di una radicale mutazione verso un sistema basato sul pensiero della decrescita sono quasi inesistenti, anche se questa prospettiva sarebbe oggi l’unica in grado di fare affrontare in termini realistici i molteplici meccanismi di drammi ambientali in corso. Una reale svolta in questa direzione farebbe trasformare in obbligatori tutti i comportamenti virtuosi delineati, da realizzare inoltre in tempi molto stretti se si volessero realmente evitare i peggioramenti climatici ormai avviati.
Cosa dovrebbero fare le organizzazioni dei lavoratori
I processi di trasformazione che le imprese saranno costrette a intraprendere in tempi ravvicinati a causa delle spinte esercitate sia dalla continua ricerca di nuovi campi di profitto determinati dal protrarsi delle crisi, sia dal moltiplicarsi di eventi catastrofici dipendenti dai cambiamenti climatici, dovrebbero suscitare un interesse crescente anche nelle organizzazioni dei lavoratori. Ogni svolta strategica decisa all’interno delle imprese comporta sempre degli effetti sulle condizioni di lavoro, e in una situazione decisamente sfavorevole dell’occupazione e dell’andamento dei salari, prevedere con qualche anticipo le mosse del capitale potrebbe avere una importanza non trascurabile. I sindacati, in particolare, dovrebbero attivare, al loro interno, parecchie linee di lavoro (alcune finora trascurate o rifiutate), approfondite in modo tale da permettere anche, ove possibile, di esercitare decise pressioni in favore del riequilibrio ambientale delle produzioni:
1. Elaborare analisi non superficiali e continuamente aggiornate sull’incidenza delle singole imprese sui meccanismi di danno ambientale, valutando se si tratta di ipersfruttamento delle risorse naturali, di eccesso di uso delle risorse energetiche, di scarsa attenzione al momento della trasformazione dei prodotti in rifiuti, di mancata osservanza delle norme di rispetto dell’ambiente e di sicurezza dei lavoratori, di scarso interesse agli effetti indiretti sulle popolazioni e sui territori circostanti.
2. Studiare con molta attenzione le imprese che, sia pure senza modificare radicalmente le loro logiche di profitto, di accumulazione e di espansione, cominciano a risparmiare sui consumi di materie prime, di acqua e di energia, oppure sono attente ai danni causati all’ambiente dai loro prodotti, o ancora che in qualche modo cercano di riutilizzare parti e residui dei loro prodotti che hanno terminato la vita tecnicamente utile.
3. Analogo interesse dovrebbe essere manifestato con continuità alle imprese che cercano di ridurre l’impatto ambientale dei loro dipendenti e relative famiglie o che esprimono un interesse reale e attivo verso le condizioni ambientali del territorio nel quale operano e delle popolazioni che possono risentire delle emanazioni, dei fumi e di altre emissioni che derivano dai cicli produttivi.
4. In un numero crescente di casi, dal sindacato (in genere da aderenti particolarmente qualificati) sono emerse delle indicazioni o delle richieste relative a prodotti innovativi o meno dannosi per l’ambiente, che si sono anche dimostrati un successo sul mercato. In passato, iniziative di questo genere (almeno in Italia) sono state rifiutate, in quanto potevano prefigura forme di cogestione. Oggi l’urgenza e le dimensioni dei problemi ambientali potrebbero suggerire atteggiamenti diversi e anzi prefigurare un ruolo più responsabile del sindacato nei confronti degli squilibri del pianeta. Inoltre, durante le attuali crisi, che durano almeno da cinque anni, non è più possibile sottovalutare l’eccessivo sfruttamento dei lavoratori sul posto di lavoro e nella loro veste di consumatori.
5. In molte situazioni, poi, la gravità degli inquinamenti e la diffusione dei loro effetti su territori molto ampi (ad esempio in Italia i 44 siti del recente rapporto “Sentieri” o i 150 di uno studio precedente del Consiglio Superiore di Sanità), avrebbero potuto costituire oggetto di una azione politica molto più decisa ormai da molti anni, evitando così di dover gestire situazioni nelle quali i lavoratori si trovano a dover scegliere tra una serie di gravi malattie per se e per i propri familiari e la conservazione del posto di lavoro.
6. In una prospettiva diversa, più innovativa, (ma anche più realistica rispetto alle minacce dei rapidi cambiamenti climatici), i sindacati potrebbero esercitare spinte decisive nei confronti della riconversione in senso ecologico delle molte aziende in crisi, (oltre 200 alla fine del 2012) utilizzando le competenze e le qualifiche scientifiche dei loro iscritti per individuare lavorazioni e prodotti più “amici dell’ambiente” e ormai chiaramente richieste da fasce consistenti di popolazione, mentre mancano quasi completamente gli apporti tecnici e scientifici di Università, centri di ricerca, politecnici, ecc. volti a progettare oggetti e processi che tengano conto delle esigenze del pianeta.
Cosa dovrebbero fare i cittadini nel loro ruolo di consumatori
Oltre agli impegni di persone e di intere famiglie che ormai consumano “diversamente” (Gruppi di acquisto solidale, vegetariani e consumatori di cibi biologici, frequentatori di botteghe del commercio equo e di mercati contadini con prodotti doc e a chilometro zero, ecc.), solo i costi troppo elevati in periodo di crisi impediscono ormai una maggiore diffusione delle energie rinnovabili. E’ inoltre in rapido aumento la fascia di consumatori che ha stabilito un collegamento tra la pericolosità per la salute e l’ambiente in molti cibi, che cerca di tornare all’autoproduzione e che solo la struttura della grande distribuzione ostacola nella ricerca di una alimentazione non cancerogena. In pratica i principi del consumo critico sono diventati conoscenza diffusa per un gran numero di persone, specie nei centri urbani di minori dimensioni, mentre il sistema industriale della produzione alimentare deve la sua sopravvivenza solo al ricorso ad una pubblicità capillare e ripetuta.
E’ materialmente molto difficile fornire delle indicazioni di buone pratiche da seguire, in quanto non si tratta di intensificare informazioni e consigli ma di fornire indicazioni su come sottrarsi in modo radicale e protratto nel tempo alla pressione consumistica che più genera effetti negativi per la sopravvivenza degli esseri umani e di un pianeta in cerca di equilibrio.
1. Moltiplicare gli sforzi per acquisire sempre più prodotti sottratti alle sostanze chimiche per l’agricoltura e alle trasformazioni industriali, preferendo sempre frutta e vegetali freschi e di stagione; limitare al massimo gli acquisti nei supermercati e ampliare la rete di contatti e di relazioni con i produttori diretti e controllati e gli scambi con persone che sono ritornate nelle campagne o che coltivano orti urbani. Queste scelte devono essere vissute come un libero ritorno alla natura con lo scopo di contribuire al riequilibrio degli usi dei suoli e delle risorse naturali e come una riconquista di sapori e profumi non risultanti da processi chimici e industriali.
2. Ridurre al minimo l’uso di prodotti chimici industriali per l’igiene e l’agricoltura e di cosmetici e medicinali non necessari; questa categoria di scelte non è così diffusa come quella per gli alimenti ma è altrettanto importante quanto a grado di inquinamento e avvelenamento. Richiede inoltre maggiori conoscenze, non specialistiche, ampiamente disponibili nella stampa del movimento, mentre ugualmente disponibili sono i prodotti alternativi; si tratta di spingere per un maggior spirito critico su queste categorie di consumi e di moltiplicare le esperienze di acquisti collettivi.
3. Aumentare al massimo le autoproduzioni di cibi, cosmetici e prodotti per l’igiene. Pane, pasta, conserve, marmellate ecc. possono sembrare incompatibili con i ritmi e i tempi di lavoro, di cure familiari e di spostamenti urbani, mentre in realtà introducono elementi di tranquillità e rilassamento in una vita turbinosa e condizionata. Intensificare gli scambi di queste autoproduzioni con una rete sempre crescente di altre persone permette inoltre di destinare un tempo maggiore alle relazioni e ai contatti e quindi di riconquistare valori che sembravano appartenere a tempi lontani e ormai non più recuperabili.
4. Anche le misure di risparmio energetico e di riduzione delle emissioni inquinanti, specie nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro, dopo una prima fare di conoscenza delle energie alternative, dei metodi di risparmio, della trasformazione degli edifici per fronteggiare il caldo e il freddo in modo ben diverso (agevolata dalle diecine di guide al “fai da te”ormai facilmente reperibili ovunque), permettono di ampliare gli scambi e i contatti tra persone e famiglie.
5. Negli anni più recenti sono diventati parte della vita comune in molte città non solo la raccolta differenziata, spesso porta a porta, dei rifiuti, ma anche tutte le tecniche per il recupero e il riutilizzo, volte a ridurre drasticamente le parti avviate alle discariche, sono diventate familiari e forse hanno cominciato a cambiare il nostro modo di relazionarci con gli oggetti. I mercati dell’usato e degli scambi gratuiti fanno ormai parte del panorama dei centri urbani maggiori e stiamo arrivando al momento in cui saranno le cittadinanze a pretendere queste strategie che aumentano il nostro passare equilibrato sul pianeta
6. Naturalmente tutti questi nuovi comportamenti non possono essere ispirati solo da strategie di breve respiro (risparmiare sulle tasse dei rifiuti, scambiare oggetti riutilizzabili, ecc.) ma dovrebbero essere sostenuti da una solida filosofia ispirata a principi generali di minore incidenza sulle materie prime e sulle fonti di energia, che permettano la sopravvivenza sul pianeta di un numero crescente di persone e di conseguire in tempi brevi una sostanziale uguaglianza dei consumi in tutti i continenti. In altre parole, non si tratta di libere scelte in direzione di una “abbondanza frugale”, ma di fronteggiare a scadenze ravvicinate l’insostenibilità della fame, delle insufficienze alimentari, delle malattie derivanti da alimentazioni troppo povere di sostanze essenziali che ancora colpiscono la metà della popolazione mondiale.
7. Infine, tutti i cittadini dovrebbero adottare comportamenti che uniscano al rispetto per l’ambiente dove si svolge la vita di ciascuno anche il recupero e il ripristino dei meccanismi naturali e dei cicli biologici. Si tratta non solamente di evitare di spargere cemento senza alcuna limitazione o accettare la deviazione dei corsi d’acqua, di eliminare la caccia indiscriminata e la pesca che distrugge le aree di riproduzione, ma di ripristinare foreste e boschi, di salvaguardare le coste e l’alto delle montagne, di riutilizzare varietà di piante originali, di reintrodurre la vita selvatica che caratterizzava ogni zona.
Qualche conclusione non definitiva
Dovrebbe ormai essere evidente a tutti che non si tratta di indicazioni utopiche o di visioni ambientaliste estreme, ma che il progredire del degrado e della capacità distruttiva delle società più industrializzate mette talmente a rischio la sopravvivenza degli esseri umani sul pianeta che dobbiamo introdurre delle innovazioni radicali nei comportamenti diffusi nelle nostre società.
Alcun atteggiamenti per fortuna stanno cambiando, ma siamo ancora lontani dall’avere interrotto i meccanismi più gravi di danno ambientale e una riflessione urgente su questi problemi deve pervadere immediatamente la politica e le sedi decisionali, specie quelle relative ai processi economici. Le prossime elezioni potrebbero sostituire la sede opportuna per affrontare temi così troppo a lungo trascurati, ma al momento non vi è traccia di una qualunque sensibilità su questo versante, anzi sembra proprio che questi problemi vengano accuratamente taciuti o ignorati.
A loro volta i movimenti della società civile, le cui analisi da tempo evidenziano gli aspetti e le urgenze qui richiamati, non si stanno organizzando per affrontare i problemi più rischiosi con mezzi adeguati alla loro pericolosità, non incalzano a sufficienza le forze politiche su queste tematiche, non prendono iniziative di sensibilizzazione di massa per far emergere spinte significative e durature dal basso. Forse è tempo di una seria e preoccupata analisi sui ritardi e i silenzi che caratterizzano le nostre società in una fase storica così gravida di eventi esiziali.
Alberto Castagnola, economista, è tra i promotori del laboratorio romano Reset (Riconversione per un’economia solidale ecologica e territoriale) e di Comune (per il quale ha scritto anche Economia verde, il nuovo inganno del sistema, Un’interpreazione della corruzione, Un nuovo immaginario.
Su questi temi suggeriamo la lettura di La conversione ecologica e sociale di Guido Viale.
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