Alcune donne sono tornate a “curare i piedi” dei migranti della Rotta balcanica. Hanno imposto un fatto compiuto, difficile da definire e da impedire da parte delle istituzioni. Quel gesto ci ricorda che abbiamo bisogno di una nuova cultura politica, fatta di cura reciproca e di cura per la terra. Sarebbe un errore sottovalutare la profonda valenza politica di quei gesti

Sospesa forzatamente l’attività dell’associazione Linea d’Ombra, dopo una breve assenza dai luoghi nei quali si raccolgono i migranti, due volontarie dell’associazione, ma necessariamente a titolo personale, hanno ripreso a curare i migranti alla stazione di Trieste, a pochi metri dall’ufficio della polizia ferroviaria.
Non sono state multate e allontanate. Hanno dovuto esibire una giustificazione scritta: “Esecuzione di interventi essenziali nei confronti di persone in grave stato di necessità”. Accettata per una volta, poi per due, per tre. Dopo tre giorni, la polizia ha detto: ultimo giorno. Il giorno seguente la giustificazione è stata accettata ancora e anche per un medico. I poliziotti si sono mossi soltanto per impedire “assembramenti”, ma hanno lasciato fare. Per quindici giorni, finora…

Chi ha deciso di tornare alla stazione a “curare i piedi”, i piedi rovinati dalla Rotta balcanica, ha imposto un fatto compiuto. Un fatto difficile da definire da parte delle istituzioni, certamente relegato nel recinto delle opere pietose, dal timbro religioso e muliebre. Ne va invece estratto, e sventolato come una piccola bandiera, il significato politico.
Toccare un corpo. Curare un corpo, in tutti i sensi. Un gesto materno. Certamente, il punto di partenza è questo. Non a caso sono due donne, adesso, o diverse donne, come in Linea d’ombra, prima. È qualcosa di più. Molto di più.
Dobbiamo agire per diffondere e generalizzare una pratica essenziale, storicamente delegata alle donne, come elemento fondamentale della loro chiusura nel “domestico”, per metterne pienamente in luce la profonda valenza politica radicale, nel significato letterale della parola: agire alle radici dell’umano, di quell’umano così spesso crollato in rovina nei momenti essenziali.
Sembra un gesto modesto, persino umile, da “buone donne”. Bisogna svelarne la valenza “rivoluzionaria”, anche se non sappiamo più che cosa possa significare questa parola. Forse possiamo cercarne un nuovo significato proprio qui, nell’’umile’ – da humus, terra –, nel terrestre gesto della cura – in una terra devastata come è quella di oggi, proprio di oggi, di cui è sintomo, imprevisto ma prevedibile, l’epidemia virale.
È “rivoluzionario” (preferisco mantenere le virgolette) tornare all’elementare, all’essenziale rapporto con i corpi, che ha la sua matrice vitale ed esistenziale nel rapporto tra l’infante e chi si occupa di lui, nella fase originaria e fondamentale della vita. Sappiamo che una scarsa cura nell’infanzia produce danni gravi, indelebili, a chi poi diventerà adulto. Basta guardarsi intorno per vedere che danni gravi sono stati fatti e continuamente si fanno. Ovviamente, c’è molto altro nell’azione politica, ma è evidente come capire o scoprire la valenza politica dei rapporti nell’infanzia sia molto importante.
Non è una cosa nuova, ma è un tema rimasto secondario. L’aveva già capito, tra gli altri, Jean-Jacques Rousseau, nel suo Emilio, ma proprio lì gli casca l’asino e mostra spietatamente i limiti della sua visione democratica, con la concezione della donna come essere inferiore, relegato tra le mura domestiche. Limiti della visione democratica illuministica che appariranno poi nella rivolta degli schiavi neri di Haiti, colonia francese. Le donne e i neri come inferiori, il genere e la razza.
La cura ha, essenzialmente, a che fare con i corpi, con il contatto fra corpi. La cura del corpo ferito, prima di tutto, del corpo di dolore; ma anche del corpo che ha bisogno di cibo, scarpe, indumenti: di tutto ciò che è essenziale per continuare il cammino verso la promessa di vita.
La cura è tattile, corpi che si toccano per sanare ferite, per nutrire, per vestire. In questa tattilità, che supera le barriere delle culture, c’è qualcosa di elementare e di profondo. Non va considerato marginale rispetto all’azione politica, va messo al centro. Di sicuro non come unico gesto politico, al centro di azioni complesse che non possono non contemplare anche i momenti duri, violenti, del conflitto: ma un gesto che restituisce all’azione politica, nella sua complessità, il suo senso profondo.
Siamo corpi che si toccano sulla terra.
Insegnante di filosofia, Gian Andrea Franchi da alcuni anni con Lorenza Fornasir promuove periodiche azioni lungo la rotta balcanica con cui portare medicinali e scarpe ai migranti in Bosnia e creare relazioni. Ha aderito alla campagna 2019 di Comune Ricominciamo da tre: “Reti di relazioni come Comune sono strumenti importanti, anzi essenziali, come contributo alla costruzione di pezzi di quella società solidale di cui c’è un bisogno vitale”.
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