La scuola fuori dall’aula è necessaria, non accessoria. E non solo per ridurre il contagio. “L’educazione è un processo naturale effettuato dal bambino e non è acquisita attraverso l’ascolto di parole – scrive Maria Montessori -, ma attraverso le esperienze del bambino nell’ambiente… Per cominciare offriamogli il mondo”
“L’educazione è un processo naturale effettuato dal bambino e non è acquisita attraverso l’ascolto di parole, ma attraverso le esperienze del bambino nell’ambiente” (Maria Montessori). Se ci fosse un frigorifero nel luogo in cui gli insegnanti si trovano a lavorare ogni giorno con bambini e bambine, quella frase andrebbe appesa lì, con una bella calamita ricordo di un qualche viaggio importante. E anche: “Il metodo non si vede: ciò che si vede è il bambino […] si vede l’anima del bambino che, liberata dagli ostacoli, agisce secondo la propria natura” (M.M.).
L’educazione (e con essa l’apprendimento) è allora un processo naturale, si nasce programmati per imparare, per porre e porsi domande, per fare ipotesi e verificarle, per esplorare. Ma occorre spazio perché questo possa accadere, spazio esterno sì, ma prima di tutto quello interno, perché gli ostacoli che inibiscono quell’andare spontaneo della mente e del corpo non sono solo nelle pareti di un’aula disadorna con la campanella a stabilire il cosa e quando e come imparare, ma prendono forma in domande artificiose, in risposte non autentiche, in aiuti non richiesti, in troppe parole o nei troppi silenzi. Per chi da montessoriana laica come sono io abita la scuola sapendo che dobbiamo sempre scegliere dove metterci quando si parla di educazione e di metodi che metodi non sono, neppure secondo chi ha aperto quelle strade a cui è stata messa un’etichetta.
Scrive ancora Maria Montessori: “Se si abolisse non solo il nome ma anche il concetto comune di metodo per sostituirvi un’altra indicazione, se parlassimo di un aiuto affinché la personalità umana possa conquistare la sua indipendenza, di un mezzo per liberarla dall’oppressione dei pregiudizi antichi sulla educazione, allora tutto si farebbe chiaro”. Ecco, di nuovo: la natura del bambino, della sua mente assorbente che può compiere il proprio lavoro solo a condizione che sia rispettato il bisogno di avere alla giusta distanza adulti capaci di preparare in modo intenzionale e allo stesso tempo lasciar accadere le esperienze del bambino in un ambiente autentico. In questo modo quello spazio esterno specchio di quello che abbiamo creato dentro di noi diventa il cantiere per quel piccolo costruttore di sé e del suo sapere che ci è affidato, da maestri e maestre, per qualche prezioso anno.
Bisogna offrirgli cose grandiose. “Per cominciare offriamogli il mondo”, diceva la dottoressa marchigiana che avrebbe compiuto centocinquant’anni poche settimane fa. Per cominciare, non alla fine. Mostriamo ai bambini la connessione tra gli elementi dell’Universo intero, perché è solo dalla comprensione e dal fare esperienza di quella connessione che egli potrà maturare la coscienza di essere parte responsabile di un sistema complesso e interdipendente.
Allora è lì fuori, in un’aula molto più grande di quella destinata loro e a noi nei locali scolastici, che può accadere di mettere ordine tra le parti anziché incontrarle come contenuti privi di qualsiasi forma di unitarietà, nonostante quel passaggio chiaro e straordinario e spesso rimosso delle Indicazioni Nazionali “insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza – l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia – in una prospettiva complessa, volta cioè a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme”.
Se questo è, e lo è, il nostro compito, la scenografia dell’azione educativa su cui dovremmo costruire copioni di senso, allora la scuola fuori dall’aula è necessaria, non accessoria. Solo nel fuori trova coerenza con se stessa e con le direzioni e gli orizzonti che le sono affidati.
I maestri tutti dell’attivismo di ieri e di oggi ci dicono con chiarezza che è il bambino che impara più di quanto sono io ad insegnare, tuttavia le sue esperienze nell’ambiente possono diventare realmente mattoni della casa che sta metaforicamente costruendo solo se non sono esperienze casuali, disordinate, mosse da un generico impulso verso attività piacevoli o gratificanti. Chiedersi come apprende un bambino è la domanda madre a cui non possiamo sottrarci soprattutto nel momento in cui decidiamo di lasciarci alle spalle libri di testo, schede fotocopiate e banchi in fila verso la cattedra. Nel rispondere a quella domanda – come impara un bambino? – dobbiamo essere capaci di onestà e coerenza intellettuale e operativa.
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Occorre, nel pensare e fare esperienze di apprendimento outdoor, sapere cosa deve accadere in quell’aula più grande che sta fuori dalle mura perimetrali della scuola, occorre che noi per primi sappiamo attraversare lo spazio della geografia, della storia, delle lingue, dell’arte, delle scienze e della letteratura, della matematica e della musica senza la rete di protezione del libro di testo ma poggiando su una formazione autentica che ci dia vera familiarità con il sapere a cui vogliamo avvicinare i nostri bambini e ragazzi. E dove non il nostro sapere è debole, metterci ad imparare, cercare anche per noi stessi piccoli e significativi cantieri dove trovare attrezzi e mattoni per la nostra magari traballante architettura di conoscenze e canali di apprendimento efficaci.
Ritornare o andare per la prima volta, in un laboratorio artigiano, su un sentiero di montagna, in un bosco, in un atelier di pittura o in cerca di reperti, osservare il cielo e le sue leggi o quelle giù in basso sulla terra tra i viventi piccoli e grandi. E poi nutrirci di poesie e narrazioni, di musiche d’autore.
Abbiamo grande bisogno di liberare noi stessi dalle briglie di quelle pagine dove tutto il sapere è già sintetizzato, riformulato, un po’ predigerito, e di quelle aule anche loro in fila lungo un corridoio, abbiamo bisogno di sentirci al sicuro nella nostra preziosa funzione anche e soprattutto nell’offrire ai nostri bambini la possibilità di sperimentare scoperte, di mettere le mani sui concetti dopo averne fatto noi stessi esperienza.
Non credo possa avvenire alcuna vera trasformazione pedagogica e didattica per decreto, neppure per decreto illuminato come purtroppo ci conferma il debole riconoscimento orientativo delle Indicazioni Nazionali nelle pratiche quotidiane delle scuole italiane, ma credo non possa avvenire neppure per ribellione o per fuga dalle norme un po’ claustrofobiche di questo tempo che finiscono forse con il legittimare quelle delle prassi più diffuse – ben prima della pandemia – finora implicite e non scritte.
Occorre, e con grande urgenza, avviare individualmente e come comunità scolastiche una personale e professionale esperienza trasformativa per poter essere noi le gambe su cui possa camminare una scuola che sappia pensarsi e agire dentro un territorio e una comunità larga e integrata. Così che fare scuola oltre i confini dell’aula possa essere in modo non occasionale e improvvisato il modo più alto e profondo per poterci degnamente chiamare maestri e maestre.
Sonia Coluccelli, insegnante di scuola primaria, coordina la Rete scuole Montessori dell’alto Piemonte, è Responsabile formazione della Fondazione Montessori Italia e fa parte della Rete di Cooperazione Educativa. È autrice, tra l’altro, di Un’altra scuola è possibile? (LeoneVerde), Il metodo Montessori oggi e Montessori incontra… (Erickson). Altri suoi articoli sono leggibili qui.
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