È sempre stato molto difficile circoscrivere e delimitare la violenza, separando nettamente i contesti nei quali è preparata e legittimata, a cominciare dalle guerre, e i contesti in cui è vietata e sanzionata, come le relazioni tra le persone e tra i sessi. Non è un caso che da Virginia Woolf a Rosa Luxemburg, da Lidia Menapace a Michela Murgia, la consapevolezza del continuum della violenza fa parte da sempre del pensiero e delle pratiche del femminismo, nel quale la lotta al patriarcato va di pari passo con la lotta al militarismo, come facce complementari della stessa medaglia. Cosi come le tecniche della nonviolenza sono – e in maniera originaria – patrimonio dei movimenti delle donne
“A dispetto di tutti gli sforzi profusi per circoscrivere l’uso della violenza al rango di mezzo anziché di fine, l’attuazione della violenza come mero mezzo diventa inavvertitamente fine a se stessa, producendo nuova violenza, riproducendola, reiterando la licenza e autorizzando altra violenza. La violenza non si esaurisce nella realizzazione di un dato obiettivo; al contrario si rinnova in direzioni che eccedono tanto le intenzioni deliberate quanto gli schemi strumentali. (…) L’uso della violenza serve solo a rendere il mondo un luogo più violento, introducendovi ulteriore violenza”. Lo scrive la filosofa Judith Butler ne La forza della nonviolenza (2020) evidenziando quanto sia difficile circoscrivere e delimitare la violenza, separando nettamente i contesti in cui è preparata e legittimata, per esempio le guerre, e i contesti in cui è vietata e sanzionata: le relazioni tra le persone e tra i sessi. La violenza è il tremendo contenuto di un vaso di Pandora che, una volta aperto, si diffonde e contamina tutte relazioni, generazione dopo generazione.
Non a caso, da Virginia Woolf a Rosa Luxemburg, da Lidia Menapace a Michela Murgia, la consapevolezza del continuum della violenza fa parte da sempre del pensiero e delle pratiche del femminismo, nel quale la lotta al patriarcato va di pari passo con la lotta al militarismo, come facce complementari della stessa medaglia, fondata sul primato della violenza in quanto strumento regolatore tanto delle relazioni interpersonali quanto di quelle internazionali. Cosi come le tecniche della nonviolenza sono – e in maniera originaria – patrimonio dei movimenti delle donne. Lo stesso Mohandas Gandhi apprese i rudimenti della disobbedienza civile osservando, da giovane studente di giurisprudenza a Londra, le lotte delle suffragiste inglesi per la conquista del diritto al voto. Da allora in avanti, oltre che nei movimenti specifici per i diritti e il superamento del patriarcato, “le donne si trovano regolarmente in prima linea nell’ambito dei movimenti di resistenza civile” in vari paesi del mondo, scrive la ricercatrice Erica Chenoweth (2023), dando forza, radicamento e creatività alle campagne di resistenza civile contro tutte le forme di oppressione.
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Tuttavia oggi, nel nostro Paese, nonostante il dolore e l’indignazione per i femminicidi che non si fermano, non possiamo non riconoscere – come scritto anche in occasione delle Giornata internazionale della nonviolenza – che il fatto che i conflitti interpersonali non si risolvano con la violenza, ossia con la soppressione dell’altro/a, i dati calanti degli omicidi anno dopo anno ci dicono che sia un apprendimento in via di progressiva acquisizione, a dispetto dei reiterati allarmi sicurezza. Ciò che persiste e si aggrava, invece, è la contraddizione profonda tra la violenza interdetta, censurata e punita nelle relazioni interpersonali e quella ammessa e anzi costantemente preparata nelle relazioni internazionali.
La cosiddetta “violenza etica” (Butler, 2006) ribalta i principi fondamentali di convivenza civile, bene o male appresi fin da bambini dei quali, sul piano miliare, si pretende l’immediato dis-apprendimento e i cittadini sono spinti ad esercitare (o sostenere a distanza) la violenza della guerra nei confronti del nemico di volta in volta designato dai governi. Il loro rifiuto di combattere è sanzionato, come avviene, per esempio agli obiettori di coscienza in Russia, in Ucraina, in Israele. Ma anche il solo dirsi pacifisti è considerato simpatia per il nemico, come accade in Italia. Come dice Charlie Chaplin in Monsieur Verdoux “un omicidio è delinquenza, un milione è eroismo. Il numero legalizza, mio caro amico”.
In questo scenario di violenza culturale e di propaganda di guerra, al di là delle poche e facoltative ore ideate dal ministro Valditara di “educazione alle relazioni”, il ruolo della scuola e dell’educazione riguarda l’impegno consapevole per realizzare quel necessario salto di civiltà volto a mettere la violenza, in tutte le sue dimensioni tra i ferri vecchi della storia. Per fare questo, è necessario, per un verso, coltivare solidi anticorpi capaci di resistere alle sirene della violenza e del bellicismo, per altro verso praticare relazioni nonviolente e, contemporaneamente, coltivare la capacità di prefigurare un’altra storia possibile.
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Ecco, solo per titoli, alcuni degli elementi costitutivi interdisciplinari, ossia trasversali ai diversi insegnamenti, di una possibile educazione nonviolenta multidimensionale: educare alla complessità, al pensiero critico, alla responsabilità; educare all’empowerment, a considerare e trattare l’altro/a sempre come un fine e mai come un mezzo, al disarmo in tutte le relazioni; educare all’umanizzazione dell’avversario, alla trasformazione nonviolenta di tutti i conflitti; rileggere gli insegnamenti curricolari anche in ottica nonviolenta, a cominciare dalla storia; formare personalità nonviolente che possano prendersi cura del mondo e dell’umanità. Si tratta, complessivamente, di prendere sul serio l’incipit dell’Atto costitutivo dell’Unesco: “Poiché le guerre hanno inizio nella mente degli uomini è nella mente degli uomini che bisogna costruire le difese della pace”. E le alternative alla violenza in tutte le sue forme.
Pubblicato anche su un blog del fattoquotidiano.it
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Fiorella Palomba dice
Sono convinta, come scritto dall’autore di questa nota, che si debba partire dall’educazione in famiglia e a scuola.
A scuola, però, non istituendo una disciplina specifica per l’educazione sentimentale/sessuale come proposto dall’attuale ministro.
Massimo Recalcati ha prescisato di recente, in modo limpido il ruolo della scuola al proposito: l’educazione sentimentale deve attuarsi nei comportamenti e negli esempi, come nell’educazione civica. ?