A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina, dice una nota citazione attribuita a Giulio Andreotti, che però ha quasi certamente radici perfino più clericali e antiche: Achille Ratti, primo sovrano della Città del Vaticano, quel Pio XI che, due giorni dopo la Marcia fascista su Roma, fece scrivere all’Osservatore Romano che il papa “si tiene al di sopra delle parti, ma rimane la guida spirituale che sempre presiede ai destini delle nazioni”. Qualcuno, nel 1922, avrà certo pensato alla non ingerenza, ma “al di sopra delle parti” comunicava e significava ben altro, forse, chissà, perfino al di là delle intenzioni. Non sappiamo, e poco ci interessa saperlo, se anche a parlar male si faccia peccato, quel che però non andrebbe taciuto è che non ci si “indovina” affatto. In modo particolare quando, ad esempio, si finisce per indebolire e logorare il certosino lavoro di de-costruzione che da decenni s’è fatto sul linguaggio in un sistema ideologico e semantico come quello razzista. Un sistema che poggia in misura rilevante su una vera e propria montagna di parole manipolate, strumentalizzate, distorte senza alcuna ingenuità. Annamaria Rivera, una delle studiose militanti che hanno dedicato diversi decenni a quella de-costruzione per fini tutt’altro che accademici, se ne duole da sempre. Qualcuno tra i suoi lettori più fedeli troverà perfino ripetitivo il suo accorato insistere sul tema, la verità è che i discorsi sul cibo e le società “multietniche” – laddove gli “etnici” son sempre gli altri e le altre -, mostrano ben altra dolente e pervasiva ripetitivà

Per ciò che riguarda migrazioni, diritti dei/delle migranti, razzismo e antirazzismo, il discorso pubblico italiano, anche nelle sue varianti non-razziste, spesso sembra atteggiarsi come se ogni volta fosse la prima: gli antefatti e lo sviluppo di questo o quell’accadimento, di questo o quel problema, di questa o quella rivendicazione, di questo o quel concetto sono semplicemente rimossi.
Una tale smemoratezza, per così dire, non riguarda solo le retoriche pubbliche maggioritarie, ma talvolta influenza l’atteggiamento e il discorso delle minoranze attive, riflettendosi anche nel linguaggio e nel lessico, influenzati dalla vulgata mediatica e perfino dal gergo del senso comune.
Mentre li credevamo archiviati grazie a un lungo lavoro critico, tornano in auge formule e vocaboli legati a schemi interpretativi, anche spontanei, del tutto infondati. Non potendo riportarne l’intero catalogo, ci soffermiamo solo su alcuni.
Razza-razziale
Il razzismo è anzitutto un’ideologia, quindi una semantica: è costituito da parole, nozioni, concetti. Sicché l’analisi critica, la decostruzione e la denuncia del sistema-razzismo hanno obbligatoriamente un versante lessicale e semantico. Così se tu parli di discriminazione razziale, invece che razzista, puoi finire inconsapevolmente per legittimare la nozione e il paradigma di “razza”, suggerendo l’idea che a essere discriminate siano persone differenti per “razza”.
A incorrere in sbavature lessicali di tal genere possono essere anche locutori che si reputano antirazzisti/e, per di più colti/e; perfino istituzioni e associazioni deputate a contrastare il razzismo o addirittura a promuovere il rispetto di codici deontologici nel campo dell’informazione. Questo appare oggi tanto più paradossale se si pensa che pure in Italia, per iniziativa di un gruppo di antropologi-biologi, poi anche di antropologi culturali, è in corso una campagna per la cancellazione di “razza” dalla Costituzione.
Sebbene la nozione di “razza” sia stata espunta anche dal campo della biologia e della genetica della popolazioni, il suo utilizzo perdura anche in ambienti intellettuali e/o perfino “di sinistra” o continua a essere utilizzata secondo un uso banale e pericoloso che non può essere ignorato.
Etnia-etnico-etnicità
Come osserva l’antropologo Mondher Kilani, co-autore, insieme con René Gallissot e Annamaria Rivera, del saggio collettaneo L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave (Dedalo, Bari 2012), l’aggettivo “etnico” suona sinistramente in espressioni quali “pulizia etnica”, “guerra etnica”, “odio etnico”. Inoltre, sia il senso comune che una parte di media e d’intellettuali tendono a considerare i cosiddetti “gruppi etnici” come entità quasi-naturali, connotate da ancestralità e primordiali legami di sangue e di conseguenza ad associarli a una diversità insuperabile. Di conseguenza “etnia” è spesso usata come un eufemismo di “razza”.
Frequente, anche in ambienti antirazzisti, è l’abuso di locuzioni quali “società multietnica”, “quartiere multietnico”, “corteo multietnico”… Sebbene siano usate talvolta in senso intenzionalmente positivo, formule di tal genere rinviano pur sempre a “etnia”: una nozione assai controversa, poiché basata sull’idea che esistano gruppi umani fondati su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria.
In realtà, nei contesti discorsivi mainstream, “etnici” sono sempre gli altri e le altre, i gruppi considerati particolari e differenti dalla società maggioritaria, ritenuta normale, generale, universale. Non è raro che “etnia” sia adoperata, in riferimento alle minoranze, ai rom, alle popolazioni di origine immigrata, come sostituto eufemistico di “razza”. Tanto che perfino nella cronaca della migliore stampa italiana è possibile imbattersi in locuzioni assurde e paradossali quali individui di etnia latinoamericana o addirittura di etnia cinese; mentre mai ci è capitato di leggere di etnia europea o di etnia nordamericana.
In ogni caso, che sia per pregiudizio o per intento discriminatorio, per incompetenza o sciatteria, quando si tratta di qualificare cittadine/i di origine immigrata o appartenenti a minoranze sembra non valere il criterio neutro, o almeno simmetrico, della nazionalità.
Guerra tra poveri
È una delle retoriche più abusate, anche a sinistra, perfino in quella che si pretende colta. Di solito la si adopera in riferimento a due categorie di presunti belligeranti, immaginati come simmetrici, una delle quali è costituita da qualche collettività di migranti o di rom.
L’abuso di questa formula è indizio di un tabù o di una rimozione: si ha difficoltà ad ammettere che il razzismo possa allignare tra le classi subalterne, così da scatenare guerre contro i più poveri. Guerre asimmetriche, non solo perché di solito gli aggressori sono i nazionali, ma anche perché essi, per quanto disagiati possano essere, godono pur sempre del piccolo privilegio della cittadinanza italiana, che conferisce loro qualche diritto in più.
Un tale razzismo – che nella letteratura sociologica è detto “ordinario” o “dei piccoli bianchi” – spesso attecchisce tra coloro che patiscono qualche forma di disagio sociale e/o di marginalità anche spaziale. Favorito da dissennate politiche abitative, urbanistiche, più in generale sociali, spesso è anche fomentato ad arte dagli imprenditori politici del razzismo.
A volte, la formula passe-partout di “guerra tra poveri” non ha la minima base che ne giustifichi l’utilizzo, come avvenne nel noto caso dei ripetuti assalti armati al Centro per rifugiati di Viale Morandi, nel sobborgo romano di Tor Sapienza, nel lontano novembre del 2014. Il tentato pogrom contro adolescenti fuggiti da guerre e altre catastrofi fu spacciato come espressione spontanea della rabbia dei residenti esasperati dal “degrado”, quindi come un episodio della “guerra tra poveri”. In realtà, a dirigere gli assalti, cui partecipò un numero di residenti limitato, fu una squadraccia di “fascisti del Terzo Millennio”, a loro volta probabili esecutori, di mandanti legati a Mafia Capitale.
Poco tempo prima, di “guerra tra poveri” si era parlato, anche a sinistra, a proposito di un crimine particolarmente odioso, accaduto il 18 settembre 2014 alla Marranella, quartiere romano del Pigneto-Tor Pignattara: il massacro a calci e pugni di Muhammad Shahzad Khan, un pakistano di ventotto anni, mite e sventurato, per mano di un bullo di quartiere, un diciassettenne romano, istigato dal padre fascista.
Numerosi sono i precedenti di questo pigro schema interpretativo. Che di volta in volta è stato applicato ai pogrom contro i rom di Scampia (2000) e di Ponticelli (2008), istigati dalla camorra e da interessi speculativi; alla strage di camorra di Castelvolturno (2008); ai gravi fatti di Rosarno (2010), anch’essi fomentati da interessi mafioso-padronali.
Tutto ciò è indizio di un’avversione crescente per le interpretazioni complesse, favorita dal chiacchiericcio social-mediale, che a sua volta contribuisce al crescente conformismo che caratterizza il dibattito pubblico. Il razzismo, si sa, poggia su una montagna costituita anche da cattive parole. Decostruirle e abbandonarle non è fare esercizio astratto di “politicamente corretto” (sebbene quest’ultimo non sia poi così disprezzabile come è di gran moda da tempo far credere), bensì intaccarne il sistema ideologico e semantico.
Cara Annamaria, come sempre utilissimi i tuoi glossari, vorrei invitarti a continuare a decriptare parole e concetti per arricchire la bussola che ci permette di orientare i ragionamenti senza cadere nella trappola di stereotipi e pregiudizi.
Ancora una volta Annamaria affronta il tema del “razzismo” e sue derivazioni, con lucidità e concretezza. Voglio solo aggiungere, con amarezza, che il fenomeno razzismo parte da lontano (come è presente in tutti i testi di antropologica sociale e nelle lucide analisi fatte nel tempo dagli storici e studiosi più illuminati.) Le grandi migrazioni, che portarono milioni di italiani ad andare negli Stati Uniti (solo per fare un limitato esempio.), videro gli stessi patimenti e discriminazioni, che oggi stanno subendo i poveri migranti arrivati qui. Quello, che in passato impressiono’ di più fu la definizione data agli italiani : “non bianchi, ma nemmeno neri”, con tutti i riferimenti pregiudiziali. Ancora oggi ho sentito definire i bianchi, come etnia di origine “caucasica”. Credo infine che il processo di integrazione sia davvero una priorità per tutti gli umani, salvo la disintegrazione della stessa convivenza civile ed umana.
Giusto decostruire. Io, ad esempio, odio la parola “integrazione”, che allude alla assimilazione dei migranti nei nostri valori, negando le loro identità e percorsi antropologici, culturali, umani. Vi è tutto da ricostruire. Noi siamo antichi e del tutto inadeguati. Lo faranno ragazze e giovani cittadini del mondo. Loro sanno come parlare partendo dalla materialità
Fai bene, cara Annamaria, ad insistere, con argomenti sempre fondati e chiari, sul linguaggio e su quanto le parole dicano chi siamo. E di come il cambiare il linguaggio nel corso del tempo della nostra vita, ci dica il nostro esistenziale, civile, politico, cambiamento. Credo, spero di non esprimermi più non dico come al tempo della mia spesso schematica e tranchant gioventù, ma neppure come sicuramente mi è accaduto prima di leggerti, e di ascoltarti. Non escludo di avere fatto uso, in passato, delle espressioni “guerra fra poveri”, ” etnia, etnie”. Ora sono molto più attenta. Su un unico punto, come ho già avuto modo di dirti , non concordo. La parola razza, in Costituzione, va lasciata, con adeguata nota di storicizzazione ed esplicativa. Fu un antirazzista urlo contro il fascista Manifesto della Razza. Il valore di ogni persona è lo stesso, ovunque sia nata, qualunque sia il suo aspetto. Questo spiego sempre, nelle scuole, dove, spesso, ho di fronte a me volti che parlano di tutti i luoghi del mondo. Grazie sempre, Annamaria
Versione francese
Mal parler, même à gauche
https://tlaxcala-int.blogspot.com/2023/10/annamaria-rivera-mal-parler-meme-gauche.html
Mi sembra giusto chein costituzione si sdegui il linguaggio condannando le discriminazioni razziste e omofobe, devo anche io adeguare il mio linguaggio e dire che vivo in un quartiere abitato da persone provenienti da ogni angolo del pianeta e che lavoro in una scuola in cui alla maggior parte delle bambine e dei bambini non è riconosciuta la cittadinsnza italiana.
Infine ai ragione: i fascisti istgano la voolenza razzista di proletari e sottoproletari italiani contro immigrati, rom e sinti. Ti chiedo se i concetti che ora ho espresso siano ora privi di ambiguità.
Cara Annamaria,
con qualche distinzione, peraltro a te ben nota, sulla questione della “razza”, sottoscrivo pienamente ogni tua considerazione, partendo dalla constatazione di un dibattito pubblico che tende a regredire, condizionato da un’agenda politica sulle migrazioni sempre più violenta e lontana dai principi della costituzione. Occorre senz’altro non dimenticare mai le distinzioni che poni, in scia al tuo infaticabile lavoro di studiosa, contrastando questa fastidiosa crociata dilagante contro una presunta dittatura del “politicamente corretto”. Credo sia anche necessario aprirsi sempre di più all’ascolto delle voci di chi continua ad essere razzializzatə o, come diresti tu, razzizzatə.
Grazie Annamaria, è giusto e necessario continuare a sottolineare
criticamente la faciloneria con cui vengono utilizzati certi termini anche in ambienti i quali si definiscono aperti e progressisti.
Anche il termine “Intercultura” andrebbe rivisto nel momento in cui è diventato quasi un sinonimo di immigrazione. Grazie per il tuo costante e importante impegno.
Grazie per aver evidenziato la pericolosità del termine “integrazione”.
ALERT: scrittura creativa!
Ho provato a togliere dal mio lessico le parole etnico, poveri, ricchi, altri ed altre che ora non ricordo, tipo i peccati.
Cosa significa decostruire?
Chi le ha, dia parole nuove, sennò ne risulta una cosa incomprensibile e forse nemmeno buona, tipo una carbonara destrutturata (o decostruira, come preferite).