La mobilitazione diffusa della Società della Cura del 21 novembre scorso ha segnato un punto di discontinuità sostanziale rispetto al passato, sia sulla capacità di presa di parola che di convergenza dei movimenti sociali nel nostro Paese. Bisogna risalire alla primavera dei movimenti di venti anni fa per ritrovare la stessa necessità e le stesse aspettative, anche se in un quadro sociale, economico ed ecologico nettamente peggiorato e con un bagaglio di consapevolezze in più per alimentare l’onda di una mobilitazione permanente.
Le 45 piazze reali e virtuali hanno rimesso assieme concetti rimasti a volte troppo distanti: solidarietà e conflitto, radicalità e ascolto. Migliaia di donne e di uomini sono riusciti a ritrovare, in quei momenti tenuti assieme da una visione e da un collegamento zoom comuni, il senso di profondo di fare collettivo, di essere comunità politica: aperta, solidale, radicale. Ma ancora da consolidare a cominciare dai territori, dalle loro contraddizioni e potenzialità, nella prospettiva di trovare le diverse trasversalità che attraversano e innervano i vari ambiti dell’azione politica del momento presente.
La Società della Cura riporta al centro la questione dell’incompatibilità tra neoliberismo e persone, tra capitale e pianeta, stretti come siamo nella morsa tra un precariato crescente, diritti sociali sempre più limitati e un clima sempre più impazzito.
La convergenza diventa non solo un processo, ma anche uno spazio in cui ridare senso alle parole della politica, in cui riprendere in mano, collegandoli, i vari conflitti e le varie vertenze che hanno costellato gli anni passati del periodo precovid, intrisi di rilancio del Pil, lotta al debito e tagli alle spese sociali. Politiche irresponsabili che se da una parte hanno determinato il disastro a cui stiamo assistendo a causa della pandemia (dagli ospedali sotto pressione alle scuole in balia dei vari dpcm), dall’altra hanno aumentato la schiera degli invisibili, persone con vite e lavori precari, poco utili per la narrazione di un’Italia in ripresa, ma sostanziali per fare cassa sfruttandone capacità e ore di fatica.
Il mondo del lavoro è stato tra i grandi agnelli sacrificali delle politiche precedenti e dell’impatto del covid sulla nostra società. È l’Eurostat a certificare le conseguenze pesanti che la crisi economica riverserà sulle categorie meno protette, soprattutto in Italia (tra i primi posti dei Paesi a rischio in Europa): le lavoratrici e i lavoratori a tempo determinato, i precari, le donne e i giovani fino a ventiquattro anni.
Nonostante il blocco dei licenziamenti, che sta evitando impatti ancora più pesanti sul mondo del lavoro, sarà tutto il comparto dell’irregolare o del formalizzato a tempo a sopportare il carico della crisi attuale.
Ed è all’interno di questo quadro che il conflitto tra capitale e lavoro si riacutizza, perché ogni diritto perso nella categorie più deboli è una breccia aperta per disarticolare le condizioni di lavoro delle figure più strutturate.
In questa direzione va anche il tentativo di Confindustria di premere verso una sempre maggiore contrattazione aziendale, indebolendo la contrattazione collettiva e nazionale.
Nonostante la pandemia, e la retorica dell’andrà tutto bene, le imprese e la loro organizzazione di categoria hanno creato le condizioni perché il peso del rallentamento economico sia distribuito in forma ineguale.
Esempio solare è il ritardo cronico per il rinnovo dei contratti di lavoro: secondo i dati CNEL dell’agosto 2020, il 61,6% dei contratti collettivi nazionali di lavoro risultava scaduto al 30 giugno.
Gli accordi in attesa di rinnovo erano 576 su 935. In pieno Covid, appena usciti dal lockdown e dai cori applauditi dai balconi, dietro la retorica dell’Italia unita contro la pandemia, gli interessi delle imprese rimanevano prioritari rispetto al diritto di vedersi riconosciuta una paga adeguata.
La stagione dei rinnovi contrattuali si riaprirà solamente con l’autunno, e alla vigilia della seconda ondata pandemica. Unendo disagio a disagio.
In tutto questo scenario rimane al centro il tema del lavoro giusto e dignitoso, della sua conciliazione con i tempi di vita, del riconoscimento dello spazio riproduttivo, che porta con sé anche la questione delle relazioni sociali di genere dove si rendono ancora più evidenti e cristallizzati i rapporti verticali, gerarchizzati e fortemente diseguali che esistono nei luoghi del lavoro, soprattutto se precario, irregolare o intermittente.
Disarticolare con il conflitto sociale quella cristallizzazione e quella diseguaglianza è alla base della costruzione di una società della cura, capace di rivedere l’ordine di priorità tra diritti e profitti.
Come è stato dimostrato dalle lotte dei rider per il riconoscimento delle loro tutele e dei tentativi di riportarli a miti consigli da accordi farsa come quello tra Assodelivery e il sindacato di destra Ugl, immediatamente sconfessato dalle lavoratrici e dai lavoratori e da alcune aziende del settore.
O i recenti scioperi del comparto della logistica, da anni in lotta contro i livelli di sfruttamento e per aumentare le condizioni di sicurezza, soprattutto in periodo pandemico. Due esempi che, assieme alla recente vertenza Whirlpool, mostrano come la lotta per i diritti del lavoro sia uno degli elementi fondanti per la nascita di una società della cura.
La convergenza dei movimenti, che si è esplicitata con le mobilitazioni del 21 novembre come prima tappa di un percorso permanente, può svolgere un ruolo sostanziale di ricucitura delle lotte, delle vertenze, contribuendo a inserirle in un quadro più ampio che parla di una società dei diritti per tutte e per tutti.
E ritrovando i punti di contatto e trasversalità tra le agende dei diversi soggetti e movimenti che stanno alimentando questo processo: solidarietà, equità, ma soprattutto conflitto.
Perché il cambiamento sociale passa per la rottura degli equilibri esistenti, al di fuori della retorica perbenista del “siamo tutti sulla stessa barca”.
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